sabato, dicembre 09, 2006

Su Napoli

Volevo riassumere in questa sede varie mie osservazioni sugli ultimi post su Napoli.
1) Sono d'accordo con Salvatore sul profondo legame tra organizzazioni malavitose e sistema capitalistico. Tuttavia la difesa dello Stato sociale va fatta e tale difesa serve anche a consentire l'organizzazione politica di un soggetto antagonistico che manca. Quanto alle conseguenze di una legalizzazione delle droghe non rischiamo di dire poi che è meglio l'affare droga che almeno fa stare tranquille le parti disagiate della società ?
Può anche essere che con i proventi di un ticket sanitario si possano finanziare programmi sociali per l'occupazione e sanare in piccola parte la disoccupazione forzata dell'indotto camorristico. C'è poi da dire che spesso il pusher è il minore (che non deve lavorare) o il drogato stesso (che "lavora" per procurarsi la droga, ma se gliela diamo a prezzo stracciato?). Comunque sono d'accordo con Salvatore sul fatto che la mancanza di un soggetto antagonistico è un handicap notevole.
2) Sono d'accordo con Lunanera che il problema dell'occupazione è centrale (come pure del reddito minimo, che non può essere così ridicolo, nè può essere dato al solo capofamiglia, nè può essere una iniziativa della sola regione che non ha risorse). Quanto alla militarizzazione del territorio la cosa è caduta da sè, come meritava. E il fatto che ci sia una manovra contro il blocco bassoliniano di potere è un altra cosa evidente a tutti. Forse i Diesse e la Margherita vogliono normalizzare la satrapia campana, che ha generato schieramenti trasversali localistici che scavalcano le segreterie nazionali dei partiti
3) Quanto alla partecipazione politica credo che anche questo sia un problema forte, ma non si può minimizzare la questione della necessità comunque di una forte spesa pubblica. Il clientelismo si alimenta quando la spesa pubblica è insufficiente. Senza contare il fallimento del sistema scolastico nella formazione della cittadinanza, handicap che ci costringe a diversioni e a notevoli allungamenti di percorso

venerdì, dicembre 01, 2006

Una critica alla Finanziaria da sinistra : l'appello degli economisti

Abituati ormai a difendere la Finanziaria dagli attacchi della Destra del paese, ma anche da quella infida dello schieramento dell'Unione, non riflettiamo abbastanza sulla possibilità di svolgere una critica alla Finanziaria ed ai suoi presupposti da Sinistra.Per questo cominciamo col ripubblicare il manifesto degli economisti, pubblicato sul Manifesto del 25 Agosto di quest'anno.Credo che fare questo alla vigilia di una manifestazione della Destra, non insidiosa in sé, ma tale per il fatto che darà legittimazione a chi nella coalizione di governo sta manovrando per neutralizzare la vocazione redistributiva propria dell'istanza che ha portato l'Unione al governo di questo paese

Ecco dunque il manifesto:

L’esito delle elezioni politiche di aprile e l’insediamento del Governo Prodi hanno suscitato presso la maggioranza degli italiani una forte aspettativa di rilancio dell’economia e di ridefinizione degli indirizzi di politica economica a fini di equità e di coesione sociale.
A questo scopo si rendono indispensabili provvedimenti coraggiosi ed incisivi: un programma di legislatura che preveda ampi investimenti nel sistema delle infrastrutture materiali e immateriali, nell’istruzione, nella formazione e nella ricerca scientifica e tecnologica; un indirizzo di politica industriale che spinga il nostro tessuto produttivo verso un modello di sviluppo fondato sulle nuove tecnologie, e che risulti equilibrato sul piano ambientale e territoriale; una diversa disciplina del mercato del lavoro e delle relazioni industriali che ripristini le condizioni per la crescita dei salari reali, per il superamento di una logica produttiva fondata sulla precarietà del lavoro, per il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e più in generale degli strumenti di welfare.
Si tratta di interventi necessari, inderogabili, per il cui perseguimento occorrono impegno e risorse.
La nostra preoccupazione è che il Governo si stia orientando verso una politica generale delle finanze pubbliche che precluderebbe ogni possibilità di fornire risposta alle reali esigenze del Paese. Dal Documento di programmazione economica e finanziaria sembra infatti emergere una pesante manovra di finanza pubblica volta a realizzare un rapido abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il perseguimento di un simile obiettivo richiederebbe l’accumulo di avanzi primari annuali estremamente ampi. Ciò implicherebbe tagli significativi alla spesa pubblica, incrementi del prelievo fiscale non reimpiegabili nell’economia e, presumibilmente, ulteriori dismissioni e privatizzazioni.
Se questo tipo di orientamento prevalesse gli effetti sul sistema economico e sociale potrebbero rivelarsi deleteri. Da un lato, si avrebbe una ulteriore compressione della domanda aggregata e quindi dei livelli di attività economica, con riflessi negativi sullo stesso bilancio pubblico. Dall’altro, si rinuncerebbe ad impiegare risorse reali e finanziarie in politiche strutturali utili al rilancio e allo sviluppo economico-sociale.
Ci preme mettere in luce che questa strada non è per nulla obbligata. Non sussistono, infatti, né vincoli istituzionali né imperativi tecnico-economici che impongano un abbattimento del debito.
In primo luogo, l’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato.
In secondo luogo, l’analisi economica mostra che non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi d’interesse e i tassi di crescita del reddito, esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e del debito, tutte sostenibili sul piano della stretta logica economica. Questo significa che i vincoli del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal Trattato dell’Unione, non godono in quanto tali di alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce, pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e diversa valutazione in sede politica, nazionale ed europea. A questo riguardo, è opportuno ricordare che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni.
Non vi sono dunque ragioni valide per imporre al Paese un’azione di drastico abbattimento del debito; il nostro sistema economico attende piuttosto una ripresa responsabile, razionale, innovatrice, dell’intervento pubblico nell’economia. A questo scopo, noi proponiamo che il Governo fissi come obiettivo generale di legislatura non l’abbattimento ma la sola stabilizzazione del debito rispetto al Pil, determinando conseguentemente il valore del rapporto tra deficit e Pil. L’eventuale esigenza di ulteriori riduzioni del rapporto tra deficit e Pil - da verificare nelle sedi del Parlamento nazionale, della Commissione e del Consiglio europeo - andrebbe comunque esaminata tenendo conto della mancata applicazione di sanzioni nei confronti di quei paesi membri che negli anni passati presentavano “disavanzi eccessivi”. Inoltre, più in generale, qualsiasi intervento sul disavanzo andrebbe valutato alla luce della necessità di muoversi sempre ed esclusivamente in termini anti-ciclici rispetto all’andamento dell’economia e di sostenere più elevati sentieri di sviluppo del reddito e dell’occupazione.
Sono queste, riteniamo, le opzioni di finanza pubblica che nella presente situazione risultano compatibili con i fondamentali obiettivi di sviluppo economico del Paese e di rispetto dei più elementari principi di equità e di giustizia sociale.
Adesioni
Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Roberto Ciccone (Università di Roma Tre), Nicola Acocella (Università di Roma “La Sapienza”), Roberto Artoni (Università Bocconi di Milano), Enrico Bellino (Università Cattolica di Milano), Mario Biagioli (Università di Parma), Adriano Birolo (Università di Padova), Paolo Bosi (Università di Modena e Reggio Emilia), Dino Bruno (economista), Mario Cassetti (Università di Brescia), Saverio Catalano (economista), Luigi Cavallaro (editorialista), Valerio Cerretano (Libera Università di Bolzano), Sergio Cesaratto (Università di Siena), Laura Chies (Università di Trieste), Guglielmo Chiodi (Università di Roma “La Sapienza”), Francesca Corrado (Università di Modena e Reggio Emilia), Carmela D’Apice (Università di Roma Tre), Fabio D’Orlando (Università di Cassino), Pasquale De Muro (Università di Roma Tre), Giancarlo de Vivo (Università di Napoli “Federico II”), Amedeo Di Maio (Università di Napoli “L’Orientale”), Leonardo Ditta (Università di Roma “La Sapienza”), Maria Giuseppina Eboli (Università di Roma “La Sapienza”), Marianna Epicoco (Università di Milano), Sergio Ferrari (ENEA), Stefano Figuera (Università di Catania), Luciano Fiordoni (economista MPS), Massimo Florio (Università di Milano), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), Guglielmo Forges Davanzati (Università di Lecce), Saverio M. Fratini (Università di Roma Tre), Andrea Fumagalli (Università di Pavia), Pierangelo Garegnani (Università di Roma Tre), Francesco Garibaldo (Istituto per il Lavoro), Giorgio Gattei (Università di Bologna), Augusto Graziani (Università di Roma “La Sapienza”), Bruno Jossa (Università di Napoli “Federico II”), Loris Landriani (Università di Napoli Parthenope), Antonio Lavorato (economista), Riccardo Leoncini (Università di Bologna), Sergio Levrero (Università di Roma Tre), Sabatino Massimo Longobardi (Université de Paris 1), Stefano Lucarelli (Università Politecnica delle Marche), Vincenzo Maffeo (Università di Roma “La Sapienza”), Sandro Magni (economista), Giovanni Mazzetti (Università della Calabria), Franca Meloni (Università di Napoli “Federico II”), Luca Michelini (Università LUM), Nerio Naldi (Università di Roma “La Sapienza”), Guido Ortona (Università del Piemonte Orientale), Giulio Palermo (Università di Brescia), Antonella Palumbo (Università di Roma Tre), Marco Passarella (Università di Firenze), Sergio Parrinello (Università di Roma “La Sapienza”), Rosario Patalano (Università di Napoli “Federico II”), Fabio Petri (Università di Siena), Antonella Picchio (Università di Modena e Reggio Emilia), Marco Piccioni (Università di Napoli “Federico II”), Francesco Pingue (Università di Napoli “Federico II”), Massimo Pivetti (Università di Roma “La Sapienza”), Felice Roberto Pizzuti (Università di Roma “La Sapienza”), Corrado Poli (Università di Bergamo), Giuseppe Privitera (Università di Catania), Paolo Ramazzotti (Università di Macerata), Fabio Ravagnani (Università di Roma “La Sapienza”), Angelo Reati (economista), Roberto Romano (Ufficio Studi Cgil), Giorgio Roverato (Università di Padova), Eleonora Sanfilippo (Università di Roma “La Sapienza”), Alessandro Santoro (Università di Milano Bicocca), Francesco Scacciati (Università di Torino), Ernesto Screpanti (Università di Siena), Riccardo Soliani (Università di Genova), Arsenio Stabile (Università di Siena), Antonella Stirati (Università di Roma Tre), Francesca Stroffolini (Università di Napoli “Federico II”), Cristina Tajani (Università di Milano), Mario Tiberi (Università di Roma “La Sapienza”), Guido Tortorella Esposito (Università del Sannio), Attilio Trezzini (Università di Roma Tre), Enzo Valentini (Università Politecnica delle Marche), Carlo Vercellone (Université de Paris 1), Giovanna Vertova (Università di Bergamo), Carmen Vita (Università del Sannio), Adelino Zanini (Università Politecnica delle Marche).
La proposta di stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e Pil è stata originariamente avanzata da Luigi Pasinetti in un articolo del 1998 pubblicato sul Cambridge Journal of Economics, dal titolo “The mith (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht parameter”. La proposta è stata quindi rilanciata in sede politica e ulteriormente sviluppata da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo, a partire da un articolo dal titolo “Il debito pubblico non va abbattuto”, pubblicato su Liberazione del 20 novembre 2004.
Promosso da Sergio Cesaratto e Riccardo Realfonzo, in collaborazione con il manifesto, il convegno “Rive Gauche” del 30 settembre 2005 ha quindi rappresentato un decisivo momento di confronto tra economisti e politici sui principali nodi della politica economica, e in particolare sulla proposta di stabilizzazione del debito pubblico. A seguito del convegno tale proposta ha iniziato a suscitare un crescente interesse in sede politica, raccogliendo l’espresso sostegno di numerosi esponenti dei partiti e dei sindacati e di alcuni membri dell’attuale esecutivo (gli omonimi atti del convegno, a cura di Cesaratto e Realfonzo, sono stati recentemente pubblicati da manifestolibri).
Nel luglio 2006, su iniziativa di Riccardo Realfonzo in collaborazione con Bruno Bosco, Emiliano Brancaccio e Roberto Ciccone, è stato redatto l’appello per la stabilizzazione del debito. Pubblicato sul manifesto del 16 luglio 2006, l’appello è stato finora sottoscritto da oltre settanta economisti ed ha già aperto un vivace dibattito sui media nazionali.
Per una sintesi ed una prima serie di risposte ad alcune questioni sollevate dall’appello, si veda l’articolo di Emiliano Brancaccio “Il debito non si abbatte. Sfida tra economisti”, pubblicato sul manifesto del 25 agosto 2006.
L’appello degli economisti per la stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e Pil è stato promosso da Riccardo Realfonzo in collaborazione con Bruno Bosco, Emiliano Brancaccio e Roberto Ciccone. Questo sito è a cura di Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo.
Riccardo Realfonzo (Napoli, 1964) è professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università del Sannio; presiede il Corso di Laurea in Economia e Commercio e insegna Teorie e metodi dell’economia politica ed Economia monetaria. È autore di numerosi saggi apparsi in riviste scientifiche internazionali e alcuni libri, tra cui Money and banking (Elgar 1998) e The monetary theory of production (con G. Fontana, Macmillan 2005). Ha organizzato in collaborazione con il manifesto il convegno “Rive Gauche”, di cui ha curato gli atti (con S. Cesaratto, Manifestolibri 2006). È Segretario della Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico e consulente al lavoro della Regione Campania. È editorialista del manifesto e di Liberazione. Indirizzo: realfonzo@unisannio.it .
Bruno Bosco (Lecce, 1953). Professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'Universita' di Milano - Bicocca. E' autore di varie pubblicazioni nazionali e internazionali, tra cui "Using Elton-Gruber Statistics in estimating panel data dividend model" (Oxford Bullettin of Economics and Statistics, 2, 1990), Efficienza nella produzione pubblica di beni e servizi (Nuova Italia Scientifica) e ''Tassazione, spesa pubblica e regolamentazione nelle teorie della ricchezza e del valore'', in AA.VV., Letture di Scienza delle Finanze (Giappichelli, Torino).
Emiliano Brancaccio (Napoli, 1971). Ricercatore di Economia politica e professore di Macroeconomia ed Economia del lavoro presso la Facoltà di Scienze economiche e Aziendali dell’Università del Sannio. Ha curato il volume Il granello di sabbia. I pro e i contro della Tobin tax, Feltrinelli 2002 (in collaborazione con R. Bellofiore). E’ risultato vincitore del premio AISPE “Bresciani Turroni” per il miglior articolo presentato da un economista under 35 alla conferenza di Palermo del settembre 2004. Una versione aggiornata dell’articolo, dal titolo “Un modello di teoria monetaria della produzione capitalistica”, è stata pubblicata su Il Pensiero economico italiano, XIII, 2005, 1. E’ consigliere di amministrazione della Banca Toscana – gruppo MPS. Collabora con i quotidiani Liberazione e il manifesto.
Roberto Ciccone (Roma, 1952). Professore straordinario presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi Roma Tre, dove tiene corsi di Economia Politica e di Storia del Pensiero Economico, è membro del Consiglio di Amministrazione del Centro di Studi e Documentazione “Piero Sraffa”, costituito presso l’Università Roma Tre. Ha pubblicato diversi articoli su riviste italiane e straniere e la monografia Debito pubblico, domanda aggregata e accumulazione (Aracne editrice, 2002).

mercoledì, novembre 08, 2006

Napoli da vedere

Che la politica sia ridotta ad una passerella o in termini "alti" ad un estetismo privo di senso è testimoniato dal fatto che nessuno dei nostri pseudorapprasentanti vuole mancare ai vari programmi in cui far sfoggio di sè e della propria parte politica.Non ho ancora capito se è un modo tafazziano di farsi dire quanto fanno schifo oppure giocano effettivamente alla creazione del consenso tra i qualunquisti, quelli che quotidianamente ti rispondono coi soliti luoghi comuni e non sai mai dove faranno pendere la bilancia, se a destra o a sinistra.Sono d'accordo con te che nessuno della sinistra napoletana abbia levato una sola voce che non fosse la solita zuppa mediocre, tradotta poi all'osso: pro o contro Bassolino, pro o contro la Iervolino, oppure tanto per dare una rimescolata: abbiamo questo e quello...Dimentichi delle proprie radici?Troppe sono state le evoluzioni per diventare forza di governo.E ora?C'è un'alternativa?Il movimento è decapitato?Dov'è?Sicuramente il blocco di potere che c'è a Napoli è duro da scalfire, ma la cosa che mi preoccupa di più è quello ci potrebbe aspettare dopo.Io non credo che la repressione delle forze armate veramente possa dettare una svolta se non far vedere -anche qui :un'immagine -che lo Stato centrale è presente.Anche nel '90 con l'operazione Parthenope vennero impiegati più di 500 uomini per un po'e con quali esiti?Certo il numero delle vittime della camorra et alia sono in diminuzione e allora perchè si parla della guerra selvaggia e Napoli come campo di guerra?Si stanno facendo esplodere le contraddizioni di Napoli in modo confuso.Che sia solo un modo per giustificare altre operazioni?....

giovedì, novembre 02, 2006

Come sa di sal...la montagna nostra

http://www.larassegnadischia.it/Rassegna%202005/rass3-05/napolisogna.htm
Fioccano di nuovo attraverso i media, i luoghi comuni su Napoli.
Secondo una consolidata fisiologia, la camorra produce morti.
Secondo una consolidata fisiologia di riflesso i media producono cazzate.
Secondo una consolidata patologia di ultrariflesso la politica produce tamponi.
Ora è facile prendersela con Bassolino.Ma la fine del ciclo politico di Bassolino si incrocia con il problema della camorra solo per motivi propagandistici. Altro non v'è.
Se andiamo alle statistiche, negli anni 1979-1984 si sono avuti 769 morti per camorra, negli anni 1986-1991 1075 morti, negli anni 1994-1999 763 morti, negli anni 2000-2005 576 morti
(la mia fonte sono poche righe dell'ormai famoso libro di Saviano)http://www.internetbookshop.it/ser/serdsp.asp?feature=cover&isbn=8804554509
Un bassoliniano potrebbe dire che con la gestione Bassolino la situazione sia migliorata.Ma il punto è che Bassolino c'entra poco, nel bene come nel male...Qui si tratta di una storia antica...ma vale la pena fare alcune osservazioni:
1) Quando non ci sono morti, secondo voi va tutto bene ? La camorra in questi casi non c'è ?
2) Un intervento dello Stato che sia in profondità dovrà occupare decenni e dovrà essere oggetto di una sorta di costituente, con una strategia condivisa da tutte le forze politiche, e con un impegno di risorse economiche e finanziarie che dovranno essere rastrellate in qualche modo. E sulla disponibilità a concorrere economicamente si dovrà misurare la nostra indignazione...(non pugnette, direbbe qualcuno...)
3) Il problema va affrontato così, perchè la camorra come tutte le organizzazioni criminali a base territoriale, ha una sua profonda ragione, legata al rapporto all'interno degli stessi Stati-nazione tra zone a differente livello di sviluppo economico. E questo è un problema che ha la Russia, ha l'Italia, ha il Sudamerica, e forse presto avrà la Gran Bretagna, se le zone come la Scozia rimarranno sempre indietro rispetto alle altre.
4) La politica liberistica, con i tagli alla spesa pubblica (è inutile girarci intorno), aggraverà la situazione, perchè bisogna investire nella scuola, nell'assistenza, nella pubblica amministrazione.E noi DOBBIAMO ESSERE BEN DISPOSTI VERSO LE IMPOSTE E ATTENTI A COME I SOLDI VENGANO SPESI, sempre che vogliamo avere un punto di vista "pubblico" sulla realtà (e come blogger inevitabilmente abbiamo questa pretesa, nonostante gli attestati di modestia e di minimalismo personale).
5) A mio parere uno dei primi interventi (e qui la condivisione generale so che scricchiolerebbe alquanto) non è l'esercito, ma la legalizzazione di tutte le droghe (pesanti e leggere): lo Stato deve produrre un sacco di roba e far crollare i prezzi. Lo Stato deve porsi il problema di far crollare il mercato. Solo così si darebbe un duro colpo a queste organizzazioni. Altro che esercito, altro che tolleranza zero. Ma come, uno Stato che vende droga ?Sì. E sarebbe un bene etico, come quando lo Stato all'interno del proprio territorio si è assicurato il monopolio della violenza. In Italia questo monopolio non ce l'ha. E per assicurarselo deve garantirsi il monopolio di tutta la produzione che in Italia è fuori legge, ma che ha mercato.Altrimenti non si cava un ragno dal buco.

Italo

mercoledì, novembre 01, 2006

Noi siamo con Roberto Saviano, autore di Gomorra.

Alcuni ragazzi della provincia di Caserta hanno scritto due lettere, una a Roberto e l'altra al Presidente della Repubblica. Su questo sito potete leggerle e firmarle.

http://www.sosteniamosaviano.net/

Anche questa intervista va letta.

Napoli è morta?

Devo dire che è da molto che intendevo dire qualcosa su Napoli, ma non trovato mai l'occasione giusta, forse le parole giuste.Io sono indignata per quanto sta accadendo a Napoli e nel suo hinterland ma non riesco a gridare che è un nuovo medioevo, che siamo alla deriva, che tutto è finito, che la politica fino ad oggi è pura estetica.Non riesco ad essere nichilista fino in fondo, non mi permetto di riconoscerlo perchè temo i risvolti dell'assunzione di questa posizione.E' più forte di me:amo Napoli. E non so dire perchè o per che cosa,mi ha sempre intrigato.Un città maledetta ma viva, forse troppo.Vengo dalla sonnacchiosa provincia.Mi sento ferita ogni volta che se parla come se fosse "la fogna da bonificare" perchè è così che ne parliamo quando ci lamentiamo, quando denunciamo l'arroganza e la prevaricazione dei napoletani, la loro mancanza di senso civico e rispetto.Perchè allora sorprenderci se qualcun'altro, magari un leghista, lo dice per noi?Ho seguito, leggendo, alcuni dibattiti su Napoli e mi sono resa conto che si tratta di un problema complesso, molto intricato sia per le radici storiche sia per le implicazioni socio-economiche.Ma siamo così sicuri che non influiscano anche fattori presenti in altre città?Siamo sicuri che "i segni" non siano quelli di persone senz'anima che sono al Nord, come al Centro, come al Sud?A Napoli grava il silenzio di molti.Lo sappiamo fin dalla fine degli anni Novanta.L'immobilismo e il conservatorismo politico in fondo lo abbiamo accettato e con esso anche le trasformazioni a livello globale e locale.Ma questo può esimerci anche solo dall'esprimere uno sdegno?E siamo sicuri che sia la cosa giusta fuggire, trasferirci al Nord, oppure badare alla nostra sopravvivenza dicendo semplicemente"e la sinistra che fa?" Sinistra o destra, non c'è differenza!D'accordo: il tessuto sociale è sgretolato, e allora? questo necessariamente implica la fuga?Certo non si trova pace perchè effettivamente manca una risposta, o una decisione da parte di tutti, per non dire politica....capire Napoli è però un dovere.

venerdì, settembre 15, 2006


Road map...Ora si pensa al Libano....

mercoledì, settembre 13, 2006

A proposito di...Munich

per chi non lo sapesse Munich è l'ultimo film di Spielberg e fa riferimento all'attentato di Monaco del 1972. Il 5 settembre del 1972 un commando palestinese che faceva capo a Settembre nero fece irruzione nella palazzina che ospitava gli atleti israeliani al villaggio olimpico di Monaco. Due di loro vennero uccisi, gli altri, presi in ostaggio, morirono all'aeroporto dopo un tentato blitz della polizia tedesca. Il primo ministro israeliano Golda Meir indice una riunione coi capi politici e militari e ordina l'uccisione dei responsabili,Dice "in casi estremi lo stato deve rompere i limiti morali". Viene organizzato un gruppo eterogeneo a capo del quale viene posto Avner Kauffman (Bana), agente del Mossad. Il gruppo elimina sette degli undici responsabili, ma Avner riesce a tornare a casa, in famiglia, completamente trasformato. Sono messi in evidenza i dubbi, i perchè dell'azione, la necessità di avere prove documentate sulle vittime. Il gruppo diventa un'autentica macchina da guerra militare. Da vedere. Mi sembra che Spielberg tenti anche una evidenza dell'"umanità" dei palestinesi, ossia di evidenza del loro punto di vista sul conflitto, sul senso della terra, sul sentirsi profughi. La spirale della guerra, degli attacchi terroristici, delle vendette, si ritorce agli stessi mandatari, carnefici e vittime a loro volta, con un senso di precarietà della vita che male si accorda coi desideri (la famiglia, i figli, la casa). Mi hanno colpito diverse cose, due delle quali sono: 1.quando la madre di Avner dice con toni decisi: "Finalmente un pezzo di terra l'abbiamo" 2.quando nel finale Avner invita a spezzare il pane Efraim, il capo dei servizi segreti israeliano, perchè "l'essere breo" si concreta -nel caso del film - in un'osservanza religiosa, in un credo religioso e non nell'appartenza alla nazione, alla terra.
Cosa restituisce l'identità ebraica? Io non credo certo uno Stato-nazione, forse neanche il credo religioso. Così come mi chiedo in cosa possano riconoscersi gli arabi palestinesi. Un conflitto che dura da un secolo e che non mi sembra abbia sbocchi,soluzione. Mi piacerebbe avviare un confronto. Guerra di razze o di popoli? In una fase di crisi, la teorica tedesca Arendt non perde tempo a criticare la deriva di destra dei sionisti chiamandoli "fascisti" senza che avessero il corporativismo del fascismo, ma solo perchè legavano alla terra di Palestina ogni possibile progettualità politica che potesse "riconoscere" anche gli arabi palestinesi,la pura esaltazione della nazione.

lunedì, settembre 11, 2006

Ciao a tuttti!Finita la vacanza e...tutti al lavoro. di nuovo, sigh!;-))Sono andata a vedere ieri "la perla che non c'è", il film di Gianni Amelio con Sergio Castellitto. Mi è piaciuto,di un piacere "mentale" però, nel senso che non sono riuscita a farmi trascinare emotivamente se questo era l'intento del film che riproponeva la metafora del viaggio del giovane operaio manutentore italiano alla ricerca dell'identità sottratta.Ci sono due mondi a confronto: l'Italia dei licenziamenti, delle riconversioni industriali,delle vendite dei pezzi vecchi come l'altiforno -come se fosse un passaggio di testimone a quel paese in corsa che è la Cina.Quello che ho apprezzato tantissimo perchè alta è la mia curiosità verso questo paese sono le fotografie di un paese immenso,dai vari paesaggi, dai milioni di abitanti -8000 in un solo parco condominiale, e io mi lamento del mio!-Condizioni di vita ovviamente contraddittorie,povere,proprie di un paese che sta vivendo un boom di produzione industriale inverosimile: un enorme cantiere.La Cina non è così lontana.La stella che non c'è per me è un paese che da noi viene ancora legato all'esotico, alle tradizioni, ai templi, alla meditazione, alla responsabilità e alla solidarietà.E invece è un paese in totale rivolgimento.La centralina che Vincenzo Buonavolontà con santa pazienza cerca di consegnare alla fabbrica che ha acquistato l'altiforno italiano finisce buttata via tra altri ferri vecchi da altri operai che non pensano più di tanto a cosa potrebbe servire giacchè altre già ne avevano provato con insuccesso.Non è più il paese di Mao.E le narrazioni individuali lo confermano.Bisogna vederlo e...forse rivederlo.

martedì, maggio 30, 2006

Il blog è fermo da un mese. Tutto tace? Elezioni politiche prima, elezioni comunali poi, sembra che ci siamo distratti.Intanto D. se ne va in B., precisamente all'American University di B. per fare il docente a contratto. La sua finalità è ottenere un posto da ricercatore fisso, in America o altrove già per l'anno venturo. In questo modo può darsi coraggio a fare i passi decisivi per la sua esistenza, quella a cui tutti hanno diritto, a partire dalla realizzazione piena di sè. La precarietà della ricerca universitaria ha i suoi costi in termini di vita singola. La cosiddetta fuga di cervelli non s'impone solo per le migliori condizioni di ricerca altrove ma per un'esigenza di riconoscimento e una tensione alta a sentirsi realizzato anche nella sfera privata.Indubbiamente restare comporta la consapevolezza di essere costantemente esposti ad un'esclusione sempre più alta, negli stessi luoghi dove ci si è formati e pazientemente si è fatta la gavetta,essere esposti a rapporti di subordinazione e dipendenza da un professore e da un sistema che ti affanna e molto spesso non ti premia. Non so però quanto siano liberi gli altri luoghi di ricerca, di quali altre dinamiche si alimentano. Un prof. inglese mi ha raccontano che non ci ha messo niente ad "arrivare" ma per "mantenere" la sua posizione fa i salti mortali!Insomma non mi sembra davvero che ci siano paradisi di felicità per la ricerca! O no?

mercoledì, maggio 10, 2006

Bisogna abrogare la legge 30?

Luciano Gallino: «Legge 30? Va riscritto tutto»
«La nuova legge sul lavoro, quella che dovrebbe sostituire la 30, dovrebbe avere un primo articolo scritto così: il lavoro dipendente è a tempo pieno e indeterminato. Con poche deroghe, al massimo 5 tipologie atipiche utilizzate in casi specifici e determinati».

Il professor Luciano Gallino, sociologo del lavoro all’Università di Torino, non salverebbe nulla della legge 30, «mal concepita e mal scritta, soprattutto nel decreto attuativo», ma talmente «opaca» e complessa, «destinata a tutto il mercato del lavoro ma sconosciuta ai più», da non aver scatenato le stesse rivolte scoppiate in Francia. «Al contrario il Cpe, il contratto di prima assunzione congegnato da Villepin, contiene un concetto semplice, riassumibile in 5 righe, che è stato individuato immediatamente dai diretti interessati, i giovani: un "ordigno a orologeria", il licenziamento incorporato, sempre pronto a esplodere e dunque altamente ansiogeno».

In Francia siamo a una semplice contestazione «tecnica», che potrebbe chiudersi con il ritiro del Cpe, o è la nascita di un nuovo movimento che potrebbe andare oltre?
Per il momento non vedo la nascita di un movimento che, come ad esempio nel ‘68, si poneva il fine di cambiare la società. Certo la partecipazione è largamente diffusa, perché il tema della precarietà è molto sentito in Francia, da tempo ci sono ricerche sociologiche importanti e un ampio dibattito pubblico. Il Code du Travail, l’insieme di leggi che regolamenta il lavoro, è un vero e proprio monumento, molto più conosciuto dal cittadino medio rispetto a quanto non avvenga in Italia con le leggi sul lavoro. Dunque quando si cambia qualcosa, si toccano corde molto sensibili, e già altre volte si sono scatenate mobilitazioni di massa. Certo, l’elemento interessante è che qui a muoversi per primi non sono stati i lavoratori precari, quanto piuttosto coloro che sono destinati a diventarlo: gli studenti. Solo successivamente si sono uniti gli occupati, che magari sono i padri e le madri di questi giovani e con loro condividono la medesima ansia: che ne sarà dell’avvenire di mio figlio dopo anni di studio?


Ma perché in Italia non c’è un movimento analogo contro la precarietà? Questi lavoratori trovano rappresentanza nei sindacati?
In Francia è stata approntata una legge ben definita e mirata: i giovani fino a 26 anni possono essere assunti per due anni, e licenziati in qualsiasi momento entro il biennio. Dunque anche una settimana dopo l’assunzione, o dopo un mese, o magari un giorno prima della scadenza. Credo ci sia stato un grave errore tecnico del legislatore, che ha inserito una vera e propria «bomba a orologeria» che genera ansia: non sapere quando scade il tuo contratto. Questo fattore «ansiogeno» è stato determinante in Francia, e credo lo sarebbe anche da noi. In Italia, al contrario, le riforme del lavoro, a partire dall’ormai decennale pacchetto Treu fino alla legge 30, sono più complesse e riguardano tante tipologie. La legge 30, ad esempio, comprendendo anche il decreto applicativo 276, ha oltre 70 articoli e decine di pagine, crea rapporti nuovi che molti non conoscono: è «opaca». Non c’è neppure bisogno di istituire la libertà di licenziamento: nella pubblica amministrazione ti faccio un cococò di 1 mese, in un’azienda privata un lavoro a progetto di 3. La scadenza è già scritta nel contratto e dunque il lavoratore sa già che alla fine sarà messo alla porta. Manca quell’elemento ansiogeno, anche se ovviamente non il senso di precarietà. Quanto ai sindacati, qui in Italia i precari sono messi meglio rispetto alla Francia: i tre sindacati confederali hanno strutture dedicate agli atipici, che negli anni hanno firmato molti contratti migliorativi, anche di stabilizzazione, e dunque c’è almeno un canale a cui rivolgersi.

Ma adesso cosa si può fare per migliorare il mercato del lavoro? La legge 30 dovrebbe essere abrogata?
Ritengo che sia una legge talmente mal congegnata e persino mal scritta, soprattutto nel decreto applicativo, che un semplice intervento «riparatore» non basterebbe a produrre risultati positivi. Basti pensare al contratto a progetto, da far mettere le mani ai capelli non solo a ogni singolo sindacalista, ma anche a qualsiasi giudice del lavoro che debba occuparsene: sotto il «progetto», essendo la sua definizione assolutamente generica, ci può entrare di tutto, dai 70 secondi di un lavoro al call center fino alla costruzione del Ponte di Messina. Questo è solo uno dei punti, perché poi ci sono tanti altri che andrebbero aboliti, dal cosiddetto staff leasing al «lavoro ripartito», da quello «intermittente» fino ai ticket e vaucher . Se si eliminano, come mi pare preveda anche il programma dell’Unione, le forme più palesemente negative, e si correggono radicalmente altre, mi sembra che allora tanto vale abrogarla. Intendiamoci, per produrre una nuova legislazione del lavoro, perché altrimenti rimarrebbe aperto un grande vuoto legislativo. La legge 30 dovrebbe essere sostituita da una normativa radicalmente alternativa, che abolisca gran parte dei rapporti atipici e introduca tutele e garanzie per un numero limitato di tipologie extra rapporto dipendente full time e a tempo indeterminato: direi che per le aziende e per le persone possono bastare 5 tipi, tra cui metterei il part time, il contratto a termine, uno ad alto contenuto formativo, e anche l’interinale, seppure rivisto e limitato nell’uso; non si può utilizzare per affittare squadre intere di operai quando fa comodo, dovrebbe essere riservato alle qualifiche alte.

A nostro parere ci sono almeno due punti «irrisolti» nel programma dell’Unione. Il primo è che vengono mantenuti i rapporti parasubordinati, i cococò e cocoprò. Il secondo: non viene limitata la possibilità di reiterare all’infinito i contratti a termine. Cosa ne pensa?
Nel programma dell’Unione la parte del lavoro mi sembra complessivamente ben fatta, perché al centro c’è un principio molto importante, che per me dovrebbe essere il primo articolo di una nuova legge sul lavoro: il dipendente è a tempo pieno e a durata indeterminata. Il lavoro «vero» è quello, poi si possono fare alcune deroghe, ma solo come eccezioni e per necessità specifiche. Il governo di centrodestra parla del 12% di precari sul totale degli occupati: ma è un dato che considera solo i dipendenti, mentre lascia fuori i parasubordinati, conteggiati tra gli autonomi. La percentuale reale dei precari, in Italia, è almeno al 24-25%, si tratta di circa 3 milioni e mezzo di persone che al momento non conoscono il proprio futuro, con circa 1-2 milioni di loro - i cococò e cocoprò - che stanno mettendo da parte pensioni pari al 30% del salario medio, se tutto va bene. I parasubordinati sono per la gran parte lavoratori dipendenti mascherati, e il contratto a progetto così com’è non va: al massimo si potrebbe pensare a un nuovo «contratto di cantiere», legato realmente alla costruzione di un’opera - un ponte o un sito web - che dura un determinato numero di anni. Il fatto che, soprattutto tra i giovani di formazione medio-alta, si facciano periodi in diverse realtà lavorative può essere un’opportunità professionale. Ma poi, dopo 5 o 8 contratti nella stessa azienda, o dopo 2 anni, insomma dopo un certo periodo definito, bisognerebbe maturare il diritto al posto a tempo indeterminato. Diversi studi svolti anche all’estero, dalla Francia alla Svizzera, mostrano che la precarietà è drammatica perché rappresenta una condanna: quanto più lungo è il periodo di precariato, tanto più alta è la probabilità che ti venga offerto un contratto precario. Ecco, bisognerebbe riuscire a rompere questo circolo vizioso.


Il Manifesto - Antonio Sciotto

martedì, aprile 18, 2006

Non è vero che il tasso di partecipazione è aumentato così come è vero che il centro-sinistra ha superato di quattro volte il centro-destra.

L'autorevole Istituto Cattaneo ha condotto un'interessante ricerca che vi invito a leggere! Diffondetela perchè bisogna fare una corretta informazione di questi tempi, tempi in cui ci infinocchiano con tutto!

http://www.istcattaneo.org/pubblicazioni/analisi/pdf/
http://www.istcattaneo.org/pubblicazioni/analisi/pdf/

lunedì, aprile 17, 2006

www.carmillaonline.com - Articolo pubblicato 17 Aprile 2006

Ora davvero basta, con l'abuso della credulità popolare.
Le bugie hanno le gambe corte, dice un vecchio proverbio che sicuramente il
capo supremo della Casa (circondariale) delle Libertà conosce bene.
Mai visto in passato un simile attaccamento al cadreghino (alla poltrona) e
una simile faccia tosta!
Racconterebbero di tutto pur di non staccarsi dalla poltrona , ma ecco il
riassunto in otto punti delle falsità e degli imbrogli di questo strisciante
tentativo di golpe mediatico.

1. Per garantirsi di non perdere, hanno realizzato una Legge elettorale a
loro immagine e somiglianza, votata unilateralmente e definita dal suo
stesso estensore (Calderoli) "una vera porcata". Nonostante ciò hanno perso
le elezioni e, paradosso dei paradossi, la loro legge elettorale si è
rivelata un boomerang.

2. Hanno inventato e utilizzato, unilateralmente, nelle regioni critiche (in
bilico) lo scrutinio elettronico, che non brilla certo per trasparenza,
sottraendo al controllo popolare le procedure di registrazione ed invio dei
dati, affidate ad anonimi operatori di società private.

3. Hanno scelto loro, unilateralmente, la società a cui affidare exit poll e
proiezioni, ma soprattutto non risulta statisticamente comprensibile
l'andamento del voto rilevato dai dati ufficiali del Viminale. Infatti con
lo scorrere del tempo, invece di assistere ad un'altalena con un sali e
scendi delle due coalizioni, abbiamo assistito al costante diminuire della
percentuale di voti di una sola coalizione (inizialmente data
abbondantemente per vincente). Sarà un caso?

4. Il Capo del Governo sa bene che la regolarità delle operazioni di voto
dipende dal Ministero degli Interni, oltre che da altri organi di controllo
dei vari apparati dello Stato, eppure parla di brogli. Evidentemente non si
rende conto che sta accusando se stesso ed il suo stesso Governo del
tentativo di truccare le elezioni (e forse per la prima volta dice qualcosa
di vero). Non è un caso che nel mondo e nella storia i brogli elettorali li
fa chi ne ha gli strumenti, ossia chi governa ed è l'opposizione che
denuncia i brogli.

5. Il Presidente del consiglio e i suoi alleati parlano di 80.000 schede
contestate, che secondo i dati in loro possesso ribalterebbero il risultato.
Poi si scopre che alla camera le schede contestate sono 43.028 e quindi è
matematicamente improbabile mutare il risultato. Infine il Ministero degli
Interni è costretto a smentire se stesso e si scopre che alla Camera le
schede contestate sono poco più di 2000. Ciò che prima era improbabile ora
risulta impossibile. Giusto per cancellare oltre alla memoria antica
(revisionismo storico) anche quella recente, se provate ad entrare nel sito
del Ministero degli Interni, da almeno due giorni non è possibile accedere
alle pagine dei risultati elettorali. Un altro errore casuale?

6. A questo punto denunciano irregolarità nel voto all'estero,
dimenticandosi che loro hanno organizzato la macchina elettorale all'estero
e la consegna delle schede. Quindi, di nuovo si autoaccusano di aver
imbrogliato (NO COMMENT!).

7. Calderoli, rileggendo la sua legge (magari il testo è stampato sul retro
della fatidica maglietta antiislamica), decide che 45.000 elettori che hanno
regolarmente votato per una lista apparentata con il centro sinistra, non
devono essere conteggiati. A suo dire, dato che nella Legge si parla di
assegnare i voti su base nazionale sommando i voti ottenuti dalle liste
nelle singole circoscrizioni, non potendo sommare i voti di una lista
presente in una sola circoscrizione, questi non valgono. In matematica è
come sostenere che uno più zero è uguale a zero. Al di là della matematica,
conviene ricordare che la Cassazione, prima delle elezioni, ha già deciso
quali liste ammettere e quali escludere e nessun rilevo era stato presentato
per escludere quella lista.
Inoltre, la legge prevede che se una lista apparentata non raggiunge il
quorum necessario per ottenere un rappresentante, comunque il voto rimane
valido per la coalizione a cui è apparentato.
Ne consegue che un elettore quando vota esercita il diritto a mandare in
parlamento un suo rappresentante, per cui se appone regolarmente una
crocetta su una lista presente in scheda, manifesta una volontà di voto che
non può essere annullata e ignorata successivamente. Eventuali rilievi e
annullamenti (a mio avviso assolutamente infondati) sarebbero stati
comprensibili solo prima delle elezioni, con l'assenza del simbolo dalla
scheda elettorale, altrimenti si sta imbrogliando l'elettore che pensa di
votare per una coalizione ed invece non viene considerato. Forse qualcuno,
per abitudine, pensa di poter fare come in certi contratti, che si fanno
sottoscrivere al cliente, omettendo le postille (tipo: il premio
assicurativo verrà liquidato solo se nevica ad agosto), ma nelle schede
elettorali non vi sono postille!

8. In ultimo, affermano che nessuno ha vinto e nessuno ha perso. Dopo aver
chiesto il voto per impedire che i difensori e gli alleati dei "bambini
bolliti per concimare" (una favola dal sapore antico) governino il paese,
ora chiedono di governare insieme.
Al di là delle preoccupazioni di qualcuno, rispetto al permanere dei propri
privilegi economici e giudiziari (immunità?), come al solito si afferma il
contrario di quanto dichiarato in campagna elettorale.
Ancor più ridicola è questa storia della legittimità a governare.
Nel 2006 il "centro sinistra" ha ottenuto il 49,8 % dei voti, pari a
19.061.108 voti. Nel 2001 la Casa (circondariale) delle Libertà ha ottenuto
al senato il 42,5 % dei voti ed alla camera il 45,4% dei voti, pari a
16.915.513 voti. Per cinque anni ci hanno raccontato di rappresentare la
maggioranza degli italiani, omettendo che pur essendo minoranza nel paese
(45,4 % dei votanti, nel migliore dei casi) possedevano una maggioranza
larghissima di deputati e senatori.
Oggi, per lo meno, il nuovo Governo ha raccolto 2.145.595 voti in più
rispetto alla Casa (circondariale) delle Libertà nel 2001 e rappresenta la
maggioranza reale e non la minoranza premiata (dal sistema maggioritario)
degli italiani.
In questi cinque anni, il Governo, pur essendo minoranza nel paese, ha
stravolto ogni norma infischiandosene della maggioranza del paese e ora
blaterano di nessuno ha vinto o perso, solo per garantirsi privilegi e
poltrone?
Eh, no, mi spiace, ma questa volta dovete proprio andare a casa, senza se e
senza ma, voi e le vostre indigeribili balle!

Permettetemi solo due considerazioni.
La prima è: ma in questo paese c'è un giornalista degno di questo nome
capace di analizzare i dati e rinviare le balle al mittente, semplicemente
dicendo che talune affermazioni contrastano con la realtà, oppure il
servilismo della penna e della telecamera non ha più limite?
La seconda: più che cercare mediazioni con i precedenti governanti, non è
forse più proficuo cominciare ad ascoltare i problemi reali delle persone e
dei soggetti sociali (vi assicuro che lì le balle e gli steccati, spesso,
crollano)?
Per esempio, invece di inseguire interessi particolari (e tutt'altro che
generali) legati al progetto TAV, non è meglio tutelare la vita e l'ambiente
degli abitanti della Val Susa e cercare soluzioni per la lentezza dei
pendolari?
Molti hanno votato per il centro sinistra perché stanchi di odiosi discorsi
all'insegna del "chi vince prende tutto e per cinque anni nessuno può più
dir nulla", non per le quasi 300 pagine di programma o le infinite
mediazioni interne tra partiti e coalizioni e ora si aspettano una
differente relazione tra chi governerà e i propri problemi e desideri.
Tener conto di tutti/e significa cominciare a porsi davvero questo problema.

da parte di Elio

tra Ferrando e Bertinotti...... il Partito

La vicenda che ha visto protagonista Marco Ferrando ha un certo valore politico e simbolico, un valore diventato straordinario, non foss'altro che per il massiccio intervento masmediatico il cui messaggio è diventato tutt'uno con la risoluzione finale della questione: l'esclusione dalle liste del centro sinistra di un dirigente di partito le cui idee non fanno onore alle truppe italiane in guerra sul suolo irakeno.
Questione troppo scomoda per la coalizione di sinistra che si appresta a prendere in mano le redini dello Stato.
Dal punto di vista politico essa ci mostra quali sono le conseguenze di chi pratica l'entrismo; ovvero a quali conseguenze si condannano coloro - i sinistri - ,che hanno praticato e intendono ancora praticare una politica di partito stando dentro ad un altro con la convizione di modificarne l'indirizzo strategico, tranne ovviamente una loro ulteriore omologazione (L. Maitan).
I seguaci di Troski l'hanno praticata fin dagli anni '60 nel PCI, la chiamano tattica. Come frutto del parto di un cervello questa presunta tattica ha stabilito che non c'è alcuna possibilità di costruire un partito rivoluzionario se non trasformando quello che formalmente è più vicino a tale idea. Sappiamo i risultati e gli esiti del PCI nonostante sia stato attraversato dal movimento del '68.
In altre parole, la speranza di capovolgere gli interessi di un partito politico, perchè alla fine di questo si tratta, è connessa alla concezione che quel partito è in qualche modo suscettibile di cambiamenti, o perchè vi aderiscono i lavoratori, o perchè la sua politica è in qualche modo adiacente o più vicina a quella che si intende raggiungere.
Per quanto riguarda la presenza dei lavoratori, il concetto fa acqua da tutte le parti, in quanto addirittura nei partiti fascisti, e lo stesso nazionalsocialismo annoverava tra le sue fila la presenza dei lavoratori, quindi la sostanza sarebbe il richiamo formale al marxismo, cosa che il partito di Bertinotti ha dichiarato all'atto della sua nascita.
L'evoluzione che questo partito ha avuto e le molte abiure che del marxismo sono state compiute negli anni a seguire dalla sua nascita, hanno eliminato anche questa parvenza formale, anche se non si trattava del marxismo vero e proprio, ma di varie ed eclettiche interpretazioni che come massimo prodotto hanno riproposto in campo teorico, l'illusione fascinosa delle concezioni Keinesiane, per quanto riguarda il cosiddetto stato sociale, ed in campo economico la miseria dei neo-ricardiani, per quanto riguarda il rapporto tra il capitale ed il lavoro; in buona sostanza le vecchie parole d'ordine del socialismo riformista turatiano- togliattiano . In breve il Prc invece di rifondare il marxismo come pretendeva di fare all’atto della sua nascita, ha restaurato il socialismo borghese.
La vicenda pone all’attenzione una singolare costatazione: il fatto che il partito che si pretende di modificare, come oggi è il caso del PRC, è oggetto spesse volte di critiche così inconciliabili con la presenza in esso dei critici, appare come una stranezza che solo la dialettica mentale può consentire. Già, la dialettica, il campo di battaglia di tutti i rivoluzionari la cui attività volta a trasformare la società ripone soltanto sulla forza della ragione. Una dialettica basata su di un formalismo declamatorio, cioè privo della connessione alla realtà oggettiva. Non solo quella riferita ai rapporti di produzione e al suo risultato capitalistico che al più o al meno può solo determinare una certa distribuzione di reddito, ma nemmeno connessa con la coscienza che si forma come risultato della incapacità di tale politica economica di eliminare la crisi che da tendenza si fa sempre più acuta e concreta.
Ovviamente per gli entristi si tratta della coscienza rivoluzionaria, la quale, invece di essere lo specchio delle contraddizioni reali e della loro soluzione, la si fa diventare in un sol colpo quella di un partito che si pretende modificare in virtù della forza taumaturgica del pensiero entrista. Quindi assumendo la coscienza di questo partito come il prototipo della coscienza da modificare, scambiando così la rappresentazione degli interessi materiali che Marx ed Engels hanno descritto (nel Manifetso del 1848) a proposito del comunismo borghese e utopistico, con quella che il proletariato ha in partenza, la quale ovviamente non è ancora rivoluzionaria ma che necessariamente deve diventarlo per liberarsi dallo sfruttamento.
In questo processo è da notare quanto sia distante la posizione teorica degli entristi che vivono in un partito che tutto al più vuole un giusto salario per un giusto lavoro quanto invece la crisi economica spinge ambedue al di sotto del loro valore, sia quello di scambio che di condizioni storiche in cui compierlo. La coscienza che produce questo processo è ben altra cosa ed esige ben altre riforme; il sovvertimento dell'ordine economico- sociale, per la qual cosa l'elemento cosciente, ovvero la sua organizzazione, deve essere chiaro e ben presente fin dall'inizio in uno che si definisce comunista e per giunta anche rivoluzionario .
Il paradosso, e allo stesso tempo il ridicolo risultato della politica entrista potrebbe essere quello di conquistare la maggioranza del partito di Bertinotti e così decretare che il movimento operaio ha raggiunto la coscienza rivoluzionaria, salvo poi costatare la mancata rivoluzione. Un gioco da ragazzi.
Dal punto di vista politico questa vicenda quindi non ci dice niente, specie se teniamo presente che la coscienza antagonista è un prodotto storico che si forma come coscienza indipendente, di classe, come prodotto specifico che muove sì dai contrasti economici ma che deve giungere soprattutto a chiarire gli scopi che la classe sottomessa ha da realizzare per risolvere il dissidio che la vede contrapposta al capitale, più esattamente al suo incessante sviluppo, e non certo allo sviluppo della coscienza che può avere un partito politico che del sistema capitalistico nel suo insieme ne ha fatto la sua bandiera com'è il caso del PRC di Bertinotti. Gli entristi pensano idealisticamente.
Anche Lenin faceva parte della seconda internazionale, ma bisognerebbe indagare più a fondo la specificità della formazione del partito operaio in Russia, e l'incursione che esso poté fare in campo internazionale fino a decretare la II Internazionale morta per gli interessi operai. Ora non è più il tempo in cui si può dire "quando Kausky oppure Hilderfing erano marxisti" come faceva Lenin. Come d'altronde non è nemmeno più il tempo in cui si può dire "il compagno Stalin cammina con una gamba sola" come faceva Mao.
Il declino, e via via la fine di ciò che nella coscienza mondiale del proletariato si è fissato come comunismo è finito con la fine stessa dell’URSS, rappresenta allo stesso tempo anche la fine della sua rappresentazione teorica come pure e soprattutto la necessità di ripartire proprio da ciò che teoricamente fu la premessa di quel rivolgimento storico: il rapporto tra marxismo e operai. Solo in questa impostazione si potrà valutare a pieno la cosiddetta funzione degli intellettuali che giungono a capire che questa non è la migliore delle società.

Dal punto di vista simbolico questa vicenda ci dice che i rapporti tra i partiti alleati del centro sinistra sono ferreamente sottoposti all'etica del “politicamente corretto”, senza nessuna deroga. Quindi nemmeno la critica può sconfinare al di fuori di un programma che nel suo insieme è il programma del sistema capitalistico.
Detto questo, si potrebbe attendere che Ferrando si cuocia nel suo brodo, ma è la prospettiva del suo entrismo a farmi intrufolare in questa vicenda.
Sul potere che esercita Bertinotti nei confronti di Ferrando, il quale insieme ad altri è l’espressione di una componente che rappresenta il 41% del comitato politico, ci sarebbe da precisare se il 41% del CP rappresenti solo un quarantunesimo dei soggetti che lo compongono o se invece rappresenti il 41% dell'elettorato del Prc.
Le risposte ai quesiti sono le uniche che possono dare una spiegazione di questo potere di Bertinotti, da un lato, mentre dall'altro potrebbero spiegare anche il perchè dell'assenza di una benché minima azione, non dico di insorgenza, contro questa insopportabile censura.
Il teatrino della politica l'ho conosciuto fin da quando ero nella FGCI, allora nel PCI c'era Ingrao e tutto ruotava, tranne ovviamente le accuse di estremismo e quant'altro rivolto dal PCI all’unisono contro chi tentava percorsi organizzativi fuori dal PCI.
Certo, se si interpreta la vicenda dal punto di vista di Bertinotti e della sua fedeltà a Prodi e al suo programma di governo, non si può essere indifferenti nei confronti di Ferrando. Per cui si può anche esprimergli la solidarietà, ma questa non è dovuta per la coerenza del suo comportamento politico, quanto invece soprattutto per dire qualcosa contro il moderatismo di Bertinotti.
Infatti c'è da ricordare che Ferrando, insieme a tanti altri militanti che formavano e che ancora costituiscono la sinistra di rifondazione, all'epoca della legge Treu, che sappiamo ha spianato la strada alla flessibilità e alla precarietà, erano e sono rimasti dentro quel partito.
Allora dunque questa vicenda non può che dirci una sola cosa: la costituzione di un partito politico si basa su reali interessi di classe, e questi non sono modificabili se non con il rivoluzionamento dell'ordine economico di cui sono l'espressione. Per cui la strada dell'organizzazione per la classe operaia sta tutta fuori, una volta che sì da per scontato che rifondazione non è il partito dei soviet ecc. ecc.
Ai militanti della sinistra di rifondazione questa vicenda dovrebbe far riflettere, ed il cinismo di queste poche riflessioni è direttamente proporzionale con la impossibilità di cooptare Ferrando in qualche tipo di nuova organizzazione.
Ai compagni (Ricci ed altri) che ultimamente hanno deciso di abbandonare Bertinotti, come anche lo stesso Ferrando, rivolgo un caloroso invito, il quale ovviamente va anche a tutti gli estensori di piattaforme di unificazione organizzativa: per quanto riguarda l'organizzazione, se c'è un insegnamento materialistico da seguire ed un altro teorico-politico da sperimentare, è quello che non si può fare a meno, se si è decisi su questa strada, di considerare e di valutare il materiale esistente e che da tempo si è formato sul terreno dell'organizzazione di classe al di fuori di rifondazione. Non è solo una questione di metodo. Il dopo elezioni, che molto probabilmente vedrà un governo di centro sinistra, porrà con più forza la riapertura della discussione e la ricerca della soluzione in campo organizzativo, se non si vuole soccombere alla demagogia della destra.
elio. p.

martedì, marzo 28, 2006

Dal sito www.francarame.it

democrazia rappresentativa... di chi?

In Italia esiste da tempo un elettorato di centrosinistra privo di rappresentanza. E' formato da cittadini che hanno diverse esperienze e diversi orientamenti politici ma sono uniti da alcune convinzioni comuni che le vicende degli ultimi anni hanno rafforzato. Non hanno condiviso la scelta della maggioranza di centrosinistra di scassare la Costituzione insieme al centrodestra nella Commissione Bicamerale, tra il '96 e il '98. Non hanno capito perchè il centrosinistra, in cinque anni di legislatura tra il '96 e il 2001, non ha fatto una seria legge sul conflitto d'interessi e una legge per regolare le reti televisive analoga alle altre vigenti in tutta Europa. Hanno subito come una ferita alla democrazia la caduta del governo Prodi nel '98.Non hanno capito perchè nel 2001 il centrosinistra ha dato per scontata una sconfitta evitabile e ha rinunciato a battersi aprendo la strada a un'anomalia che nessun paese democratico avrebbe tollerato.Non hanno apprezzato dopo il 2001 la debolezza dell'opposizione e la ripetuta assenza dei suoi parlamentari quando era possibile fermare leggi incostituzionali.Hanno dato vita a una mobilitazione di massa senza precedenti per la libertà di informazione e l'autonomia della magistratura.Hanno riempito il Palavobis a Milano il 23 febbraio 2002, un mese dopo erano tutti insieme ai tre milioni del Circo Massimo a Roma, e il 14 settembre hanno colmato piazza San Giovanni .Hanno animato nei mesi e anni successivi enormi manifestazioni contro la guerra preventiva.Non hanno capito perchè i partiti, invece di accogliere e rafforzare la mobilitazione popolare, si sono ingegnati per fermarla, ingabbiarla, deluderla. Hanno assistito increduli all'inerzia del centrosinistra di fronte alla truffa della nuova legge elettorale.E ora assistono sbigottiti all'arruolamento di numerosi, imbarazzanti transfughi dal centrodestra cui vengono attribuiti gratis ruoli di rilievo.Sono i cittadini che vogliono difendere la Costituzione, ricostruire la salute istituzionale del paese, affermare la supremazia dell'interesse pubblico sull'utile privato, rinnovare lo stato sociale, affrontare con idee nuove il difficile tema del lavoro, rafforzare la difesa dei beni comuni, garantire la laicità dello stato, costruire un'Europa strumento di pace. Considerano la libertà e il pluralismo dell'informazione, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura condizioni necessarie e insostituibili per la democrazia.A questi cittadini è stato ora impedito di contribuire alla selezione della propria classe dirigente: è stato negato lo strumento delle primarie, è stato vietato il tentativo di liste indipendenti.Tra questi cittadini molti sono sempre più tentati dall'astensionismo, altri andranno a votare solo per senso del dovere. E per senso del dovere coloro che andranno a votare cercheranno di convincere chi ancora non vuole farlo. Questi cittadini non si identificano in alcun partito, anche se nel passato molti vi hanno militato, e faranno fatica a mettere la croce sul simbolo di partiti in cui non hanno più fiducia. Avrebbero molto pi volentieri votato per la coalizione ma è stato loro impedito.Voteranno per necessità . Voteranno solo per battere il peggior governo dell'età repubblicana, per cancellare l'anomalia che ha inquinato la politica italiana.Questi cittadini non saranno rappresentati nel futuro parlamento. I partiti del centrosinistra riceveranno il loro voto ma non potranno vantarlo come un'adesione incondizionata ai loro programmi.Questi cittadini delusi e impegnati sanno che dovranno da soli rianimare le loro energie e trovare nuovi strumenti per manifestarle. E vogliono esprimere questa convinzione prima del voto perchè non ci siano dubbi sul senso del loro impegno civile. Faranno tutto il possibile perchè prevalga il centrosinistra, ma dopo le elezioni eserciteranno tutta la loro vigilanza critica affinch&eacuto; la vittoria elettorale non venga svuotata da trattative e compromessi col centrodestra.Sollecitiamo tutti coloro che vivono questo profondo disagio a dare il loro personale, insostituibile contributo a un'opera di conoscenza reciproca, a una rete di relazioni paritarie per dare origine a una nuova fase di protagonismo civile e politico. E così forse si potrà dare rappresentanza politica ai moltissimi che anche dopo le elezioni continueranno ad esserne privi. Prima che il potere delle oligarchie costruisca un nuovo conformismo: parlate, scrivete, fate sentire la vostra voce.

Dario Fo, Pancho Pardi
Fonte: www.francarame.it

lunedì, marzo 20, 2006

E' ancora centrale il lavoro?

Mi ha colpito però questa affermazione di Dominique Meda che vi lancio per sentire anche il vostro parere.
-Avendo innescato un dibattito semplicistico "pro o contro la fine del lavoro" con tutto il suo corredo di questioni oziose: il lavoro è centrale o no? stiamo per lasciarcelo alle spalle? possiamo vivere senza di esso? subito ripreso dagli economisti, abbiamo evitato di porci i veri interrogativi: come organizzare meglio i tempi di sociali, attraverso quali nuove forme di negoziato? come ridistribuire il tempo di lavoro fra disoccupati, persone costrette al part time, precari, dipendenti con il posto fisso? come garantire un vero riequilibrio fra lavoro e attività extra lavorative fra maschi e femmine, affinchè le donne possano inserirsi più facilmente e con altrettante possibilità di successo nella vita professionale e gli uomini possano dedicarsi molto più di quanto non avviene attulamente nella vita domestica e familiare? [...] Ecco altrettante questioni che avremmo dovuto affrontare invece di dissertare all'infinito sulla centralità del lavoro. -

Effettivamente ha senso di parlare di lavori piuttosto di lavoro e poi il rischio è di oscurare una serie di questioni di cruciale importanza come i tempi di vita. Che ne pensate?

sabato, marzo 11, 2006

Reddito di cittadinanza e riforma della moneta

Yuri Biondi e Antonio Casilli circa il reddito di cittadinanza sostengono che:


  • Esso contiene due indubbi svantaggi e cioè non redistribuisce il reddito (se dato universalmente e incondizionatamente) ed è potenzialmente inflattivo dal momento che ogni erogazione incondizionata di moneta aumenta la base monetaria e può attivare una spirale inflazionistica. Infatto da un punto di vista patrimoniale la moneta funge da numerario per il sistema degli scambi. In tale prospettica sia per i monetaristi che per i ricardiani ogni forma di redistribuzione sarebbe inflattiva come già inflattiva è la spesa finanziata da una riallocazione del risparmio o tramite le entrate fiscali, qualora ci si trovi in piena occupazione. Solo una visione della mometa oltremisura può fondare l'erogazione di un reddito di cittadinanza come potere d'acquisto e quindi come radicale riforma della moneta escludendo ogni corrispondenza biunivoca tra prezzo e merce. Dunque bisogna inquadrare la proposta del reddito minimo all'interno di una diversa concezione della moneta e di una sua radicale riforma. Ad una produzione immateriale e a fattori produttivi flessibili deve corrispondere una trasformazione adeguata dei mezzi di pagamento che devono perdere materialità e diventare almeno in parte portafogli elettronici di moneta bollata di cittadinanza.
  • L'economia moderna e il cosiddetto mercato del lavoro non si sono sviluppati naturalmente, ma sono stati ricercati e ottenuti tramite scelte precise (politiche ed intellettuali) tipo la legge Le Chapelier in Francia, l'abolizione dell'Atto di Speenhamland in Inghilterra. Con la nascita del sistema industriale una sorta di tecnologia del denaro si è immessa nelle relazioni sociali con la conseguenza dell'affermazione dell'idea di moneta come equivalente universale per cui il denaro si accumula soltanto o si scambia in modo equivalente. Il procedere dell'industrializzazione ha fatto poi sì che sempre più persone in Europa e nel mondo iniziassero a confrontarsi con strumenti come denaro metallico e cartamoneta che prima erano ferri del mestiere solo di circoscritte categorie di cittadini. Certo il domestico, il bracciante, l'artigiano venivano pagati per il loro lavoro, ma in maniera irregolare e non uniforme e quasi nessuno di loro conosceva il ritiro del salario corrisposto a fine mese e per nessuno di loro valeva l'idea che tale compenso venisse calcolato in base ad un rendimento lavorativo precisamente misurabile. L'Ottocento delle manifatture invece prescrisse che tutti potessero toccare il denaro e tutti dovessero applicarsi nel lavoro e a questa consuetudine progressivamente vennero condotti anche coloro che vivevano ai margini. Il sistema industriale fondando una civiltà del lavoro ha fondato una civiltà del salario e una civiltà della moneta. Teorizzando il denaro come misura del valore, lo ha usato come regolatore e manipolatore delle regolazioni sociali.
  • Con l'inizio di questo secolo il sistema fordista ha segnato l'ascesa vertiginosa della moneta. Dal 1938 al 1966 la corcolazione di moneta aurea è passata da 25 mld di Usd a 38 mld di Usd, ma la circolazione di carta moneta è passata da 24,2 (1938) a 107,5 miliardi di Usd, mentre la moneta scritturale (impegni del sistema monetario verso il settore privato per moneta fiduciaria e depositi a vista) è aumentata da 70 a 380 mld di Usd. Il calcolo razionale e la valutazione economica divenute abitudini consolidate hanno determinato la convinzione collettiva che il denaro ripaghi la performance produttiva di ciascuno. Ma di fronte al decline della forza lavoro globale, sorge la necessità di ripensare la natura stessa della moneta usata come mezzo di remunerazione dei fattori produttivi, oltre la concezione del denaro da accumulare e del denaro equivalente universale.
  • Qual è la moneta giusta per una misura minima e indifferenziata come il reddito di cittadinanza? Non la moneta d'accumulo che provocherebbe scompensi reditributivi di ricchezza, nè la moneta equivalente perchè tale erogazione sarebbe non commisurata a nessuna prestazione lavorativa. La moneta adatta a pagare il reddito di cittadinanza deve essere compatibile con la base monetaria e preferibilmente non farla crescere, non deve essere accumulabile ed infine non deve essere misura di risorse produttive (non deve essere un sostituto universale) Per soddisfare il primo di questi requisiti si potrebbe pensare ad una moneta immateriale di conto elettronico, mentre per soddisfare il secondo dobbiamo invece prospettare il ricorso ad un denaro di decumulo, un denaro cioè che perde il proprio potere d'acquisto o quando al suo investimento non corrisponde la creazione di valori (si sperimentò una sorta di denaro bollato ogni mese all'epoca della Grande Depressione in Estonia, America, Austria e Germania e Keynes e Fisher si interessarono a queste tesi di Gesell). Per soddisfare l'ultimo assunto si deve pensare ad una moneta che sia scambiabile solo con un dato dominio di beni e servizi. Non si tratta di una moneta emessa privatamente in quanto in tal caso non sarebbe garantito alcun criterio di equità e solidarietà sociale (dunque si rifiuta l'e-cash dell'olandese Chaum o dei fautori del free-banking) quanto le proposte Usa di Welfare elettronico (imitate da Inghilterra, Germania e Singapore)
  • Bisogna in prospettiva concepire una riforma monetaria ben più radicale adatta a gestire l'introduzione del reddito di cittadinanza in un orizzonte che preveda un rimodellamento della spesa previdenziale ed assistenziale classica sulla scia degli Electronic Benefits Transfers (conti elettronici in valuta per i soggetti svantaggiati da cui è possibile prelevare danaro o accedere a risorse destinate ad uso vincolato, convenienti per l'abbattimento di spese amministrative grazie ad una rete informatica che processa autonomamente tutte le transazioni). Lo Stato sociale già ha tentato di introdurre una diversa moneta, parzialmente endogena alle esigenze delle istituzioni, al fine di rendere più armoniose le relazioni tra moneta tradizionale (accumulabile) e le esigenze di consumo e di decumulo richiesti dall'economia reale.
  • Si potrebbe immaginare che per ciascun fruitore del reddito di cittadinanza viene aperto u conto corrente virtuale sul quale vengono caricate le somme dall'ente erogatore, il cui accesso verrebbe garantito da una smartcard non cedibile in grado di effettuare pagamenti per spese personali analoghi a quelli delle carte di credito o debito. Tale denaro elettronico non sarebbe coniato e non aumenterebbe la base monetaria. Il valore nominale di questa moneta non esiste sin quando l'utente non la utilizza per cui l'ammontare corrispondente al reddito sarebbe erogato solo al momento della sua spesa effettiva, mentre l'impegno di competenza si potrebbe annullare in caso di mancato utilizzo. Tale concezione della spesa supera la distinzione tra economia produttiva ed economia consuntiva (distinzione che vede i servizi come salario differito) giacchè nella nostra ottica anche la fornitura di una prestazione di Welfare rappresenta una libera scelta di spesa
  • Tale portafoglio contiene una moneta a parte, con una differente circolazione monetaria, il cui potere d'acquisto si riferisce solo a specifiche risorse. Una prima configurazione di spese ammesse al circuito della moneta di cittadinanza includerebbe spese per l'abitazione (affitto, manutenzione), sostentamento fisico, servizi culturali, scolastici e formativi, vestiario, trasporto e spese sanitarie. I portafogli elettronici di cittadinanza devono contenere una moneta di spesa che non deve essere accumulabile, nè tale da favorire la speculazione, nè separarsi dalla compravendita di beni. Si tratta di moneta di cittadinanza, non di moneta d'accumulo, dunque non risparmiabile, nè investibile, nè fruttifera. Moneta di reddito nel senso di moneta di consumo. Tale moneta si dovrebbe capitalizzare negativamente e dovrebbe diminuire il proprio valore nel tempo, dal momento che si tratta di moneta endogena legata ad esigenze sociali e individuali e legata al contributo immateriale e non calcolabile della cooperazione sociale che risponde al nome di general intellect.
  • Infatti il postfordismo prospettando il superamento della distinzione dei fattori produttivi ci introduce ad una capacità produttiva diffusa i cui contenuti non si conservano, ma sfumano in quelli che si succedono ad essi, per cui la moneta ad essi collegata si deve deprezzare nel tempo. Si può pensare a diversi scaglioni di decumulo a seconda del reddito di partenza dei cittadini beneficiari: la valuta dei più bisognosi ridurrebbe il proprio valore più lentamente di quella dei beneficiari meglio situati. Il decumulo eviterebbe gli effetti inflattivi del reddito di cittadinanza e lo renderebbe più equo pur senza fargli perdere la sua universalità.

Ecco le osservazioni che si possono fare su questa tesi:

  1. Un reddito di cittadinanza basato sul trasferimento fiscale o sul debito pubblico non dovrebbe portare ad un rischio inflattivo paragonabile a quello di un aumento della base monetaria circolante. Oltretutto con la disoccupazione strutturale non c'è più il rischio di inflazione dovuta a trasferimenti fiscali. Inoltre perchè il reddito minimo sia redistributivo esso non deve essere universale e incondizionato, anche se non deve essere condizionato all'erogazione di lavoro, ma allo stato di bisogno. Esso rimane anche in questo caso reddito di cittadinanza perchè legato ad un diritto (quello del soddisfacimento di bisogni primari) universalmente riconosciuto
  2. Il fatto che si dia moneta non vuol dire che si riconosca una prestazione lavorativa dall'altra parte, ma il fatto che di cede una quota di un generalizzato potere d'acquisto. Proprio della moneta non è il rapporto con una prestazione, ma la sua generalità. La prestazione può essere monetizzata, ma la moneta non è obbligatoriamente rapportabile ad un lavoro.
  3. Una moneta che possa essere scambiata solo con un dato dominio di beni e servizi non è vera moneta, ma un contrassegno del diritto ad essere utente di determinati servizi e ciò ridurrebbe il reddito di cittadinanza a una riduzione dei servizi sociali fruibili dalla cittadinanza, Al limite si potrebbe pensare ad una quota del reddito minimo del tutto monetaria ed un' altra quota usabile solo per determinate gamme di beni e servizi, ma il tutto senza esagerare. La quota monetaria sarebbe di decumulo, mentre quella legata a servizi sarebbe utilizzabile in un arco di tempo illimitato, anche se essa non potrebbe corrispondere interessi e non sarebbe moneta di credito
  4. Ma l'acquisto di beni o servizi da parte del destinatario del reddito di cittadinanza pur non aumentando la moneta emessa non aumenta il numero di scambi ? E questo non implica comunque una dinamica inflattiva? Inoltre cosa corrisponde a chi fornisce la merce o il servizio? Se corrisponde un costo questo deve essere compensato da moneta trasferita o emessa ex-novo. Dunque la dinamica inflattiva non è scongiurata.
  5. Le spese per l'affitto non sarebbero sostenibili per un reddito di cittadinanza (a meno che non si tratti di famiglie con più elementi) : esse vanno sostituite da posti letto, stanze, abitazioni a prezzi popolari. Anche le prestazioni sanitarie e scolastiche non sono monetizzabili nel reddito di cittadinanza
  6. L'analogia tra saperi transeunti e moneta di decumulo non è sostenibile: i saperi per quanto antichi sono sempre riciclabili, mentre la moneta di decumulo deve soltanto evitare la trappola della liquidità e promuovere i consumi materialmente più necessari
  7. La tesi degli scaglioni di decumulo è interessante per distinguere tra loro i destinatari del reddito di cittadinanza, ma ciò non implica l'universalità del reddito di cittdinanza stesso: le persone che superano un certo reddito devono essere escluse, anche se sono titolari del diritto all'esistenza che motiva l'erogazione del reddito di cittadinanza. Il reddito di cittadinanza è uno strumento selettivo che permette l'esercizio del diritto all'esistenza, ma non il contenuto del diritto stesso

domenica, marzo 05, 2006

Fumagalli e il reddito minimo

Andrea Fumagalli, economista vicino ai Centri Sociali (ma proveniente pare anche dalla scuola di Augusto Graziani), ha elaborato la più completa analisi circa la necessità del reddito di cittadinanza a partire dalla crisi del paradigma fordista. Egli dice che





  • L'aumento della povertà in Europa e la polarizzazione dei redditi a livello mondiale sono legate alla crisi del paradigma fordista ed al passaggio ad un modello di accumulazione flessibile. Paradossalmente la frammentazione del lavoro che è una delle conseguenza di tali processi ha come contraltare l'uniformazione degli economisti a quello che altri chiamano il "pensiero unico", mentre invece il passaggio al fordismo aveva sancito la nascita di nuove riflessioni sull'economia che volendo magari legittimare il capitalismo monopolistico ad ovest e il capitalismo di Stato ad est avevano cominciato a studiare le possibilità di gestione politica dell'economia a partire dalla programmazione per finire alla pianificazione centralizzata
  • Perchè si possa pensare di superare l'attuale stato di cose è utile guardare anche ai movimenti che nella società esprimono vecchi e nuovi bisogni: uno di questi è il movimento dei disoccupati francesi che ha avuto tra le sue parole d'ordine non solo la richiesta di lavoro, ma anche quello di un reddito sganciato dal lavoro, spia della consapevolezza che avere un lavoro può anche non bastare.
  • Il reddito di cittadinanza è in realtà un concetto che è nato da quando è nato il capitalismo dal momento che quest'ultimo genera con il suo funzionamento un surplus la cui redistribuzione è stata da sempre oggetto di conflitti sociali. Agli albori dello sviluppo del capitalismo la creazione di una forza-lavoro metropolitana, slegata dalle condizioni di sussistenza agricola e tale da consentire un processo di accumulazione capitalistico, portò ad un dibattito su forme di distribuzione del reddito come puro sussidio contro fame e miseria; nel secolo successivo il pieno dispiegarsi del processo di accumulazione portò all'abolizione dei sussidi contro la povertà ed alla regolazione salariale basata sul mercato, con un salario di mera sussistenza e l'occupazione condizionata dall'andamento demografico. Le cose come vedremo sono cambiate con l'avvento del fordismo. Il capitalismo ha comunque sempre fatto in modo che l'accesso al reddito fosse mediato per la stragrande maggioranza della società dall'accesso al lavoro, un lavoro libero e retribuito ma subordinato alle regole dell'accumulazione privata grazie al ricatto del bisogno. Dunque il rapporto capitale-lavoro è stato il contesto in cui si è articolata la dinamica sociale: mentre il processo di accumulazione determina le condizioni di produzione, la distribuzione del reddito influenza le condizioni della domanda: intervenire sulla produzione ( sull'organizzazione del lavoro, sulle scelte di investimento, sui rapporti gerarchici) è essenziale, ma lo è anche dirottare la distribuzione del reddito (come ben si sa dall'esperienza dei paesi dell'Est)
  • Il passaggio dal modello di produzione artigianale al modello fordista fu scandito dall'aumento della disoccupazione amplificato dalla crisi del '29. Si passò anche dall'operaio di mestiere all'operaio massa, dipendente e salariato. Il keynesismo e le conseguenti trasformazioni economico-sociali del capitalismo furono la risposta democratica all'ingresso del proletariato organizzato sulla scena storica, ed al tempo stesso sancirono l'ascesa dell'economia Usa a livello globale ed una crisi delle economie europee che portò poi alla seconda guerra mondiale . In questo periodo si evidenziò la necessità del connubio tra crescita economica complessiva e crescita dei profitti e dunque l'esigenza di coniugare (onde evitare crisi di sovraproduzione) alla produzione di massa una redistribuzione del reddito consistente nella ricerca della piena occupazione, incrementi salariali pari a quelli della produttività ed erogazione di servizi sociali da parte dello Stato, il tutto senza intaccare i margini di profittabilità del capitale privato. Il salario diventa una delle principali componenti della domanda e della realizzazione monetaria del sovrappiù prodotto in quantità sempre più elevate, e perciò si mette in relazione di dipendenza con le stesse modalità di funzionamento del processo di accumulazione
  • Questo modello sociale ha in parte realizzato anche alcuni punti del programma minimo del Manifesto di Marx, in particolare per quel che riguarda le imposte progressive, la riduzione della proprietà fondiaria, il condizionamento fiscale del diritto di eredità, lo sviluppo di imprese di Stato, la ricerca dell'occupazione, la legislazione del lavoro e l'educazione pubblica. Tuttavia il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha significato una crisi sia del pensiero economico che del modello sociale: calata la crescità di produttività e profittabilità degli investimenti, il mercato dei principali beni di consumo ha cominciato a saturarsi e la via d'uscita è stata il passaggio ad una fase di accumulazione flessibile che si potesse adattare ai nuovi fattori competitivi della domanda e dei rapporti tra nazioni diverse. Le attuali forme di flessibilità produttiva (dal toyotismo al just/in/time) coniugano produzione automatizzata e differenziazione del prodotto (resa necessaria dalla saturazione dei mercati di beni standardizzati). La diffusione del paradigma informatico ha aumentato il tasso di disoccupazione rendendola strutturale, il lavoro si è frammentato rendendo difficile disciplinarlo per legge, l'economia Usa ha cominciato un declino da cui cerca di riprendersi con le guerre e l'economia ad esse collegata, il legame tra aumenti di produttività e aumenti salariali si è infranto, per cui si rivela necessario un nuovo strumento di intervento sociale all'altezza della nuova fase tecnologica ed economica
  • Se ad una diminuzione della produzione corrisponde ancora una diminuzione dell'occupazione, non è più vero il contrario. Il modello tayloristico era basato sull'introduzione e diffusione di tecnologie rigide e meccaniche (quali la catena di montaggio, le procedure di assemblaggio) che favorivano notevoli incrementi di produttività e dall'altro prevedevano una forte subordinazione della forza-lavoro di cui però non potevano comunque fare a meno. La capacità tecnologica informatica consente ora di aumentare la produzione senza che aumenti l'occupazione grazie agli alti livelli di produttività incorporati nellle nuove tecnologie che sono costituite per la maggior parte da innovazioni di processo e dunque non consentono nuovi sbocchi di mercato: esse sono caratterizzate dall'immaterialità del linguaggio informatico in grado di programmare e collegare l'uso di due macchinari; in questo modo la produzione non è ampliata, ma ristrutturata e modificata con un costante incremento di flessibilità che non crea ma distrugge occupazione. La produttività non dipende più tanto dal lavoro vivo, ma dal tipo di macchinario esistente per cui lavoro vivo e sua retribuzione stanno diventando esterni al meccanismo di accumulazione con la conseguente separazione tra salario e produttività e tra produzione ed occupazione
  • Da ciò consegue che la distribuzione del reddito e la domanda nazionale di consumo non è più rilevante nel processo di accumulazione che è sempre più globale e caratterizzato dall'internazionalizzazione dei flussi finanziari e dalla delocalizzazione dell'industria di trasformazione delle merci. Lo Stato nazionale perciò comincia a venire meno nel suo ruolo di sostegno dell'accumulazione e come redistributore del reddito per cui il Welfare assume l'aspetto di un elemento di rigidità che va fortemente ridimensionato. L'esclusione e l'emarginazione sociale ora attraversano anche il mondo del lavoro e diventano un elemento esterno di pressione sui lavoratori garantiti. Il salario che prima dipendeva dalla produttività oggi ritorna a collegarsi all'andamento demografico ed alla consistenza della forza-lavoro complessiva. Flessibilità tecnologica e salariale sono gestiti dalle imprese ed al momento sono variabili esogene e non controllabili dalle realtà sociali antagoniste: lo spazio per una politica riformista tradizionale è praticamente nullo
  • Negli anni Cinquanta e Sessanta il lavoro era il passaporto per il riconoscimento sociale e giuridico di cittadini, la subordinazione alla disciplina del lavoro era la condizione per partecipare al benessere collettivo, per cui l'esclusione diventava una scelta individuale e l'inclusione l'esito compromissorio di un conflitto collettivo economico di tipo redistributivo. La crisi dell'organizzazione fordista e lo svuotamento conseguente del Welfare, il riemergere del liberismo e dell'individualismo fanno invece dell'inclusione sociale l'esito contingente di una spietata competizione individuale. La stessa disponibilità al lavoro non garantisce l'inclusione sociale, come testimonia il fenomeno dei working poors. Inoltre se nel processo di produzione fordista l'omogeneizzazione della forza lavoro era una necessità per lo sfruttamento delle economie statiche di scala e consentiva allo stesso tempo la genesi di forme di rappresentanza basate direttamente dall'analisi delle condizioni soggettive di lavoro, nel paradigma dell'accumulazione flessibile non è possibile individuare una soggettività operaia unitaria. I livelli di subordinazione e di intensificazione dello sfruttamento (sia in termini di tempi che di remunerazione del lavoro) sono maggiori e più pervasivi di quelli che operavano nella logica fordista, ma nello stesso tempo più diversificati e indiretti.
  • In Inghilterra con le poor laws viene istituito un sussidio di assistenza ai poveri che insieme alle workhouses svolgeva il ruolo di strumento di regolazione degli effetti socio-economici devastanti determinati dal processo di espropriazione delle terre che trasforma i produttori in salariati cioè in venditori di se stessi: la determinazione del rapporto di subordinazione tra salariato e capitalista fu condizione dell'accumulazione stessa del capitale. Tale necessità di un'accumulazione primitiva si ritrova in tutti i momenti in cui vi è un cambiamento strutturale nella regolazione produttiva e tecnologica; essa infatti è dovuta alla necessità di dover disporre delle risorse finanziarie idonee per sostenere i cambiamenti della dinamica economica. I processi di finanziarizzazione dell'economia per ripristinare il comando del capitale sul lavoro. Ai tempi dell'accumulazione originaria ha svolto la funzione di legittimazione delle enclosures (con un reddito di risarcimento per gli espropriati), di regolazione degli effetti sociali devastanti del dualismo sociale determinato dalla conseguente sovraproduzione di forza-lavoro e di regolazione del salario diretto in modo tale da non fa lievitare il prezzo della forza lavoro. Perciò si può definire il sussidio di povertà delle poor laws come un salario sociale di esclusione, un'elargizione monetaria funzionale alla costituzione del rapporto salariale capitalistico. Take concezione del reddito minimo è presente anche nella concezione neo-liberale di M.Friedman, in cui lo strumento di interventoera però un imposta negativa sul reddito di cui possono godere solo coloro che hanno un reddito nullo o inferiore ad una certa soglia; l'obiettivo è di razionalizzare le misure assistenziali già esistenti a scaputo delle prestazioni sociali non monetarie. Essa è dunque un salario di esclusione funzionale all'accumulazione capitalistica ed operante all'interno di uno schema di allocazione delle risorse basato sul lavoro remunerato secondo mercato.
  • Nel periodo tra le due guerre B.Russell e O.Lange riprendono il tema di un reddito minimo di cittadinanza come elemento costitutivo di una distribuzione sociale del reddito, come fattore di inclusione sociale e strumento della trasformazione dell'economia. Lange parte dalle difficoltà dell'economia Usa e teorizzando come già legato alla cooperazione sociale l'aumento di produttività del capitale, propone una distribuzione sociale del reddito per la cui attuazione non è necessario attendere l'avvento di una società socialista. Negli anni del compromesso fordista il tema del reddito di cittadinanza perse interesse e riprende quota solo con la crisi del modello fordista. Con la fine della recessione dei primi anni Ottanta si cominciano a vedere gli effetti economico-sociali della crisi del fordismo: segmentazione del lavoro salariato, scomposizione del mercato del lavoro tra dipendenti ed autonomi (o pseudo-tali) , riduzione del potere d'acquisto salariale, incremento della rendita finanziaria, aumento tassi d'interesse, aumento del debito pubblico, riduzione dei meccanismi colleganti produttività e salario, disoccupazione persistente.
  • In Italia il dibattito si articola dal 1988 con interventi di Massimo Paci (che sottolinea il rischio della trappola della povertà) Morley Fletcher (che lo collega all'eredità comune di tutti gli individui e parla di voucher) Capecchi (che lo subordina alla formazione professionale) Marianetti e Brunetta (che lo subordinano ad una sorta di servizio civile) Garonna (che lo considera iniquo ed inefficiente per la sua universalità) Trentin (che lo rifiuta perchè marginalizzerebbe la forza lavoro) Carniti (che lo rifiuta perchè toglierebbe identità al lavoratore) Dore (che parla di un reddito universale di base in cambio di servizi obbligatori per la comunità che dovrebbe costituire il 40% del PIL e sostituire il Welfare) Salsano (che si associa alla proposta di Gorz di un secondo assegno che dovrebbe compensare la riduzione di salario dovuta alla riduzione di orario) Silva (per il quale il reddito minimo dovrebbe sostituire i servizi sociali ed essere garantito solo ai poveri) Rossi (che parla di credito rimborsabile)
  • In questa congiuntura si evidenzia l'intervento di Alain Lipietz critica l'idea che gli incrementi di produttività dovuti alle nuove tecnologie flessibili si possano tradurre in una nuova fase di crescita senza freni; l'esistenza di un vincolo ambientale esige la definizione di un nuovo compromesso sociale alternativo a quello fordista, dove c'è una crescita dell'economia immateriale e la sua riconversione in valori d'uso a vantaggio della collettività, con la costituzione di nuovi indicatori economici di benessere legati alla qualità della vita e con la riduzione dell'orario di lavoro subito a 35 ore e poi a 30. Lipietz però rifiuta un reddito di cittadinanza che non sia temporaneo e legato a difficoltà occupazionali temporanee.
  • Francesco Silva invece sottolinea come la lotta alla disoccupazione sia stata storicamente affrontata secondo tre diverse prospettive tra loro integrabili (quella individualistica che sottovaluta l'obiettivo della sicurezza, quella solidaristica e quella statalistica troppo dispendiosa) nella proposta di un reddito di cittadinanza universale (magari differenziabile per età e negato a coloro che si macchiano di certi reati) di importo inizialmente inferiore alla sussistenza ma cumulabile con altri redditi da lavoro in modo tale da facilitare l'assunzione di lavoratori a bassa produttività e aumentando la flessibilità e la riduzione del salario reale (così come sostenuto da Meade), giacchè il datore di lavoro potrebbe ridurre il salario di un ammontare pari al reddito di cittadinanza e permettere l assunzione di molti lavoratori a bassa qualificazione. Inoltre Silva presume che il reddito di cittadinanza possa ridurre le spese dello Stato sociale affidando i servizi ad imprese private
  • Il punto di vista antagonista riprende la tematica del reddito di cittadinanza come strumento non unico in gradoi di introdurre elementi di contraddizione nel rapporto salariale capitalsitico e quindi di puntare al superamento di quest'ultimo. Perciò esso in tale accezione non è considerabile come fattore di esclusione sociale nè può essere legato ad un approccio lavorista in corrispondenza a una qualche forma di prestazione lavorativa. Secondo tale prospettiva il reddito di cittadinanza (o esistenza) è una proposta di intervento economico universale e inondizionato che concorre a definire la piena cittadinanza economica e sociale e il pieno godimento delle libertà civili.
  • Per reddito di cittadinanza si intende dunque l'erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perpetua in grado di garantire una vita dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata. Tale erogazione deve essere universale e incondizionata, cioè deve essere considerata un diritto umano e dunque deve essere data a tutti gli esseri umani in forma non discriminatoria (di sesso, razza, religione). Le proposte di tipo distributivo che fanno riferimento o alla condizione professionale o ad impegni di tipo contrattuale, sono discriminanti e non conformi allo status di diritto inalienabile individuale. Trattandosi di reddito indipendente dal salario, esso sostituisce tutte le forme di indennizzo derivanti dalla perdita del posto di lavoro (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, prepensionamenti etc), ma non le altre forme di reddito già esistenti
  • La natura di universalità e di incondizionabilità del reddito di cittadinanza concorre a superare una definizione della libertà umana intesa in senso negativo come semplice rimozione di vincoli all'agire. tale concetto di libertà (alla base dei nostri sistemi liberali) non implica che l'essere umano possa essere in grado di godere effeiivamente di tali diritti. Questi rimangono giuridicamente potenziali, ma non effettivi sul piano economico, in quanto vincolabili dalla posizione reddituale. Il restringimento del vincolo economico tramite il reddito di cittadinanza, può consentire all'essere umano di godere effettivamente di questi diritti.
  • La garanzia di un reddito di base indipendente dall'impiego lavorativo è un'ipotesi che fuoriesce dalla logica dell'accumulazione produttiva per operare sul più vasto piano sociale. Per evitare che il salario da strumento di affrancamento si riduca nuovamente a semplice elemento di sussistenza, occorre che la dinamica retributiva venga regolata sul piano della redistribuzione del reddito. A tal proposito alcuni sostengono che il reddito di cittadinanza indurrebbe ad una diminuzione dell'offerta di lavoro (soprattutto per le mansioni più pesanti e meno qualificate) a scapito dei livelli di produzione. In realtà proprio del progresso tecnologico è la continua riduzione dei lavoro pesanti e squalificati e dunque la maggior difficoltà di reperire forza lavoro per eseguire questi compiti, può essere di stimolo per robotizzare queste mansioni con un incremento di produttività conseguente. Inoltre uno degli stimoli all'innnovazione produttiva e tecnologica è dato proprio dai vincoli che storicamente vengono posti all'accumulazione (vincoli spesso conseguenti al conflitto sociale) e che conducono ad una compressione dei profitti: lo sviluppo di nuove tecnologie fordiste può essere considerato una risposta alle lotte per la normazione e la riduzione d'orario di inizio secolo, mentre l'ingresso dell'informatica può essere la risposta alle lotte sociali e sindacali della fine degli anni Sessanta. Del resto la competitività delle industrie italiane alla fine degli anni Settanta era superiore in termini reali a quella alla fine degli anni Ottanta (decennio osannato come esempio di maggiore pace sociale). Insomma qualunque misura atta a migliorare la distribuzione del reddito in modo non compatibile con le esigenze di profittabilità delle imprese impone al sistema produttivo la necessità di accelerare il progresso tecnologico e di aumentare la produttività al fine di risolvere i vincoli dell'accumulazione sorti di volta in volta. Infine la diminuzione del lavoro pesante ed alienato non implica il non far niente, ma più tempo per attività più creative e produttive. Da questo punto di vista il reddito di cittadinanza (mirando alla liberazione dal lavoro e non del lavoro) rappresenta una sorta di contropotere alla disciplina del lavoro ed al controllo sociale a questo collegato
  • Il reddito di cittadinanza è anche strumento di ricomposizione della domanda, modificandone la distribuzione tra i soggetti economici che vi partecipano. In quanto tale, esso è strumento salvifico per la dinamica del processo di accumulazione capitalistico anche se incompatibile con le esigenze dell'accumulazione nel breve periodo. Inoltre il reddito di cittadinanza è consapevolmente strumento di intervento parziale che non è in contraddizione con altre misure alternative quali la riduzione dell'orario di lavoro e l'attivazione dei lavori concreti. La riduzione dell'orario di lavoro deve essere però repentina e consistente (35 ore sono insufficineti dati gli aumenti di produttività) e non può essere finanziata dai lavoratori (pena la riduzione della domanda) nè inizialmente dalle imprese (in quanto solo successivamente i guadagni di produttività possono ragionevolmente finanziare il costo iniziale della riduzione d'orario), ma solo attraverso la fiscalità generale che va riformata. Il reddito di cittadinanza può compensare i lavoratori di tale costo che anche loro andrebbero ad affrontare
  • In relazione alla riduzione d'orario vale la pena ricordare che in realtà da una decina d'anni la tendenza è all'allungamento di fatto della giornata lavorativa non solo all'interno dei salariati, ma anche e soprattutto all'interno dei lavoratori autonomi all'interno dei rapporti di subfornitura degli attuali cicli produttivi. Perciò la riduzione dell'orario di lavoro potrebbe comportare un dualismo tra lavoratori formalmente con diverso statuto giuridico, ma sostanzialmente all'interno dello stesso modello di produzione, per cui la precarizzazione passa attraverso la scomposizione del mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza da questo punto ricompone le diverse forme di erogazione del lavoro, omogeneizzando i disoccupati (che si liberano dal lavoro nero) i lavoratori autonomi e precari (che non sono costretti al superlavoro) gli occupati dipendenti (che possono ottenere una riduzione d'orario). La maggiore libertà derivante dal reddito minimo e dalla riduzione d'orario potrebbe incentivare l'aumento di attività immediatamente produttrici di valori d'uso
  • Il reddito di cittadinanza è anche una misura di contropotere al potere della moneta di discriminare tra proprietà dei mezzi di produzione e semplice erogazione di forza-lavoro. Infatti la produzione manifatturiera come momento unico dell'origine del surplus (a differenza della società feudale basata sull'espropriazione agricola e della società mercantile basata sulla gerarchia degli scambi) presuppone la separazione tra capitale (mezzi di produzione) e lavoro e quindi implica uno scambio monetario di ricomposizione tra le due parti: la produzione capitalistica è produzione di denaro a mezzo di merci (D-M-D') e necessita quindi di un'anticipazione monetaria per poter avviare la trasformazione materiale delle merci che sia in grado nella fase di circolazione e realizzazione di trasformarsi in profitto monetario. Alle precedenti funzioni di unità di conto, di scambio e di unità di misura della ricchezza, la moneta assume anche la funzione di moneta-credito, la cui disponibilità (finanziamento iniziale) è condizione propedeutica non per produrre routinariamente, ma per ampliare ed estendere il livello di produzione e di generazione del surplus. Si tratta di moneta di nuova creazione che entra nel processo economico dinamicizzandolo e procedendo alla sua metamorfosi continua (denaro e macchine sono motori dello sviluppo capitalistico). La disponibilità di moneta-credito è dunque riservata a chi detendendo privatamente i mezzi di produzione può in modo autonomo e unilaterale organizzare la produzione e questo è il discrimine tra capitale e lavoro.
  • Da un punto di vista complementare la moneta-credito è moneta-segno, perchè il rapporto di debito/credito che comanda è scambio non solvibile (immateriale) non mediato da una merce e non assimilabile allo scambio mercantile. Il rapporto di debito/credito ha come oggetto il tempo (il ponte tra passato e futuro) ed una promessa di restituzione (da cui ha origine il tasso di interesse che varia in funzione della durata e della rischiosità del prestito). Da qui deriva il ruolo discriminante della moneta-credito il cui accesso è selezionato sulla base capitalisticamente determinata della funzione economica svolta, riducibile indirettamente o meno al fatto se si ha la proprietà o no dei mezzi di produzione (garanzia). Dunque la sostanza del potere capitalistico della moneta sta nel suo essere fonte di discrimine tra capitale e lavoro e tale funzione tocca il suo apogeo nel compromesso fordista giacchè la disponibilità di moneta credito di nuova creazione definisce la proprietà dei mezzi di produzione, la disponibilità al lavoro garantisce la cittadinanza: per i salariati e per i prestatori di lavoro la disponibilità di moneta è comunque residuo, esito del processo lavorativo, reddito.
  • Bisogna dunque slegare la disponibilità di moneta dalla disponibilità di lavoro e disinnescare uno degli elementi portanti del potere della moneta : essere aprioristicamente disponibile solo per chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione; non viene con questo intaccata la capacità dell'imprenditore di gestire unilateralmente l'attività produttiva e la tecnologia, ma si favorisce la liberazione progressiva degli individui dalla schiavitù del lavoro e dal ricatto del bisogno. Il reddito di cittadinanza è inoltre strumento di inclusione sociale giacchè da un lato garantisce le risorse materiali per consentire una vita dignitosa a tutti, dall'altro (proprio per questo) aumenta il grado di autonomia dal ricatto del bisogno
  • La separazione sul mercato del lavoro tra capitale e lavoro necessita di uno scambio propedeutico tra imprese e sistema del credito che anticipi la liquidità monetaria necessaria per acquistare forza lavoro e avviare l'attività di produzione. Il prezzo della forza lavoro viene determinato in termini nominali prima ancora che l'attività di produzione venga svolta e prima ancora che la produzione venga valorizzata con la realizzazione del sovrappiù, mentre invece profitto e rendita (l'interesse al prestatore di moneta) si determinano nella fase di chiusura del processo di valorizzazione: la remunerazione simultanea dei fattori produttivi (postulata dal liberismo) non è consentita; inoltre tale struttura sequenziale genera asimmetrie e gerarchie tra gli stessi fattori produttivi. Infatti chi decide quanto, come e a che prezzo produrre determina anche il potere d'acquisto effettivo dei fattori produttivi (valore reale della distribuzione) e tale esito è il frutto dei rapporti conflittuali che si generano nel mercato del credito e del lavoro, allorchè si determina il prezzo della moneta-credito (interesse monetario) e della forza lavoro (salario) con l'aggiunta che gli imprenditori, decidendo le tecniche di produzione determinano anche i livelli di produttività ed i valori di produzione. Il prezzo finale delle mercinon è che il risultato composito del livello di scambio sul mercato del lavoro e della moneta e del livello di produttività esistente, sulla base del gradi di concorrenza esistente nel settore.
  • Con la crisi del fordismo i guadagni di produttività non vengono più ripartiti tra i fattori di produzione; ciò dipende dalle trasformazioni tecnologiche (rese necessarie per recuperare la profittabilità del sistema produttivo alla fine degli anni Settanta) ma anche dal peso crescente della produzione immateriale e il diffondersi delle tecnologie del linguaggio che ridefiniscono i rapporti tra progettazione, esecuzione e commercializzazione della produzione (tra lavoro manuale e lavoro intellettuale) : la produttività del lavoro, sganciata dalla materialità della produzione diventa produttività sociale sempre più difficile da misurare. Dunque se si verifica la separazione tra salario e produttività, allora si fa pressante l'esigenza che la distribuzione dei guadagni della produttività sociale avvenga a livello sociale. La redistribuzione del reddito significa redistribuire il prodotto sociale simultaneamente tra i fattori produttivi nella fase di chiusura del processo economico indipendentemente dal livello del salario monetario
  • Occorre prima considerare le idee di reddito di cittadinanza funzionali alla flessibilità del neomodello di accumulazione; esse nascono dalla necessità di dare un indennizzo limitato e temporaneo dal momento che i processi economici non garantiscono un lavoro a tutti. Un primo modello di tipo fordista di tale indennizzo è l'imposta negativa sul reddito che prevede trasferimenti ai contribuenti il cui reddito è al di sotto di una data soglia: esso è funzionale al contenimento del Welfare, ma contempla il perseguimento di un consumo di massa compatibile con la produzione in serie all'interno del modello fordista di produzione. Un secondo modello è il reddito minimo (che può essere assimilato ad un'indennità di disoccupazione), complementare all'attività lavorativa e di consumo, rivolto a chi non ha un reddito minimo da lavoro, sulla base del riconoscimento della fine del modello fordista e del fatto che la precarizzazione dell'attività lavorativa non consente un reddito stabile e continuo per tutti. Si tratta di un sostegno monetario indipendente dalla condizione professionale vigente, un palliativo alle carenze strutturali del nuovo modello di accumulazione flessibile, un sussidio selettivo e condizionato con la clausola che il reddito di cui si disponga sia inferiore ad una determinata soglia ritenuta di povertà. Una variante del reddito minimo è il cosiddetto reddito di partecipazione corrisposto ai partecipanti ad attività socialmente utili (quale che sia il loro reddito a prescinedre da tali attività). Tale reddito si può definire anche dividendo sociale, inteso come frutto di una produzione sociale che non prevede trattamenti differenziati. Con la nozione di reddito di cittadinanza invece si intende un intervento universale e condizionato che interessa dunque non solo chi si trova in una situazione economica particolare
  • Una obiezione comune al reddito di cittadinanza è il fatto che esso è un'alternativa allo Stato sociale, ma a tal proposito va detto che lo Stato sociale costituisce sempre una parte della remunerazione salariale (salario indiretto) , mentre il reddito di cittadinanza riguarda direttamente il potere d'acquisto di beni e servizi mercificabili. Inoltre seppure nel conflitto sociale si imporrà uno scambio, c'è da dire che la privatizzazione dei servizi sociali è già in atto indipendentemente dal reddito di cittadinanza e la possibilità di opporsi a tale dinamica dipende dalla resistenza e dalla conflittualità che le forze antagoniste sono in grado di mettere in campo. Inoltre la capacità di organizzare capacità conflittuale si scontra con la tendenza oggi in atto del predominio della contrattazione individuale sulla contrattazione collettiva (grazie alla flessibilizzazione dei rapporti di produzione, alla frammentazione del mondo del lavoro, alla subordinazione anche del lavoro intellettuale al capitale ed alla taylorizzazione del general intellect) e perciò nessun momento di conflittualità è in grado di inceppare il meccanismo di accumulazione
  • E' necessario un momento di ricomposizione delle diverse soggettività del lavoro che non può basarsi su singole condizioni di lavoro (troppo diverse tra loro) nè sulla retorica della solidarietà di classe. La ricomposizione può avvenire oggi lungo coordinate esterne al processo produttivo, pur essendo ad esso conseguenti, dal momento che grazie ad un reddito di cittadinanza vi è un maggior potere contrattuale nell'ambito della contrattazione ormai individualizzata. Dunque non è il reddito di cittadinanza che favorisce l'individualizzazione dei rapporti di produzione, ma l'opposto. La possibilità di disporre di un reddito maturato fuori dei rapporti di lavoro potrebbe favorire lo sviluppo di forme di resistenza e di conflittualità antagonista in quanto possibile elemento di ricomposizione sociale delle diverse soggettività oggi sparpagliate. Inoltre il reddito di cittadinanza può assumere diverse forme (erogato in maniera solo monetaria se non implica la sparizione dei servizi sociali primari o sotto forma di servizi reali supplementari che consentono l'ottenimento in modo gratuito degli stessi servizi primari ).
  • L'attuale organizzazione sociale postfordista ad accumulazione flessibile è incentrata sia su di una individualizzazione dei rapporti di lavoro e uno sviluppo di produzione immateriale come componente sempre più essenziale del sovrappiù (con forti guadagni di produttività sociale non redistribuiti) sia su di un livello di incertezza crescente con orizzonti temporali di decisione a breve e strumenti di valorizzazione che si muovono su scala oramai mondiale. Sul piano dei rapporti di lavoro la scomposizione crescente ridefinisce i rapporti tra lavoro salariato, a prestazione e coatto, mentre sul piano della produzione e del credito si assiste a processi di concentazione ed omogeneizzazione all'interno di macroaree sovranazionali, grazie al mercato internazionale dei capitali. In un simile contesto la possibilità di attivare politiche economiche e fiscali nazionali (con l'espropriazione delle banche centrali nazionali) risulta ridotta.
  • Va comunque fatta un'analisi quantitativa per avere chiara l'entità della massa monetaria necessaria per avviare una politica di reddito di cittadinanza (lire 1.000.000 di lire a tutti i cittadini al di sopra dei 18 anni consistenti in 45 milioni di persone) che sarebbe 540.000 miliardi di lire, vale a dire il 26,5% del PIL (o il 56,5% delle entrate dell'amministrazione pubblica). Gestire una simile somma in termini di bilancio pubblico porta al ripensamento dell'intera politica fiscale italiana ed alla necessità di sviluppare nuovi strumenti di controllo dei flussi di reddito che oggi passano liberamente sulle nostre teste.
  • A tal proposito si potrebbe pensare ad una tassazione di tutti i redditi indipendentemente dai cespiti tramite un'unica imposizione fortemente progressiva sui redditi, ma con aliquote minori di quelle attuali; con un altro provvedimento si potrebbero ridurre le aliquote sull'Irpef ed introdurre una patrimoniale delle imprese (tassa sul capitale); si potrebbe riformare la contribuzione sociale, eliminando la fiscalizzazione degli oneri sociali, ma riducendo i versamenti di contribuzione sociale; si potrebbe semplificare il sistema fiscale con controlli incrociati per quanto riguarda i servizi al consumo onde minimizzare l'evasione fiscale; si potrebbe introdurre una patrimoniale su ricchezze mobiliari ed immobiliari. Dal punto di vista internazionale a fronte della mobilità internazionale della rendita e delle attività imprenditoriali si potrebbe imporre una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie di tipo speculativo e un intervento fiscale sugli Ide (investimenti diretti all'estero) , introducendo un'aliquota d'imposta sui flussi di capitale reali investiti nelle filiali estere: in tal modo potrebbero essere sottoposti a controllo e regolamentati non solo i flussi puramente speculativi, ma anche quegli investimenti che sfruttano processi di dumping sociale esistenti in molti paesi. Si tratta di un intervento che deve coinvolgere la maggior parte dei paesi europei, con il fine di regolamentare la competizione basata sulla rincorsa di costi di produzione sempre più bassi e consentire un miglioramento delle condizioni sociali nei paesi emergenti che avrebbero così una minor convenienza ad attuare politiche di dumping sociale.
  • Sul lato delle spese è necessario procedere ad una semplificazione del bilancio pubblico: mantenimento e allargamento delle spese sociali, riduzione delle spese militari e di ordine pubblico, eliminazione dei sostegni e delle agevolazioni economiche alle imprese. Una seria politica di riduzione della disoccupazione (tramite riduzione d'orario) ed una politica di sostegno della domanda (reddito di cittadinanza) hanno un duplice effetto sul bilancio pubblico e cioè riduzione degli oneri della disoccupazione (per circa 60.000 milardi di lire tra modo diretto e indiretto) ed incremento delle entrate fiscali in seguito dell'accresciuta domanda interna (un aumento dell 1% della domanda implica un aumento dell'1,3% del Pil e del 0,6% delle entate fiscali). la spesa assistenziale pubblica in Italia al 1996 inoltre ammontava a 30.000 miliardi di lire (15 miliardi di euro).
  • Inoltre è necessario riprendere la questione della redistribuzione dei guadagni di produttività indotti dalle trasformazioni tecnologiche ed oggi ad esclusivo appannaggio del profitto e della rendita. In realtà i tassi di crescita della produttività sono oggi di gran lunga più elevati di quanto le statistiche non dicano, dal momento che non si conta la produttività immateriale indotta dall'attività intellettuale applicata alla produzione. Ed è tale valore aggiunto che deve costituire la base imponibile dalla quale detrarre i fondi per il finanziamento del reddito di cittdinanza. Se la quota dell'1% sulla produzione dei beni e servizi destinati alla vendita venisse devoluta per il reddito di cittadinanza, si avrebbe a disposizione una cifra di 20.000 miliardi di lire. Va detto anche che in contesto di accresciuta incertezza economica l'esistenza di un reddito di cittadinanza garantisce una maggiore stabilità dal lato della domanda ed una maggiore continuità dei consumi.
  • Sommando tutte le fonti di finanziamento al netto delle modifiche delle aliquote di tassazione, ma con l'aggiunta della Tobin Tax con un'aliquota del 2% (per un gettito stimabile a 186.000 miliardi) , un imposta sugli Ide (per un gettito di 30.000 miliardi) e una tassazione dell'1% della produttività (20.000 miliardi) si arriverebbe a più di 240.000 miliardi a cui si aggiunge una riduzione di spese pari a 94.000 miliardi. Si raggiunge così una base ragionevole per discutere di reddito di cittadinanza.
  • La battaglia per il reddito di cittadinanza è al tempo stesso battaglia politica per la riappropriazione dei proprio bisogni e battaglia culturale per la riappropriazione dell'uso dei propri saperi. Il processo di formazione dei saperi sul piano culturale e dell'autocoscienza è qualcosa di differente dai processi di formazione delle competenze tecniche e della formazione professionale. Nel modello fordista la separazione tra la fase della progettazione e fase della produzione si riversava nella separazione gerarchica tra attività intellettuale (dotata di saperi e competenze) e attività manuale. Sapere e formazione erano sinonimi ed erano appannaggio esclusivo di poche elites posizionalte nelle fasi cruciali di controllo del comando produttivo e formativo (fabbrica, scuola e università). Neglianni Sessanta la conflittualità sociale si manifesta anche come diritto al sapere e diritto di accedere ai centri istituzionali di formazione.
  • Nel paradigma postfordista invece si modifica strutturalmente il rapporto tra fase della progettazione e fase dell'esecuzione, comportando una ridefinizione dell'attività, manuale e di quella intellettuale. Per quanto riguarda il lavoro manuale uno degli effetti dell'accumulazione flessibile è stato quello di rompere la ripetitività del'azione lavorativa della linea meccanica di montaggio, tramite l'inglobamento in un solo momento operativo di più funzioni e mansioni. La possibilità di comunicazione tra diverse macchine ha permesso di svolgere in parallelo molte operazioni che prima si svolgevano sequenzialmente: all'attività di esecuzione vera e propria si sommano operazioni di controllo-qualità. Il mix di attività manuale, controllo e progettazione comporta la detenzione di competenze specifiche e relative alla tecnologia utilizzata per cui è necessario un processo di formazione specializzata permanente e continua veloce al pari della dinamica tecnologica. In questo contesto lo sviluppo di formazione professionale non necessita di una preparazione culturale autonoma ed il sapere individuale si scinde dalla necessità di possedere competenze specifiche.
  • La distinzione tra attività manuale (soggetta a sforzo o ripetitività) e attività intellettuale (basata su valutazioni individuali e differenziate) stava nell'impossibilità di misurare e valorizzare in termini di unità di prodotto e/o di tempo quest'ultima , in quanto l'esito dell'attività lavorativa intellettuale dipendeva dal grado di istruzione, dal livello culturale e dall'esperienza individuale. L'introduzione di tecnologie del linguaggio e la standardizzazione dei processi di produzione immateriale in procedure prestabilite ed informatizzate consente invece oggi di poter controllare in termini numerici la prestazione intellettuale. Attualmente l'attività di scrittura e di programmazione viene remunerata sulla base del numero dei caratteri prodotti e non del livello qualitativo, oppure seguendo procedure standard di presentazione dei risultati ad intervalli regolari che ne consentano la misurazione in termini di unità di tempo. Si verifica così una taylorizzazione della prestazione intellettuale.
  • Ovviamente questo discorso non si estende a tutte le prestazioni intellettuali, ma è maggiormente presente dove il grado di competenza e di sapere è più diffuso e codificabile, e dove il grado di specializzazione relativa del sapere è minore. Tuttavia generalmente si assiste ad uno svuotamento sostanziale dell'attività intellettuale a favore di una sua meccanizzazione che ne deprime il contenuto, svilendone il risultato e la ragion d'essere. Anche per il lavoro intellettuale quindi la cultura conta sempre meno a vanyaggio della necessità di una formazione specifica. Indipendentemente dalla prestazione lavorativa la necessità della formazione professionale asservita alla necessità della produzione diventa sempre più imprescindibile per poter essere avviati all'interno del mercato del lavoro. Ma sempre più si tratta di una formazione professionale asservita alle necessità della produzione, cosa che implica una subordinazione culturale sempre più elevata. Se anche il cervello viene messo al lavoro e diventa strumentale ai meccanismi di produzione, è necessario che sia il più condizionabile possibile, dotato cioè di competenze specifiche ma non di autoconsapevolezza e autonomia culturale. Da questo punto di vista il reddito di cittadinanza favorendo la liberazione dal lavoro, è anche strumento di contropotere culturale.
  • Un processo di ricomposizione delle diverse soggettività all'interno del mondo del lavoro può verificarsi solo partendo da aspetti non direttamente riconducibili alle diverse esperienze di lavoro, ma esterni all'ambito lavorativo. Nel paradigma dell'accumulazione flessibile due sono gli aspetti che esulano dalle condizioni soggettive dell'attività lavorativa : il reddito ed il controllo sul proprio tempo di lavoro. Essi sono trasversali alle diverse tipologie di lavoro oggi esistenti in quanto figlie della flessibilizzazione dell'accumulazione con lo sganciamento della remunerazione del lavoro dai guadagni di produttività e la rottura del nesso produzione-occupazione. Questi due aspetti si traducono nella distribuzione sociale del reddito e nella riduzione dell'orario di lavoro, due aspetti complementari in cui il primo può facilitare la realizzazione del secondo.
  • Inoltre se la riduzione d'orario è un aspetto interno alla categoria degli occupati, il reddito di cittdinanza riveste una funzione sociale più allargata e riferita a tutta la popolazione. Da una decina d'anni è ben presente nel mercato del lavoro flessibile la tendenza all'allungamento della giornata lavorativa, soprattutto per i cosiddetti lavoratori autonomi legati alla prestazione. Una riduzione d'orario a tal proposito sancirebbe definitivamente il dualismo tra lavoratori all'interno del medesimo livello di produzione, ma con diverso statuto giuridico. In questo caso solo il reddito di cittadinanza potrebbe svolgere una funzione realmente unificante tra lavoratori dipendenti, autonomi e disoccupati.
  • La meccanizzazione dell'attività intellettuale (manifestantesi in un misto di crescente precarizzazione e di nuove forme di elitismo corporativo) pone come necessaria la questione culturale come problema sociale, dal momento che il decrescente livello culturale medio è un'utile strumento per la costituzione di una sorta di dittatura dell'informazione e dello stereotipo. Le condizioni di precarizzazione del lavoro impediscono qualsiasi presa di coscienza e di analisi delle proprie condizioni soggettive individuali. Il reddito di cittadinanza anche in tale situazione può svolgere un ruolo decisivo di collettore delle coscienze.
  • Anche se è possibile pensare a strumenti di ricomposizione sociale che si articolino trasversalmente alle soggettività ed ai vari segmenti del lavoro, rimane irrisolto il nodo della definizione del soggetto che pone le richieste e il soggetto che le riceve. Al momento non si intravedono nuovi modelli di rappresentanza in grado di cogliere i molteplici aspetti del mondo del lavoro e di farsi portavoce dell diverse istanze oggi presenti. Un aiuto in tal senso sarebbe forse la costituzione di luoghi fisici e liberati di incontro delle diversificate esperienze lavorative (Centri sociali). La parola d'ordine del reddito di cittadinanza può essere funzionale a definire la pratica del conflitto del nuovo inizio secolo.

Le considerazioni che si possono fare sulle tesi di Fumagalli sono queste:

  1. In realtà le Poor Laws come dice lo stesso Marx hanno impedito al salario di scendere oltre una certa soglia superiore al sussidio di povertà, dunque non ha svolto un ruolo di calmiere del prezzo della forza lavoro, ma al contrario ha permesso l'elevazione successiva del salario oltre il livello della mera sussistenza
  2. La proposta di reddito di cittadinanza di Silva è contestabile in quanto il reddito di cittadinanza non deve essere cumulabile nè deve essere alternativo allo Stato sociale, amche se può permettere una riduzione delle spese dello Stato sociale e una riduzione del costo del lavoro delle imprese, però senza ridurre il salario orario, ma permettendo un lavoro intermittente che si adatti alle esigenze dell'accumulazione flessibile
  3. Controverso è se il reddito di cittadinanza debba essere corrisposto anche a coloro che non sono cittadini del paese che eroga tale reddito: da un lato ogni discriminazione va evitata, ma d'altro canto si deve affrontare la sostenibilità di tale misura. Perciò tale problema va rinviato alle decisioni democratiche di ogni comunità interessata a tale misura.
  4. Il fatto che l'erogazione del reddito di cittadinanza possa essere condizionata da fattori contingenti, non implica che esso non sia collegabile ad un diritto universale al soddisfacimento di bisogni primari. Se ad es. questi sono soddisfatti attraverso un salario, una rendita o una pensione, allora l'erogazione del reddito di cittadinanza può essere sospesa, senza pregiudizio per il diritto inalienabile dell'individuo
  5. Il reddito di cittadinanza costituirà il livello base di ogni altro reddito (da lavoro, pensionistico, indennità) per cui se le indennità specifiche di disoccupazione sono più alte del reddito minimo esse vengono comunque garantite se già in essere, anche se si può pensare ad una loro riconfigurazione per il futuro, tenendo comunque presente che le aspettative e gli impegni di spesa di chi viene licenziato possono essere diverse da chi non ha mai avuto lavoro
  6. Integrare il reddito di cittadinanza con i costi legati alla riduzione d'orario è un controsenso (dal momento che poi il reddito di cittadinanza va a sua volta finanziato). In realtà il reddito di cittadinanza inizialmente deve costituire un paracadute per tutti i lavoratori e non, la base di un processo di riarticolazione complessiva degli orari di lavoro che va contrattata settorialmente, territorialmente e aziendalmente (con una riduzione uniforme e generalizzata solo in ambiti ben determinati) , secondo le differenti ipotesi ben evidenziate da Guy Aznar. In realtà si può pensare anche ad una riduzione dell'orario di lavoro finanziata con un secondo assegno corrispondente al reddito minimo. I lavoratori autonomi per ottenere il reddito minimo non devono superare un certo reddito annuo
  7. Chi e come deve erogare la moneta in cui consiste il reddito di cittadinanza? A nostro parere si tratta sempre di trasferimenti fiscali. Inoltre il reddito di cittadinanza non è condizionato la lavoro, ma è condizionato al non-lavoro o quanto meno ad un certo reddito (cioè ad un impossibilità di spendere per la soddisfazione di alcuni bisogni primari). Proprio il fatto che non venga erogato a tutti risulta essere una garanzia del fatto che non può sostituire lo Stato sociale ( i cui servizi vanno invece garantiti a tutti).
  8. Il reddito di cittadinanza si riferisce al necessario per mangiare e per il vestiario, alla formazione gestita personalmente, allo svago, in certe circostanze favorevoli alla casa. I servizi sociali fanno riferimento all'istruzione, alla casa, alla salute (non compensabili tramite l'erogazione monetaria perchè troppo costosi in rapporto a prestazioni qualitativamente decorose).
  9. La distinzione tra reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito non è così netta come pretende Fumagalli. La proposta che va fatta consiste in una famiglia di tipologie e non in una sola tipologia scelta tra tante (essa risulterebbe astratta e non consentirebbe l'adattamento dell'azione di governo a situazioni differenziate ed a problemi che si possono verificare di volta in volta e che presuppongono strumenti flessibili di intervento)
  10. Anche se la battaglia per il reddito di cittadinanza deve essere quella unificante, tuttavia non bisogna essere rassegnati nella lotta per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori (tramite il sindacato) e per il mantenimento dello Stato sociale. Si potrebbe pensare a cedere sull'art.18 se e solo se c'è un patto sociale per fare del reddito di cittadinanza un principio costituzionalmente tutelato. Mentre si potrebbe pensare a mantenere la legge 30 se il reddito di cittadinanza diventi quantomeno una legge ordinaria dello Stato. Le lotte sindacali devono trasferirsi dalla tenuta occupazionale alla sfida sull'organizzazione del lavoro. Quanto alla tenuta dello Stato sociale si può guardare come modello di sostanziale tenuta da 30 anni a questa parte alle socialdemocrazie scandinave.
  11. La copertura del reddito di cittadinanza deve essere così disegnata : 500 euro a tutti gli inoccupati al di sopra dei 18 anni, 250 euro a tutti i minorenni, magari con ulteriori articolazioni. Sarebbero 6000x25.000.000 + 3000x10.000.000 circa per un totale di 180 miliardi di euro (360.000 miliardi di vecchie lire) coperti per circa 80 miliardi da pensioni e per 15 miliardi di assistenza, per cui la spesa vera e propria sarebbe di poco più di 85 miliardi di euro (meno di 170.000 miliardi di vecchie lire) ovvero l'8% del PIL (e anche meno). Spesa finanziabile forse anche dalla sola Tobin Tax.
  12. La funzione unificante del reddito di cittadinanza non viene compromessa dalla sua erogazione ai soli disoccupati, dal momento che la potenziale disoccupazione è la cifra comune anche degli occupati nell'ambito di una generale precarizzazione dei rapporti di lavoro
  13. Il fatto che già si sia costretti a distinguere il soggetto che pone le richieste dal soggetto che le riceve, indica che comunque partiamo da processi che (dal momento che la fase socialista della transizione non si è riuscita a consolidare se non in maniera debole) fuoriescono da un controllo collettivo democratico e dal basso.