lunedì, dicembre 31, 2007

Amianto dalla Cina

Da Elpica

Trovato amianto nei thermos cinesi. La notizia divulgata dal TG 1 de 13 luglio scorso, arriva dalla direzione generale per “l'Armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori” presso il ministero dello sviluppo economico. I Nas e le ASL competenti ne ha sequestrato un notevole quantitativo.
Indubbiamente è la concorrenza che costringe a tenere sotto pressione i prodotti cinesi, ma il motivo ufficiale è che i thermos contengono delle pasticche di Amianto, la cui funzione di attutire la differenza della temperatura interna/esterna evita che il contenitore di vetro si rompa, conferendo così alla merce un valore d’uso senza il quale non vi sarebbe valore di scambio. La motivazione ufficiale, con tanto di servizio televisivo, ha dato ai lavoratori la “certezza” che militari e sanitari fanno osservare la legge, cosa che invece è stata mille volte disattesa nei cantieri e nelle fabbriche; in questo caso è la n° 257 del 1992 che ha bandito l’uso e la commercializzazione dei prodotti che contengono amianto.
Numerose sono le volte che abbiamo scritto sulla questione, sia per l’aspetto della controinformazione sulla verità della pericolosità di questo materiale, la quale risale al ben lontano 1935, quando gli studi epidemiologici negli USA ne confermavano la relazione con il tumore della pleura – il mesotelioma -, sia soprattutto per organizzare movimenti di operai contro l’amianto.
Le cronache delle sentenze che gli operai stanno riuscendo a strappare, in quest’ultimo periodo, se da un lato non riuscirà mai a far giustizia della loro morte prematura, di sicuro dimostrano una capacità di critica alle organizzazioni politiche e sindacali, che, per quanto sia risultata limitata, ha dato un preciso segnale alla necessità di non delegare a nessuno i propri interessi, specie ora che non c’è la necessità per il capitalismo di confondere le ristrutturazioni degli esuberi con la salute degli operai.
La notizia che viene dai prodotti cinesi, se da un lato può far comprendere cosa sia lo sviluppo capitalistico e le sofferenze che gli operai cinesi saranno costretti a patire, ripropone nel nostro paese la domanda: perché l’amianto è stato bandito per legge dello Stato?
La risposta di chi interpreta il marxismo secondo lo schema della riproduzione semplice, quindi delle contraddizioni che insorgono tra gli operai e il capitalista o tra questi e il costo delle materie prime, non può rispondere a questa domanda, gli basta ribadire che l’amianto è stato sostituito perché non più economico. Per cui lo Stato è ridotto ad esecutore politico di un interesse particolare, quello dell’industria dell’amianto. Così gli interessi collettivi della classe dei capitalisti, nonostante che si facciano concorrenza tra loro spariscono, e non possono assumere nessun significato, poiché, ciò che nella concezione precedente si è annullato è stato proprio il meccanismo della produzione e riproduzione allargata del capitale, che per il suo carattere sociale non può esistere senza lo Stato, e lo Stato non ha ragione di esistere senza rapporti sociali in perenne contraddizione tra l’interesse privato e ricchezza sociale.
L’impostazione, nella versione economicista, che vuole spiegare la sostituzione dell’amianto dai processi produttivi perché sarebbe diventato più costoso nei confronti dei materiali che l’hanno sostituito, non regge. Perché, se ciò fosse vero, il materiale sostitutivo dell’amianto si imporrebbe sul mercato in modo spontaneo, cioè senza l’intervento dello Stato.
Ci sono dati, anche se risalgono al 2003, che confermano, a dispetto della tesi economicista, che l’amianto è tuttora prodotto e utilizzato. Infatti, tra i principali paesi produttori extraeuropei, insieme a Russia e Cina, che hanno sfornato rispettivamente 700.000 e 450.000 tonnellate, c'è il Canada, che con le sue 335.000 tonnellate prodotte ha mobilitato la sua diplomazia per far pressione all’Europa per ripristinare l’uso dell’amianto, e con ciò stesso sconfessando anche l’altra tesi a sostegno dell’economista, cioè che i costi di trasporto contribuirebbero a fare dell’amianto un materiale più costoso di quelli sostitutivi.
Fu nel 1998, a sei anni di distanza dalla legge italiana e su proposta dei Paesi Bassi, che la maggioranza dei paesi della Comunità Europea (dodici su quindici) si pronunciò a favore della proibizione totale dell’uso dell’amianto. Gli stati membri che votarono contro furono: Grecia, primo produttore europeo d’amianto, Spagna e Portogallo grandi utilizzatori di questo materiale.
Ritornando alle notizie che ci vengono dai thermos cinesi, gli industriali di quel paese sarebbero degli stupidi, perchè utilizzerebbero un materiale più costoso, altamente nocivo, e premessa di futuri contrasti con gli operai.
La notizia però più importante è quella che riguarda i profitti derivanti dalla produzione dell’amianto, che a nove anni di distanza della legge 257 pur ci sono ancora, anche se in oscillazione per i timori che generano i riconoscimenti delle patologie, ci è offerta dall’articolo del Sole-24 Ore dell’11 dicembre 2001:
“ In scivolata sull’amianto
Zurigo. Proseguono i cambi al vertice di Abb, che lanciano ombre sul futuro del colosso di engineering. Peter Voser, sarà, dal secondo trimestre 2002, il nuovo responsabile finanziario del gruppo svizzero-svedese ed entrerà a far parte della commissione esecutiva della holding. Voser, che ricopre attualmente la stessa carica nella Shell Worldwide Oil Products, rimpiazzerà Renato Fassbind. Il cambio arriva a poche settimane dalle dimissioni a sorpresa del presidente “storico” Percy Barnevik, l’artefice della nascita del colosso europeo dalla fusione tra la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri nell’88. Ma a far scivolare le quotazioni di Abb, che, dopo aver perso oltre il 10%, hanno chiuso a Zurigo a 17,30 franchi (- 8,22%), sono stati anche i timori legati all’amianto. Le preoccupazioni sono state innescate dalla caduta a picco dei rivali americani della Halliburton, che hanno perso il 40% venerdì e ieri un altro 15% sull’onda dei rischi finanziari legati alle richieste di risarcimenti correlati all’utilizzo dell’amianto.”
Come si può notare, le cifre sull’andamento dei profitti azionari legati all’amianto, anche se mostrano una diminuzione a causa dei risarcimenti che gli operai richiedono, dimostrano che l’amianto è un materiale ancora in uso perché ancora economicamente insostituibile.
I padroni sono costretti ad abbandonarlo non “Quando il costo dell’amianto diventa troppo alto, sarebbe un fatto che come sempre si impone in modo spontaneo all’interno della concorrenza tra i capitalisti, il che non solleverebbe grossi problemi alla critica, se non quella di criticare a posteriori una merce, e quindi un valore d’uso per il modo storico in cui è stato prodotto.
Invece i padroni italiani hanno abbandonato l’amianto solo dopo aver mietuto tante vittime e malattie da risarcire, ma soprattutto solo dopo aver trovato di fronte gli operai con una volontà d'azione.
E, questi padroni sono stati costretti dallo Stato, perché troppi risarcimenti doveva pagare. Per gli industriali fu una costrizione vantaggiosa, perché con la scusa dell’amianto lo Stato gli regalò migliaia di miliardi per le ristrutturazioni.
Se in altri paesi si continua non solo ad estrarlo, ma addirittura a lavorarlo, non sarà l’umanità dei padroni o del loro Stato a vietarne la lavorazione, né tantomeno la fantomatica esistenza di un materiale sostitutivo più economico, ma la situazione della lotta che gli operai e i lavoratori possono condurre su questa questione.
Elp 30 luglio 2007

Alcune riflessioni sulla lettera aperta inviata dai compagni della Rete dei Comunisti.

Da Elpica

La sinistra \arcobaleno nasce subalterna …….perchè era già subalterna.
Chi crede che non lo era deve fare i conti con alcuni problemi: ha di frontea sè una storia di compromessi politici e cedimenti sindacali, una montagna di falsificazioni teoriche e di abiure storiche che necessitano delle risposte. In esse si vedrà che non c’è nessuna Montagna né tantomeno dei Montagnardi che lottano contro i Girondini, e che il topolino che partorisce non è altro che un nuovo Danton.
Ripercorrere la breve storia della nascita del PRC sarebbe un defatigante impegno che penso sia meglio evitare. Perché, più di ogni altra ricerca che evidenzierebbe geneticamente le premesse teoriche ed il blocco sociale di cui era espressione, le conclusioni cui è giunto insieme ai verdi e alla sinistra dei DS sono per i lavoratori e i tanti militanti il più bell’insegnamento. Anche se si è fregiato dell’appellativo "comunista, su cui ancora qualcuno si oppone alla sua scomparsa, ciò che si formato ed ora si coalizza in questa cosa rossa è il comunismo borghese.
Anche se ricacciato nella sua storica collocazione e per questo un pò recalcitrante ma pur senza smentire la sua vocazione governista, esso rimane quello che è: partito di riserva del capitale collocato a sinistra, per tenere a freno le contraddizioni che spingono i lavoratori alla coscienza e alla organizzazione rivoluzionaria, per sabotarne la necessaria possibilità di rovesciare gli attuali rapporti di produzione e di scambio. In sostanza rimane quello che fu il vecchio riformismo, balbuziente con la proprietà privata, romanticista verso le capacità demiurgiche dello Stato borghese.
Se la critica dovesse fermarsi a quanto dice Giulio, per il quale: "la gravità della situazione e la sua deriva continua richiede una rinuncia a dogmi e velleità integraliste per affrontare in maniera propositiva, concreta e ampia (perché ampia è la platea che ne è colpita) i problemi della precarietà del lavoro, del reddito, della casa, dell'istruzione, dei diritti civili", sarebbe priva di significato.
Perché alla fine non è chiaro di che cosa si tratterebbe; se fare una nuova organizzazione politica un po’ più di sinistra o qualcos’altro di non meglio precisato. Se teniamo però conto che le questioni accennate rappresentano gran parte del programma del sindacalismo alternativo, la faccenda si ingarbuglia alquanto, riportandola proprio al punto da cui hanno iniziato Cossutta e Bertinotti, con il primo, mosso dalla simbologia ideologica che riportava la memoria allo Stato Sociale con un corposo retroterra elettorale, ed il secondo mosso dalla velleità di riscossa dei salari senza colpire i profitti, ma salvando, con quindici anno di anticipo, il maggior sindacato dalla crisi di rappresentanza che ora lo investe più in profondità.
Se con la condivisione di una parte della lettera aperta promossa dai compagni delle Rete dei Comunisti, si può giungere a ripetere un film già visto, credo che le questioni vadano scritte in modo più stringato e senza lasciare nessuno alla libera interpretazione.
La critica può invece significare tutto, se, rivolta agli attuali rapporti di produzione e di scambio giunge, per la sua coerenza, a collocare una folta schiera di militanti nella posizione inconciliabile con il capitalismo. In caso diverso non dovrebbe esserci niente di cui scandalizzarsi. Infatti, se finanche la borghesia è interessata a risolvere i suoi mali senza metterne in discussione i rapporti di produzione e la dinamica economico-sociale su cui regge il suo potere, perché dispiacersi per i tanti panni sbiancati che sono in circolazione?
Penso che un dibattito che non tenga conto di questa ultima affermazione èsubalterno esso stesso ai panegirici che ci propina la politica borghese. Anzi, per chi è convinto della necessità storica di rovesciare l’attuale piramide sociale, una presa di posizione del genere, che può sembrare in sé indifferente se non anche rozza e priva di dialettica, è la sola che ci permette di iniziare un cammino autonomo e indipendente, senza stracciarsi le vesti per quanti non lo fanno.
Ed è a partire da qui che anche le battaglie di cui parla Giulio, ammesso che possano trovare soluzione negli attuali rapporti sociali sempre più lacerati dalla crisi economica e dalla sete di profitto, possono essere combattute sul loro connaturato terreno anticapitalistico, oppure come fisiologici aggiustamenti del sistema.
Su questa nuova aggregazione politica pesa soprattutto la necessità che venga lasciato per sempre, anche se ora lo fa solo nominalmente, ogni riferimento al comunismo teorico. Perchè, come espressione della liberazione degli operai dallo sfruttamento capitalistico, li compromette continuamente col capitale nei confronti del quale si sono legittimati come forza governativa. Infatti, al pensiero di liberazione degli operai, non basta più nemmeno commemorare la Russia del ’17 senza dire che ciò ha significato anche capitalismo di stato.
In secondo luogo sta la riforma elettorale col suo sbarramento percentuale che renderà impossibile la rappresentanza parlamentare che non prenda voti sufficienti.
Ma c'è dell'altro ancora nella nascita di questa cosa rossa, che è tutto a suo discapito. Certo è che loro pensano alla propria esistenza e si assemblano, ma sarà sempre più problematica la loro vita futura. Una della cause, oltre all’incedere della crisi capitalistica con i suoi inconciliabili risvolti sociali, è proprio il ricongiungimento dei loro differenti approcci alla realtà.
Infatti, se il riformismo, storicamente posizionato dentro i rapporti borghesi di produzione e di scambio, ha potuto essere anche espressione dell’utopica distribuzione equa del reddito facendo pure un po’ la voce grossa sul salario nelle condizioni di sviluppo del capitale, ora che si unisce con i verdi che sono alla rincorsa di un equilibrio tra questi primi e fondamentali rapporti con la natura, per loro, come anche per gli ecologisti, saranno tempi duri e banco di prova per le più belle ed inconcludenti proposte universalistiche con le quali credono di poter mettere d’accordo il lavoro con l’ambiente, senza eliminare l’appropriazione privata del plusvalore.
Sarà un caso, oppure è proprio il capitale, che, giunto all’apice del suo sviluppo rimette il comunismo nella sua espressione umana? Staremo a vedere.
Intanto i comunisti senza partito rappresentano un anacronismo se non anche un po’ di folclore, fanno tanto male a se stessi e al comunismo da essere un fatto inaccettabile.
Se c’è un ultimo insegnamento che dobbiamo ricavare è quello di finirla col metodo di dire cose che non si intendono o lasciare intendere cose che non si dicono.
L’indipendenza politica e il programma comunista sono tracciati nel Manifesto del 1848.
Elp 10- 12- 2007

La repressione contro gli operai ad un punto di svolta: perché…..

Da Epica

Dalle manifestazioni dei Consigli di Fabbrica dei primi anni ’90, che fecero indietreggiare l’attacco contro le pensioni, salvando una parte consistente degli operai e dei lavoratori allora in forza, sono trascorsi quindici anni. Anni in cui operai più giovani hanno rimpiazzato, in numero oltrechè minore, gli operai andati in pensione, ma ad un tasso di produttività maggiore di quello che si poteva ottenere con lo stesso numero.
Il sistema pensionistico pensato dal Sg. Dini - è bene ricordare che fu il capo di un governo per la cui maggioranza il PRC dovette elaborare la prima scissione. Un drappello di parlamentari amici di Garavini, ex Segrt. Reg. Fiom-Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta alla Fiat nel 1980, appoggiò il governo in nome dello spauracchio di Berlusconi.-, le cui invariate e sostanziali proiezioni sociali, insieme all’accordo del ’93, alla legge Treu e alla legge 30 in materia di mercato del lavoro, fanno sempre più sentire le loro ricadute negative sulle generazioni più giovani dei lavoratori.
Quindici anni di lotte, anche dure, in cui gli operai hanno fronteggiato i padroni fabbrica per fabbrica, ed i lavoratori impoveriti il governo nelle piazze, ma hanno anche sperimentato sulla propria pelle due sostanziali questioni, mentre oggi un’altra si affaccia sempre più potente.
La prima è il risultato di queste lotte, nonostante i sacrifici consumate in esse. In generale, non è esagerato affermare che risultati veri e propri non ne abbiamo portato a casa nessuno, e che, anche quel poco che si è riuscito a strappare è stato sempre quello predeterminato dalla concertazione pubblicamente dichiarata, o stabilita nel segreto delle loro riunioni.
La seconda questione è rappresentata da come la repressione si è scatenata contro i vari livelli delle lotte, sia dalle aziende in prima persona, sia dalle centrali sindacali contro i suoi stessi militanti per la loro opposizione agli accordi con la confindustria, o tra il sindacato e le singole aziende.
Prima di passare alla terza questione, che a mio parere è imperniata attorno alla necessaria possibilità di generalizzare le lotte, credo sia utile ragionare attorno a questi due primi aspetti.
La repressione delle lotte è avvenuta come tradizionalmente ci hanno abituati a constatare sia i padroni che il riformismo negli anni addietro: da una parte l’azienda con le sue provocazioni interne ed esterne alla fabbrica, dall’altro le organizzazioni politico-sindacali che isolavano con vari provvedimenti disciplinari, o con campagne mediatiche, le avanguardie dalla massa in movimento.
Ne citerò alcune di queste lotte e della repressione che subirono, perchè a mio parere esemplari, non solo per il momento in cui si svolsero, dato che poco tempo prima la classe operaia veniva data a furor di popolo e dallo stuolo dominante degli intellettuali per scomparsa, integrata o addirittura dormiente, ma anche per il fatto che in quelle lotte già si intravedevano problematiche più fresche su cui oggi è più accesa la discussione.
In merito al rapporto tra gli operai, il sindacato e la contrattazione, c’è da ricordare i 16 operai della Piaggio di Pontedera, di cui alcuni anche RSU, espulsi e sospesi a fine luglio 2004 dal loro stesso sindacato, la Fiom di Pisa.
La lettera che segue, di cui a monito dei lettori riporto la notizia che non fu pubblicata né da Liberazione e né da Il Manifesto, con la quale gli operai contestavano la repressione subita, tranne che per la collocazione organizzativa implicita alla continuazione della battaglia, cioè dentro o fuori i maggiori sindacati, nella sostanza contiene punti identici a molte situazioni di lotta e di contestazioni operaie.
Solo per rimanere in ambito Fiat, basta ricordare le contestazioni del 2006 alla Fiat di Pomigliano contro il contratto cui seguì il licenziamento di alcuni militanti dello Slai-Cobas, e quella contro i provvedimenti burocratici congiunti contro delegati RSU a Mirafiori che lasciarono il Sin.Cobas; le motivazioni sono sempre le stesse e la lettera che riporto le coglie pienamente.

“L'espulsione di undici tra delegati e lavoratori e la sospensione di altri cinque è un fatto senza precedenti nella storia della CGIL, ed è necessario che tutti possano conoscere i fatti che stanno dietro una simile decisione. Veniamo accusati di aver pubblicamente e sistematicamente contestato, con interventi in assemblea, volantini, promozione di agitazioni, nientemeno che la linea sindacale della Segreteria provinciale di Pisa della FIOM.
Perchè l'abbiamo contestata? Chi conosce la storia sindacale alla Piaggio negli ultimi anni sa bene che dal '95 una serie di accordi tra OO. SS. provinciali e Azienda ha introdotto alla Piaggio forti aumenti dei ritmi di lavoro, oltre 2000 licenziamenti, uso abnorme del lavoro stagionale, flessibilità e sabati lavorativi, senza aumenti salariali. In particolare, il metodo dei tempi di lavoro TMC2, ben noto perchè alla base della rivolta di Melfi, è stato introdotto alla Piaggio da un accordo aziendale del 1995. La sua applicazione, anche di fronte alla resistenza operaia,è stata possibile solo grazie al sostegno delle OO.SS. provinciali, in particolare dalla FIOM.
Questo ha portato dal '95 a oggi a una serie di accordi, che hanno autorizzato la stagionalizzazione della produzione, con l'uso massiccio del lavoro precario e dei sabati lavorativi e hanno acconsentito ai licenziamenti generati dai forti aumenti di produttività conseguenti agli aumenti dei ritmi di lavoro.
Nell'ultimo anno, con l'arrivo alla Piaggio di Colaninno, la disponibilità della FIOM provinciale ad ulteriori concessioni all'azienda si è tradotta nella sigla di un accordo integrativo che riduce al minimo gli aumenti salariali, assenti in Piaggio da nove anni, condizionandoli interamente agli obiettivi aziendali, conferma l'applicazione del TMC2, introduce la legge 30 e reimpone i sabati lavorativi, che le lotte operaie avevano resi impraticabili negli ultimi tre anni.
L'accordo è stato approvato a maggioranza strettissima, solo grazie al voto favorevole degli impiegati, in un Referendum fuori delle regole (per es., solo quattro rappresentanti del NO, venti del SI, su otto seggi, un rappresentante del NO e cinque del SI in Commissione elettorale).
Tutto questo stracciando la piattaforma precontrattuale, dai contenuti diametralmente opposti, approvata lo scorso Settembre dai lavoratori a larghissima maggioranza nel quadro delle iniziative della FIOM contro gli accordi separati di FIM e UILM sul contratto nazionale e condraddicendo apertamente tutte le posizioni e gli obiettivi della FIOM nazionale su TMC2, legge 30, flessibilità e salari.
In questi anni noi ci siamo fatti interpreti della resistenza operaia, che si è espressa all'inizio con scioperi di reparto e ha nel tempo consolidato un gruppo di lavoratori e delegati FIOM, circa la metà dei 17 FIOM nella RSU prima del suo rinnovo nello scorso Novembre. La continua crescita del sostegno operaio alle nostre posizioni ha determinato negli ultimi anni uno scontro aperto in fabbrica con la Segreteria provinciale della FIOM.
In Ottobre le dimissioni dei delegati FIOM legati alla segreteria provinciale hanno anticipato il rinnovo della RSU. Le elezioni sono state gestite da una commissione di sole quattro persone, nominate dalle segreterie provinciali di FIOM FIM e UILM e UGL, col disprezzo di ogni regola e garanzia (assenza in tutti i seggi degli elenchi dei votanti, divieto ai componenti dei seggi di siglare le schede elettorali, siglate solo della Commissione elettorale, che ha rifiutato di indicarne il numero totale, urne facilmente manomettibili e nella disponibilità della sola Commissione per lunghi periodi, in particolare per quattro ore tra la fine delle votazioni e l'inizio dello scrutinio, durato cinque giorni, rifiuto totale, anche a formale richiesta, di accesso ai verbali). [.....].
Dall'inizio dell'anno sono stati compiuti una serie di atti arbitrari nei nostri confronti, tra i quali l'allontanamento sostanziale dalle trattative per il contratto integrativo, l'esclusione, contro il regolamento, della nostra lista dal Congresso provinciale della FIOM, e infine la richiesta, da parte della Segreteria provinciale alla CGIL regionale dell'avvio del procedimento disciplinare che si è concluso con 11 espulsioni e 5 sospensioni.
Sembra una commedia dell'assurdo: noi che abbiamo rivendicato gli obiettivi della FIOM nazionale contro la diversa linea sindacale della FIOM provinciale e denunciato in tutte le sedi le continue violazioni regolamentari con cui è stato impedito alla volontà dei lavoratori di esprimersi, veniamo sanzionati per averlo fatto apertamente e pubblicamente.
La nostra vicenda è solo un episodio di un problema, che si sta imponendo sul piano nazionale e che è già esploso con la lotta degli autoferrotranvieri, di reale e verificabile rappresentanza dei lavoratori, che le organizzazioni sindacali finiscono per trattare come soggetti passivi, privi della possibilità di espressione democratica e del diritto di determinare le scelte di linea sindacale e gli obiettivi delle rivendicazioni, e perciò privi degli strumenti fondamentali di difesa delle proprie condizioni di lavoro. Questo problema sarà difficilmente eludibile e fa tutt'uno con la necessità di una ripresa dell'iniziativa politica del movimento operaio, oggi subalterno agli interessi e alle prospettive di classi parassitarie e inconsistenti.”
fonte: infoslai@fastwebnet.it
Come si vede siamo in presenta di un attacco concentrico: mentre alcuni nuclei di operai si mettono in movimento contro i padroni, devono nello stesso tempo, se non anche prima, entrare in contrasto con i propri dirigenti sindacali e difendersi dai loro attacchi pur di rimare nell’ambito della loro classe, senza esserne isolati e ricacciati in angolo.
Un caso da manuale lo dimostrò nel 2001 la lotta degli operai alla FMA di Pratola Serra. La fabbrica fu bloccata per cinque giorni dagli operai che rivendicavano “Uguale Lavoro - Uguale Salario”. La battaglia, pur se ebbe risonanza nazionale e momenti di mobilitazioni ricadenti solo sulle spalle di nuclei ristretti di operai, non fu generalizzata. I sindacati, tranne simboliche presenze, non vollero accettare lo scontro con la Fiat così com’era maturato in tutto il comparto, e non ci fu nessuno in grado di farlo. Non solo, ma quell’esperienza di lotta dovette ripiegare per concentrarsi nella battaglia per far rientrare i licenziamenti promossi a seguito di provocazione esterna alla fabbrica, lasciando così alle ortiche gli obiettivi della lotta intrapresa.
Gli esiti di questi attacchi li conosciamo. Sono rientrati, sia per l’impugnazione dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, ma soprattutto per le radici collettive di cui erano espressione questi operai incriminati.
Un caso a parte invece fu il licenziamento di F.F., un operaio della Fiat New Holland di Modena. Fu licenziato per scarso rendimento. Ma, nonostante l’individuazione soggettiva che mirava a colpire un militante operaio marxista, l’azienda fu sconfitta dopo circa due anni di sentenze e ricorsi. La stessa organizzazione scientifica del lavoro, con tanto di cartellini - tempi di produzione su cui è scritto nero su bianco la quantità da produrre in condizioni ottimamente ergonomiche, non poteva far ricadere sull’operaio le deficienze tecniche e ambientali in cui lavorare. La sua strenua resistenza a tutte le sirene con la faccia dell’Euro, lo riportarono in fabbrica al suo posto di combattente.
Da quando si è visto fin’ora, la repressione degli operai ribelli ha marciato su di un solo livello, quello che nelle premesse ricadeva su interessi collettivi. Così: da parte delle aziende, vi è stato il tentativo di sotterrarli in un mare di guai giudiziari e di difficoltà economiche, da parte del Sindacato, lo scopo di rompere il legame tra queste soggettività incompatibili a tener la testa piegata e la restante massa degli operai. Come pure, ciò che nelle conclusioni poneva gli stessi problemi, abbiamo avuto, da parte dello Stato, la sua presenza intimidatoria e le cariche della polizia contro gli operai in sciopero.

Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, rappresentano però un punto di svolta nella repressione operaia nelle fabbriche. Esso consiste nel fatto che le motivazioni si presentano sganciate dal movente dell’azione che li determina, cioè dagli interessi collettivi come il salario e l’organizzazione del lavoro contro cui gli operai organizzano scioperi e proteste, per incentrarsi invece sulla responsabilità individuale.
Questa forzatura avviata dalla Fiat con l’interpretazione dell’art 26 del CCNL dei metalmeccanici ci pone l’esatto rovescio della medaglia. Le azioni soggettive non devono mai uscire dagli ambiti degli interessi collettivi. Questa credo sia la lezione che il più grande gruppo industriale offre alla classe degli operai e specie alle sue avanguardie.
Una lezione storica, dal momento che la Fiat l’attua a difesa dei suoi interessi mentre gli operai saranno costretti a contrastarla fino alla resa dei conti finale con al comando, o la Fiat o gli operai.
Una lezione storica, perché i licenziamenti di Melfi, a parte la illegittimità riscrontabile sulla base dello stesso Diritto del Lavoro e in numerose sentenze della Cassazione, proiettano nel futuro ula possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, come anche la possibilità che i padroni possano sostituirsi al potere punitivo dello Stato, nel mentre esso non ha ancora sanzionato niente.
Questa possibilità, in cui oggi a Melfi ne costatiamo i prodromi, riporta di nuovo la questione sugli interessi collettivi, ma ad un livello più alto dello scontro tra le classi, che né il diritto né le sentenze della Cassazione contemplano. Chi vuole capire capisca, perché qui si tratta di nuovo di rapporti di forza, ed essi si plasmano dentro lo scontro collettivo tra gli operai e il capitale.
È possibile, dato gli impulsi reazionari che stiamo riscontrando e senza che qui parli della competizione tra una sigla sindacale ed un’altra, continuare a pensare e ad agire senza rompere l’isolazionismo e quegli elementi di autocoscienza che caratterizzano la frammentazione organizzativa in cui sono immersi una nutrita schiera di operai e militanti che hanno perso ogni illusione riformista e concertativa ? La risposta è negativa.
Se si sta affacciando il Maccartismo del 21° secolo, la risposta non può riposare su iniziative frettolose, o isolate. Seppur generose negli intenti che spesso caratterizzano la piccola borghesia rivoluzionaria, nella realtà risultano invece proclami che non fanno altro che aprire gli occhi alle zecche senza che abbiamo possibilità di togliercene una. Perché se c’è una lezione da imparare è quella di sapere che nell’ambito di interessi che si contrappongono, le azioni di una parte ricadono comunque su tutta la classe. Ed i borghesi non fanno differenza su chi li promuove. Se nella storia hanno perseguitato finanche i democratici perché accusati di comunismo, questo dovrebbe far pensare ancora una volta di più alle responsabilità soggettive e al loro legame con gli interessi collettivi.
Una Coalizione Operaia. Solo a partire da essa si può in seguito valutare il come e il quando. Tutto il resto che fuoriesce da questo impegno non solo è sbagliato sul piano del materialismo, ormai ridotto ad una scadente scolastica ripetitiva di condizioni storiche superate, che al massimo può solo fare l’apologia culturale del 1848, del 1917 e del 1969, senza vedere in esse i reali esecutori e i compiti attuali in cui sono immersi per emanciparsi nuovamente.
Una Coalizione Operaia è necessaria per rimettere anche il pensiero di liberazione di questa classe nella collocazione oggettiva dello scontro tra le classi. Anche se ciò deve per forza far indietreggiare tutti i sostenitori “della coscienza esterna” con i loro programmi, una cosa do per certa: non esiste nessun pensiero teorico autonomo dalla evoluzione delle fondamentali classi sociali: gli operai e la borghesia.
I licenziamenti alla Fiat sono la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata. La sua sempre più marcata fuoriuscita dai canoni di salvaguardia che il riformismo offre al sistema capitalistico, incapace com’è di contenere i risvolti sociali delle sue contraddizioni economiche, pongono al primo posto il problema dell’organizzazione.
Chiunque è su questo terreno non può far finta di non sapere che, per rispondere all’attacco del più grande gruppo industriale che ha inaugurato il sistema legale per effettuare licenziamenti selettivi degli operai ribelli, si può solo rispondere con l’unità degli operai. La Coalizione è il primo e fondamentale passo che si può e di deve percorrere.
Elp. 3 – 12 - 2007

Fiat: licenziamenti discriminatori in fatto e in diritto

Da Elpica

Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, insieme alle pene proposte contro decine di giovani antimperialisti che dimostravano a Genova 2001, rappresentano un punto di svolta nella repressione: non solo della ribellione operaia nelle fabbriche, ma anche della contestazione che sale potente nella società.
È la reazione padronale al crescente sviluppo delle contraddizioni che scaturiscono dall’organizzazione scientifica del lavoro e contro le scelte politiche dei governi; ma In Fatto, è soprattutto la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata.
La sempre più marcata fuoriuscita di questo processo dai canoni di salvaguardia che offrono il sindacalismo concertativo, e i partiti politici della sinistra, ormai ridottisi a particolari appendici della borghesia dominante, impensierisce sia i padroni che i governi.
Sindacati e partiti, incapaci come sono di contenere le contraddizioni tra una metrica del lavoro che ti spreme in minuti-secondo a fronte di un salario e di condizioni del lavoro che scendono sempre più al di sotto della vita media sociale, perdono sempre più consensi. Mentre lo Stato vorrebbe punire i dimostranti contro il G8 con centinaia di anni di galera, rispolverando in aggiunta anche il reato di tipo patrimoniale, il quale nessuno potrà mai risarcire, i padroni scendono direttamente in campo.
Nell’oblio completo dei difensori del diritto e della democrazia, i padroni hanno trovato nel concetto giuridico di “rapporto fiduciario” che lega il lavoratore al datore del lavoro, l’arcano per risolvere il conflitto dentro le fabbriche.
Questa uestaquesta metodologia dell’odierno attacco padronale, per la possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, non è escluso che possa costituire nel futuro il nuovo terreno della repressione delle avanguardie su tutti i luoghi di lavoro.
Se questa è la sostanza della reazione che abbiamo di fronte, contenerla, solo per parlare in termini di difesa, significa porre nei fatti un grado di organizzazione capace di coagulare un vero e autentico rapporto di forza tra gli operai e il capitale, senza nessun intermediario. E questa è una questione che passa inevitabilmente per le forche caudine di un processo organizzativo capace al tempo stesso di valorizzare ma anche di strozzare tutti quegli elementi di autosufficienza che funzionano come separazione e frammentazione. Elementi che sono pur presenti nelle varie componenti organizzate che si sono poste sul terreno dell’indipendenza politica di classe, ma che vanno rimossi.
C O A L I Z I O N E, è, a mio parere, l’indirizzo politico che deve seguire alla messa in campo e alla condivisione del principio dell’Indipendenza politica della classe, con tutti gli sforzi e la messa in discussione che le esperienze fin qui fatte esigono, per cui, la parola della sua realizzazione passa evidentemente nelle mani delle sue espressioni politiche organizzate.
Se i padroni al momento hanno ragione solo perché siamo deboli organizzativamente, il che equivale a dire che siamo deboli anche politicamente, nemmeno dal versante del Diritto hanno le carte in regola. Infatti, la forzatura avviata dalla Fiat con l’applicazione dell’articolo 26 del C.C.N.L. dei metalmeccanici che tratta appunto del rapporto fiduciario, offre, ad una attenta lettura, la possibilità di rigettare questi licenziamenti individuali come un atto discriminatorio.
In proposito, l’art. 25 del CCNL che descrive le mancanze per le quali l’azienda può licenziare, e le varie sentenze della Cassazione che hanno reso nullo il licenziamento per cause non attinenti alla prestazione lavorativa, come anche quelli sanzionati per motivi politici e religiosi, ed in mancanza di una sentenza passata in giudicato, dimostrano che ci troviamo di fronte ad una vessazione padronale.
Infatti di che cosa sono colpevoli questi operai? Allo stato dei fatti di niente. Ma se la Fiat, con quest’atto discriminatorio vuole sostituirsi al potere punitivo dello Stato, senza che esso abbia sanzionato alcunché, è meglio che sappiamo fin da ora che, se i padroni si incamminano su questa strada, l’alternativa di organizzarci meglio è sempre meno una opzione interlocutoria per diventare sempre di più una necessità vitale.
Se questa discriminazione potremo farla rimangiare mobilitandoci anche nel campo della giurisprudenza, sopportando i tempi di essa che c'inducono a patire insopportabili situazioni economiche, con il relativo risvolto psicologico che i padroni sanno che mina il rapporto tra queste avanguardie e il resto degli operai, nel merito rimane l’essenziale: una organizzazione degli operai più solidale, più forte.
Nell’esprimere la mia solidarietà a questi operai licenziati, esprimo al tempo stesso anche un appello ai tanti lavoratori e militanti per stringersi attorno ad essi, e il desiderio di vedere la classe operaia nella posizione sociale che gli compete, in quanto produttrice di tutta la ricchezza sociale.
Elp. 23.nov. 2007

l’ Uranio Impoverito ovvero il cattivo uso delle armi

da Elpica

Si è scritto troppo e troppe volte sul Petrolio come uno dei principali motivi dello scatenarsi delle attuali guerre di aggressioni.
Da parte nostra, che siamo critici del capitalismo in quanto sistema di produzione e appropriazione della ricchezza fondato sullo sfruttamento, dobbiamo dire che:
Se questa fonte di energia rappresenta la base della moderna storia del capitalismo, come l’acqua ed il carbone furono quella dei suoi inizi, per comprenderne gli sviluppi bisogna togliere al concetto di energia il suo significato universale, per ri-connetterlo invece alla sua intima natura di elemento fondamentale del capitale costante. È solo da questo punto di vista che possiamo comprendere l’imperialismo, gli attriti e le alleanze tra le varie nazioni che prefigurano veri blocchi contrapposti.
Chi detiene il monopolio dell’estrazione ha il monopolio del prezzo sul mercato. Il capitale costante dei paesi concorrenti è tenuto sotto pressione da questo monopolio con l’effetto di contrastare lo sviluppo e la concorrenza di queste nazioni. Esse devono pagare questa fonte di energia con la moneta di riferimento. Ne devono accumulare una gran quantità, e per farlo devono diventare loro malgrado acquirenti di prodotti dei paesi monopolisti. Benchè non più convertibile in oro, al momento la moneta di riferimento del mercato del petrolio è il Dollaro, che ha la sua base nelle Borse di New York e Londra, ma anche l’Euro comincia ad essere usato nei pagamenti, specie tra l’Iran e i clienti del suo petrolio.
Neanche il capitale costante è un concetto avulso da altri significati concatenanti. È costante, perché una parte di esso è il valore delle materie prime, o è addirittura fisso, immobile, pietrificato in strutture e in macchinari, solo perché si contrappone al capitale variabile, cioè ai salari. Ed il capitale variabile è tale solo perché alla fine del suo consumo, alla fine del processo produttivo, ha prodotto più del suo valore, ha prodotto un plusvalore.
Questo plusvalore non rimane quieto nella sua esistenza di sovrappiù, è talmente grande la sua grandezza in valore che neanche lo sperpero per le classi dominanti basterebbe a soddisfare in qualche modo un equilibrio per ricominciare daccapo lo stesso ciclo. Gran parte di esso deve trasformarsi in nuovo capitale, e si trasforma costantemente per via concorrenza, delle nuove scoperte scientifiche che essa stessa stimola e che alla fine impone di applicare.
Nell’economia borghese, questo plusvalore, questa massa di lavoro non pagata, la cui esistenza sarebbe già di per sé una fonte di formidabili progressi sociali, per i capitalisti invece è una dannazione da cui non possono uscire. Quando alla fine della circolazione le vendite hanno realizzato il profitto, per i capitalisti cominciano i veri grattacapi, la loro domanda: quanto capitale abbiamo investito per guadagnare tot profitti? Si accorgono che il rapporto tra queste due quantità che prende il nome di Saggio del Profitto è sempre più in discesa.
Alcuni sono presi dal panico, altri devono abbandonare la scena, i rimanenti, che al momento risultano i vincitori di questa gara, sono presi dal loro famelico sforzo di aumentare la produttività. Devono spremere gli operai al limite degli elementi fisici del tempo di lavoro, in primo luogo, e quando questo non basta devono opprimere l’intera società, rovesciando in essa la razionalità dei loro freddi calcoli col risultato di imprimerle un ritorno al passato.
Si può capire quindi quali sofferenze stanno subendo, ad esempio, gli operai e il proletariato delle campagne cinesi, nonostante che il loro paese sia in una fase di sviluppo industriale. Schiacciati come sono dallo sviluppo del capitale cinese che per aumentare la redditività del suo capitale impiegato vorrebbe comprare il petrolio ad un prezzo più basso ma che invece deve provenire tutto dal tasso dei salari e dalla produttività.
Fin qui abbiamo descritto gli elementi della guerra tra le classi prendendo come base l’energia del Petrolio. Ma, se c’è una nozione che dà il senso del movimento, quella è appunto la Storia. Ed essa sta iniziando a cambiare anche la base da cui dovremmo dedurre i fatti nel futuro.
Appunto perchè si sta affacciando sempre di più la possibilità di usare come fonte di energia alternativa l’Uranio Impoverito.
Ne abbiamo sentito parlare al tempo della guerra in Kossovo. Ne sentiamo parlare sporadicamente, quando i militari italiani, dopo averlo usato, a loro insaputa ovviamente, come arma anticarro, cominciano a denunciarne gli effetti letali sulla loro salute, il che fa prevedere anche quali siano in futuro gli effetti sulle popolazioni dove si faceva la guerra.
Eravamo stati abituati a pensare che i moderni mezzi tecnologici impiegati come armi da guerra risparmiassero vittime civili non coinvolte direttamente sul fronte. Che, la guerra moderna, non fosse più sporcata dalle rappresaglie di stampo nazista, che non avesse più bisogno n’è di un retroterra sociale, n’è di fronteggiare i risentimenti delle popolazioni, tanto era potente all’inizio degli anni ’90 il pensiero che la guerra fosse un’azione chirurgica.
I fatti non stanno così, non solo per come si sta facendo la guerra all’Iraq o all’Afghanistan; gli effetti radioattivi dell’Uranio, come furono e lo sono ancora quelli dell’uso dell’amianto nella produzione, si faranno sentire, sia nei paesi che hanno scatenato la guerra sia dove la si è combattuta.
Elp 24-10 2007

l'ambiguità da sciogliere: Gli operai e la società civile

Da Elpica:

Dobbiamo convenire che è stata una grande e ben riuscita operazione, quella di fare un referendum esteso a tutte le classi sociali con operazioni di voto su tutto il territorio.
La democrazia del voto ha funzionato. Pensionati e casalinghe ammaliati dal misero aumento di una miserabile pensione, lavoratori benpensanti che non hanno nulla a che vedere col Lavoro, insomma la società civile ha decretato che l’accordo del 23 luglio, seppur con qualche modifica che si preannuncia marginale sui lavori usuranti, deve passare.
Questo voto ha decretato che i pensionati devono rimanere nella miseria, gli operai devono contentarsi del presente e quelli futuri di essere certi che la loro condizione peggiorerà.
Dall’abolizione della scala mobile, dopo che gli anni ’80 sono trascorsi all’insegna del Toyotismo e della Qualità Totale, sono ormai più di quindici anni che gli operai si ritrovano stretti un cappio al collo contro ogni loro rivendicazione per migliori salari e diritti nel lavoro.
Da quando agli inizi del '90 i Consigli di Fabbrica diedero vita alle grandi proteste contro Berlusconi per poi ritrovarci un governo di sinistra col finanziere Dini che riformò il sistema pensionistico proiettandolo per tappe alla conclusione oggi raggiunta, e con il sg. Treu che istituzionalizzò con legge le premesse per la precarietà del lavoro, sono passati quindici anni.
Anni di continui ricatti e cedimenti, in primo luogo sulle condizioni degli operai: dal versante della Confindustria e dai vari governi succedutisi fino ad ora, la parola magica che ha funzionato come il pilastro contro cui fermare ogni rivendicazione sui salari, sui diritti e sullo stato sociale dell'erogazione dei servizi, è stata il Mercato. Nessuno può sentirsi responsabile delle leggi che regolano il suo andamento, e in effetti sarebbe vano ricercarne la responsabilità in questo o quel capitalista, tranne ovviamente quando bisogna scaricarne le conseguenze sugli operai e i lavoratori. Come pure, è vano cercarne le responsabilità nell’imperialismo degli Usa, senza lottare contro il proprio capitalismo.
Dai padroni grandi e piccoli, la parola, che è un vero e proprio arcano concettuale, è passata nelle mani dei partiti, di destra e di sinistra, federalisti o centralisti che siano, mediante varie tappe che hanno contrassegnato gli equilibri della borghesia di destra e di sinistra e le pressioni esercitate sulle due fazioni dalla Lega di Bossi.
Questa convergenza, anche se la destra si distingue per affermare più apertamente il primato dell’impresa, libera da ogni condizionamento, per il quale i migliori affari sarebbero fonte di migliori condizioni lavorative, mentre la sinistra si affanna a indicare che migliore efficienza e innovazione aumenterebbero la competitività e quindi la domanda di lavoro, è stata contrassegnata, come prima tappa, da un scontro sul carattere costituzionale della democrazia.
Il punto da colpire era la velleità separatista della Lega di Bossi, che per la stessa questione del Mercato, da cui discende la competitività, ha mosso guerra allo Stato, definito ladrone, parassitario e centralista, al solo scopo di scalzarlo dalle garanzie sui patti tra capitale e lavoro, come l'attacco all'art. 18 ha dimostrato, e per consentire ai padroni del nord di pagare meno tasse, e quindi di trarre più profitti.
Si è continuato a porre sotto ricatto gli operai e i lavoratori per il pericolo di Berlusconi. E per mantenere il consenso elettorale della società civile cercando di non perdere quello degli operai sempre più arrabbiati, il partito che si prefiggeva di rifondare il comunismo, ha dovuto programmare due scissioni: la prima, con alla testa l’ex sindacalista Garavini - segr. reg. Fiom Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta contro i licenziamenti alla Fiat - che si separava da Cossutta per dare i numeri al governo Dini; la seconda, tra Cossutta e Bertinotti, con il primo a difendere il governo D’Alema, il secondo a cercare di recuperare consensi tra gli operai e la gioventù arrabbiata dei centri sociali e trattenerli sotto l’egida dell’opposizione ma non troppo. Infine altri aggiustamenti di posizioni - leggi abiure sulla storia del novecento - per accreditarsi come forza governativa e come soggetto istituzionale e tenere in vita il governo Prodi ultimo, che con non allenta la precarietà, riconfermando l’andamento da Treu a Maroni e che sulle pensioni ha una proiezione per il 2013 addirittura peggio della riforma di Maroni.
Qui comincia il bello.
Il pericolo della destra è stato usato dai partiti di sinistra con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. E il governo Prodi non è davvero l’ultimo che gli operai di meritano. Dovremo per questo essere destinati a farne il cane da guardia pur sapendo di andare incontro ad un baratro?
Certo che siamo per la Libertà, ne abbiamo sempre più bisogno, per questo vogliamo combattere questo sistema economico che ha inglobato nei suoi cicli di rotazione tutta la nostra vita, con turni a scavalco di giorno e di notte. Ma la Libertà per le classi sottomesse non significa niente senza la Fratellanza e l’Uguaglianza, e se per giungere a questo saremo costretti ad usare la ghigliottina tecnologicamente idonea ai tempi nostri, sarà una necessità, ab torto colli, da cui non poter sfuggire.
Quindici anni non sono trascorsi invano. Pur se accanite lotte non hanno dato risultati perlomeno corrispondenti ai reali rapporti di forza che si sono messi in campo o che potevano essere messi in campo, una nuova leva di operai combattenti si va formando nei più grandi centri della produzione sociale.
Qui è scontato il giudizio negativo dei sindacati. Giudizio che deve affondare più in profondità gli elementi da cui deriva, ed uno particolarmente importante che si affaccia sempre di più è il potere e la possibilità che il sindacato ha di sabotare le lotte, di non generalizzarne i contenuti, di non estenderne la forza.
Che si levi alto il grido di battaglia: COALIZIONE!
L’unità degli operai d’avanguardia che sappiano farsi valere nella cosiddetta società civile come la classe da cui tutto viene e niente rimane.
Elp 14-10- 2007

sabato, dicembre 01, 2007

Antonio Pagliarone risponde

Caro Antonio Carlo
Ho scoperto per caso una risposta ad alcune critiche sollevate all’articolo “L’economia globale un Titanic che affonda” e mi precipito a fare alcune brevi considerazioni soprattutto sullo stile. Innazitutto non intendevo fare lo sbruffone (come si dice tra noi meridionali) citando gli ultimi lavori di Rawski, ma semplicemente cercare di sostenere ulteriormente il mito di Cindia esposto in maniera soddisfacente dal testo in esame. Tutto qui. Non intendevo fare il saccente, non è nel mio stile. Ma veniamo all’oggetto del contendere evitando atteggiamenti supponenti.
Riporto per la seconda volta la frase di Antonio Carlo sul cosiddetto Lavoro di Impegno civile "Già nel primo numero della rivista (da cui è stato tratto l’articolo)ho posto l’accento sulla centralità del reddito di cittadinanza, inteso però come reddito che remunera un lavoro, il c.d. lavoro diimpegno civile Questo tipo di obbiettivo ha una portata dirompente, perché si contrappone alla spinta del sistema che crea poco lavoro (e molta disoccupazione) subordinandolo al profitto; qui abbiamo una logica opposta (lavoro remunerato e non legato al profitto ma ai bisogni sociali) che, però, nasce da esigenze collettive non adeguatamente soddisfatte dal sistema." Mi sembra che non vi siano dubbi sul fatto che sappia leggere. Questo Reddito di Cittadinanza comunque lo si definisca ha dei costi per l’amministrazione statale. Ma non sembra al prof Carlo che qualsiasi governo in condizioni di crisi economica così grave e con possibilità quasi nulle nell’intervenire per contrastare una dinamica di lungo periodo sia condannato ad effettuare tagli alla spesa pubblica piuttosto che incrementare welfare? Non lo dico perché sono un lurido liberista (anzi) ma semplicemente perché è definitivamente tramontata l’epoca del golden age nel quale lo stato ed il sistema politico potevano integrare i lavoratori grazie ad una fase di sviluppo portentoso che garantiva entrate tali da garantire stato sociale indipendentemente dalla evasione. Oggi che siamo in piena dinamica di de-integrazione come è possibile adottare misure del genere? Non solo, Antonio Carlo collegherebbe tale proposta come dirompente poichè spingerebbe fortemente l’amminsitrazione pubblica verso il recupero, se non pieno almeno parziale, della evasione fiscale divenuta insopportabile per un paese civile. Strano che non vi sia un governo che non adotti politiche così efficaci su due fronti. Ma si rende conto Antonio Carlo che ormai siamo di fronte ad una fase economica completamente diversa dal passato? Come è possibile riuscire ad intervenire in una dinamica economica che ha fatto della speculazione finanziaria, quella si globale, la quintessenza dell’esistenza? Ma se non riescono nemmeno a tassare gli utili finanziari a livelli decenti….come possono recuperare l’evasione da imprese che continuano a strillare per una riduzione della tassazione? Ed i lavoratori non sono da meno strillano anche loro e danno ragione ai loro padroni. Questa non è saccenza ma solo guardare in faccia alla realtà che è brutta… ma è così. Certo che lo Stato farà bancarotta ( e la farebbe anche se ci fossero non solo Lenin e Mao che non ho mai ammirato ma anche lo stesso Keynes, ma io gli preferisco Marx) , non c’è remissione dei peccati che tenga. La dinamica in atto dagli anni 80 (mi sembra si chiami deregulation) per la quale lo stato si defila progressivamente da qualsiasi controllo della dinamica economica non è la causa ma la conseguenza di un progressivo mutamento degli investimenti che dal settore produttivo si spostano nella speculazione finanziaria da parte di tutte le attività (non solo le imprese ma anche le istituzioni di ogni genere compresi i fondi pensione e quant’altro. Questo è il mio punto di vista sulla base di quella che ritengo l’evidenza empirica e che l’ultima debacle finanziaria, destianta a proseguire, dimostrerebbe inequivocabilmente. Sull’ironia sappia Carlo che anche il sottoscritto, avendo origini napoletane ma vivendo in quest’inferno di città pseudoindustriale, sa riconoscerla e praticarla abbastanza regolarmente, ma il problema non sta qua ma nelle affermazioni di Antonio Carlo che riporto
"E’ evidente come anche per la Confindustria sia impossibile ignorare un problema esplosivo ed incancrenito, un problema che nei prossimi anni diventerà un nodo strategico dei vari conflitti, che vedranno impegnati il movimento, i sindacati, le forze politiche ed il governo (alle prese con la crisi fiscale) nonché il padronato, piccolo e grande che sia. Si apre, dunque, un fronte vastissimo di lotta in cui l’attacco all’evasione fiscale può trovare consensi e “sponde”, come mai in passato."
Mi sto impegnando ma non ci vedo niente di ironico, anzi Antonio Carlo fa appello ad un fronte comune contro l’evasione fiscale. La frase si commenta da sola.
Concludo sulla solita pistolettata relativa alle proposte da fare che mi sono sentito recitare migliaia di volte. Non ne ho. Contento? L’unica cosa che posso dire, ma è solo un accenno al problema, è che prima o poi i lavoratori capiranno che questo sistema economico non è più in grado di garantire la riproduzione della comunità umana per cui si vedranno costretti a riorganizzare la produzione e la distribuzione dei beni in una forma economica superiore dove non saranno pià presenti il denaro, il mercato ed il valore di scambio, un po’ come abbozzava il Vecchio di Treviri nella sua “Critica al programma di Gotha”. Spero in tal modo di aver fugato ogni fraintendimento. Nonostante tutto ringrazio il prof Carlo delle sue note e ribadisco che le sue proposte sono di tipo keynesiano, cosa che non comporta la lapidazione ma semplicemente il mio dissenso da seguace del vecchio Marx. Per una critica all’ideologia keynesiana posso solo consigliare, senza alcuna saccenza, il vecchio testo “Marx e Keynes” di Paul Mattick e l’ottimo intervento di Paolo Giussani “ I Limiti dell'Economia Mista e l'accumulazione di capitale dei giorni nostri” presente nel sito www.countdownnet.info . Con questo spero di non destare mai più alcuna irritazione per aver commentato un articolo che ritengo nel complesso interessante vista la modestia della pubblicistica che la sinistra propone attualmente, mi scuso se sono stato troppo diretto ma non intendevo dare lezioni a nessuno.
Un caro saluto
Antonio pagliarone Novembre 2007

sabato, novembre 10, 2007

Caro Pagliarone

Antonio Pagliarone, che da questo momento indicheremo con l’iniziale P., mi onora di alcune critiche relative al mio articolo sull’economia globale, che sta naufragando. A ben vedere P. sembra essere consenziente sui primi sei paragrafi su sette che compongono l’articolo, anche se avanza alcuni rilievi di dettaglio, come la mia mancata conoscenza degli scritti di Rawski , che effettivamente è un autore che non conosco dal 1979 , quando cominciava a scrivere le sue prime ricerche su occupazione e sviluppo economico in Cina per i tipi dell’ Oxford University Press. Ma lasciamo da parte queste critiche noiose e saccenti e andiamo al paragrafo sette che a P. non va proprio giù, e qui va detto che delle due l’una o P. non sa leggere o falsa in modo volgare il mio pensiero per confutarlo meglio.
Infatti io proporrei un reddito di cittadinanza che sarebbe un sussidio di disoccupazione alla maniera scandinava , e per sostenere questa tesi cita un mio brano in cui io dico esattamente il contrario: che cioè il reddito di cittadinanza deve remunerare il lavoro di impegno sociale e civile. Tal obiettivo avrebbe una portata dirompente poiché in USA già negli anni ’90 oltre 92 milioni di americani dedicavano 4,2 ore al giorno al lavoro di impegno civile gratuito (il cosiddetto volontariato); si tratta di un monte ore erogato dall’8% della forza lavoro americana occupata a tempo pieno, remunerarla richiederebbe un trasferimento enorme di ricchezza dal capitale al lavoro e questo salda il discorso col problema della lotta all’evasione fiscale.
Tale problema sta diventando esplosivo poiché se la classe dominante non paga le tasse lo Stato fa bancarotta e chiude i battenti: lo hanno capito persone come Prodi e Visco, che non sono certo Lenin o Mao, ma sono chiamati a gestire uno Stato che altrimenti chiuderebbe i battenti. Lo capiscono anche studiosi di parte capitalistica come Turner o Rajan ma non lo capisce P. E non gli chiediamo di capire poiché per lui questo sarebbe uno sforzo da ernia mentale. Proporrei inoltre, secondo P., una ignobile ammucchiata tra Governo , sindacati e confindustria. Evidentemente P. non ha letto il brano del mio articolo in cui, molto napoletanamente, prendevo a pernacchie la posizione della confindustria secondo cui l’evasione fiscale è enorme e questo richiede l’abbassamento delle aliquote fiscali sul capitale: come dire scopro un ladro a rubar polli e gli regalo il pollaio. È evidente che io demistifico e derido la posizione della confindustria, ma questo per P. sarebbe un’ammucchiata o una fantasia onirica, evidentemente non è il caso di affaticare troppo il cervello del nostro contraddittore richiedendogli ragionamenti, anche elementari, che non è in grado di fare. È chiaro che qui si apre un fronte di lotta enorme che vede impegnati con diversi interessi Governo, sindacati, confindustria e lavoratori, ed è chiaro che per me si tratta di strappare concessioni ed interventi al potere politico, che si trova in una situazione quantomai contraddittoria, esattamente come fecero i lavoratori inglesi nel 1847 (legge delle 10 ore) , o i lavoratori argentini che in questi ultimi anni hanno avuto da alcuni Stati della federazione argentina il riconoscimento per legge di occupare e autogestire le fabbriche lasciate inattive dal capitale, senza dover pagare i debiti della pregressa gestione.
Per P. tutto questo significherebbe che io cedo alla tentazione di fornire “ricette”; ora io non faccio il cuoco, mestiere nobilissimo che da uomo di gusto apprezzo moltissimo, ma faccio da decenni l’intellettuale impegnato e come tale penso che sia mio dovere avanzare delle ipotesi di proposte , altrimenti sarei solo un noioso cacadubbi o un irritante saccentello, compito che lascio volentieri ad altri (indovinate a chi?).
Al signor P. comunque voglio raccontare un piccolo episodio, anche se credo egli non ne capirà il significato: nel 1964 venne a Napoli a tenere un comizio uno dei più prestigiosi leader del movimento operaio: Vittorio Foa, che poi in seguito ho avuto occasione di frequentare per anni e che mai ho visto in imbarazzo, tranne che in quella occasione. Si trattava di presentare l’ultimo nato della politica italiana il PSIUP , di cui io fui socio fondatore. Nel suo comizio al cinema Adriano, Foa affrontò il problema dello slogan lanciato da Franco Fortini: “Guerra no, guerriglia si”. A tal proposito egli disse di non avere ricette e dal fondo della sala si alzò la voce di un compagno che disse: “E non ti sembra venuto il momento di trovarle?”.
Foa rimase si stucco, farfugliò alcune parole e passò oltre. All’uscita vidi un uomo alto sui 45 anni circondato da compagni festanti , di cui aveva interpretato le esigenze: se fai politica o cultura impegnata non puoi limitarti a fare il cacadubbi, capito P.?
P. conclude dicendo che se gratti il marxista trovi il keynesiano: oh, c’est terrible!
Antonio Carlo

domenica, settembre 09, 2007

Vero o falso?

di Rossana Rossanda - da il Manifesto del 04-09-2007


Possono o non possono i ministri d'un governo di coalizione partecipare a una manifestazione che chiede di mutare in aula alcuni aspetti d'un pacchetto di norme sociali? Dei quali il meno che si può dire è che nel programma elettorale parevano promessi? Squisito caso costituzionale, che oscura il merito del contendere: come va esattamente con le pensioni, perché si sono dette balle grandissime sui bilanci dell'Inps, quanti sono i precari, se davvero sarebbero inesorabilmente richiesti dalla crescita.
Anche io la paventerei. Ma perché conseguirebbe a una manifestazione con o senza ministri? Le manifestazioni non votano. Il solo che minaccia il governo è Lamberto Dini, il quale ha dichiarato che se l'aula, cioè il più legittimo dei luoghi, modifica il pacchetto non ancora approvato, voteranno contro il governo lui e i suoi. Si rivolgessero dunque, i preoccupati, al dottor Dini.
Per tornare nel merito, ci sarebbe caro se ci si rispondesse alle seguenti tesi e domande:

1. Non è vero che bisogna ridurre le pensioni (attraverso età, scalini o altre pensate) perché il bilancio pensionistico dell'Inps sarebbe in deficit. Il bilancio delle pensioni, cioè il saldo fra contributi pagati dai lavoratori e pensioni erogate è in attivo. Vero o falso?

2. Il bilancio dell'Inps è in rosso esclusivamente perché sono messe indebitamente a suo carico le spese per casse integrazioni lavoro e una serie di altre misure assistenziali. Esse dovrebbero cadere su regimi speciali con relativa legge, lasciando ai lavoratori il bilancio delle proprie pensioni. Vero o falso?

3. I pensionati non costano nulla alla fiscalità pubblica, mentre vi contribuiscono pagando le tasse anche sul reddito che da esse proviene. Vero o falso?

4. La gobba che avrebbe gonfiato la spesa pensionistica secondo le previsioni del governo Dini, non si è verificata. Erano sbagliate. Vero o falso?

5. Che un paese civile abbia circa sei milioni di pensionati (su sedici) a meno di euro 500 al mese è una vergogna. O no? Gradirei risposta firmata.

6. Molto altro resterebbe da dire sulle pensioni. Intanto Massimo D'Alema cessi di giurare che non ci sono i soldi. Per le pensioni non occorrono. La proibizione di usare il tesoretto per l'assistenza non è un dogma di Santa Romana Chiesa. Si occupi dell'Afghanistan (in politica estera finora non se l'era cavata male) invece che di Welfare di cui non sa. A proposito, non l'aveva definito una trovata del maschio adulto e garantito. Vero o falso?

7. Precariato. Secondo il calcolo di Luciano Gallino i precari sono da quattro a cinque milioni, circa un lavoratore su quattro. E non smettono di crescere. Vero o falso?

8. La cosa fa comodo alle imprese, specie del terziario (in quelle più grosse della manifattura il precariato esiste già alla grande), dove pagare il lavoratore solo nei giorni che serve riduce i costi e aumenta il profitto. Vero o falso? Quando il lavoro è qualificato, l'usa e getta giova a breve all'impresa ma spreca una gran quantità di know how. Vero o falso? Quando la qualifica è bassa (tipo call center) il precariato è quello che più somiglia al lavoro parcellizzato del secolo scorso, con elementari diritti in meno. Vero o falso?

9. Soltanto i giovani che hanno una famiglia alle spalle o possiedono una qualifica forte sul mercato (cioè pochi), preferiscono il lavoro precario a quello fisso. Vero o falso?

10. Puntare a un salario generale di cittadinanza, è una chiacchiera. Esso ammonterebbe, secondo i calcoli fatti in Francia da Marc Augé, a circa la metà del salario minimo di sussistenza quando fosse ricavato dall'abbattimento di tutta l'attuale struttura del Welfare. Vero o falso? Sono dieci tesi e domande. Soltanto dopo avervi risposto si discuta di estremismo e massimalismo, eccetera. Farlo prima significa nascondere a se stessi e al prossimo delle semplici verità elementari.

martedì, luglio 03, 2007

note a Antonio Carlo "Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo"

Se l'ultimo l'ho trovato pienamente convincente, il penultimo saggio del Prof. Antonio Carlo ("Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo"), apparso nella Vostra rivista, mi ha suscitato qualche perplessità.
Condivido tutto il discorso sull'inattendibilità dei metodi ufficiali di rilevazione statistica della disoccupazione (e non solo). Mi permetto di aggiungere che negli Usa, questi, a seconda del vento, hanno subito negli ultimi decenni continui aggiornamenti, per nascondere appunto la realtà, fondandosi spesso sullo "scientifico" sistema delle telefonate per campioni, in base alle quali chi ha lavorato in un determinato periodo, ad esempio anche solo per una settimana, risulta tra la popolazione attiva occupata... Condivido anche tutto quanto è detto sulla diffusione del precariato, ecc.
Sono anche d'accordo che nel sistema capitalistico, sul lungo periodo, meno lavoratori sono in grado di produrre quanto in passato facevano in molti, come l'agricoltura docet.
Ciò non toglie, che questa prospettiva (sostenuta anche dal pluricitato Rifkin o dai sociologi tedeschi del gruppo Krisis, uno tra tutti Robert Kurz) non spiega, a mio avviso, adeguatamente il fenomeno attuale. E' la tecnologia che nell'ultimo quarto del secolo scorso e fino ad ora ha tolto lavoro? Ciò avrebbe dovuto comportare una serie di investimenti produttivi che il mondo capitalistico in genere non registra da decenni a questa parte, decenni nei quali, invece, quando c'è stata qualche momentanea ripresa, è stata determinata da un maggior sfruttamento del lavoro e dei vecchi macchinari.
Altrove il Prof. Carlo ha parlato della mancanza di investimenti produttivi (accumulazione), ma qui non lo fa e tutta l'argomentazione sulla disoccupazione sembra dipendere invece, se ho ben capito, dall'assunto che sono le macchine ad estromettere operai dal mondo del lavoro.
Più che investire nella produzione, in tecnologia strutture ecc, la tendenza, a mio avviso, ormai lontano dal boom post bellico è stata piuttosto quella di dislocare fabbriche all'estero, dove la manodopera costa poco, e/o di canalizzare flussi enormi di capitale verso il settore speculativo. Alla deindustrializzazione interna americana degli ultimi quarant'anni corrisponde un massiccio trasferimento all'estero della produzione (prima in Canada e poi in Europa, Asia...); per non parlare appunto della speculazione finanziaria e della politica finalizzata a costringere i possessori stranieri di dollari ad investire sul mercato americano.
Il postfordismo, la rivoluzione microelettronica, è un altro dei miti del nostro tempo che come il concetto di globalizzazione va adeguatamente precisato e ridimensionato. Solo che, mentre a proposito della globalizzazione il Prof. Carlo ha fatto delle puntualizzazioni efficaci, riguardo alle innovazioni tecnologiche mi pare che ne enfatizzi il ruolo nell'attuale fase storica.
Cordialmente
Alessandro Cocuzza

giovedì, giugno 28, 2007

Alcune note critiche all’articolo di Antonio Carlo “L’economia “globale” un Titanic che affonda”

In luogo della lotta di classe subentra una formula giornalistica: la “questione sociale”. Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, credere che si possa costruire una società nuova per mezzo di sovvenzioni dello stato, come si costruisce una nuova ferrovia, è presunzione che tratta lo stato come una realtà indipendente, che possiede sue proprie basi intellettuali e morali libere, invece di trattare la società presente come base dello stato esistente. Le forme dello stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la “libertà dello stato”. (K Marx “Glosse marginali al Programma del partito Operaio Tedesco”(Gotha).


Innanzitutto Antonio Carlo nel criticare i miti correnti presenti nella pubblicistica di sinistra e non, utilizza alcuni dati empirici che permettono di confutare la tesi alla moda dell’economia globale “governata” da un Impero. Le teorie sulla pianificazione introdotte da certe ideologie degli anni 70 sono state trasferite dal mito dello Stato Piano a quello dell’Impero–piano attraverso i suoi organismi internazionali sono frutto delle fantasie di qualche intellettuale di vecchio stile vista la condizione di totale anarchia in cui vive il capitalismo nell’epoca moderna. Ormai le previsioni del FMI o della Banca Mondiale vengono riviste a distanza di tempo sempre più ridotta. Interessante, ma solo accennata, la trasformazione della dinamica classica relativa all’accumulazione di capitale in speculazione globale che porta inevitabilmente l’attuale sistema economico verso il baratro. Purtroppo Antonio Carlo non va a fondo nell’analizzare la dinamica speculativa. Infatti l’autore mette si in evidenza l’incremento inusitato dell’indebitamento USA specie di quello privato ma si limita a giustificarlo esclusivamente sul versante dei consumi mentre gran parte di tale indebitamento ( come dimostrato da vari studi empirici) sarebbe causato dal trasferimento di capitale all’interno della speculazione sui titoli, sui bond e specie sui derivati.
Interessante la messa in discussione del mito del boom economico cinese ed indiano “L’impero di Cindia ovvero il miracolo di cartapesta”. Purtroppo l’autore accetta i dati ufficiali del PIL (forse non conosce i numerosi interventi che contestano i criteri di rilevazione dei dati statistici come quelli di Thomas Rawski) ma nonostante questo riesce a dimostrare l’infondatezza del possibile sviluppo futuro da grandi potenze di economie ancora al palo se raffrontate alle dinamiche di sviluppo che hanno caratterizzato il capitalismo nei paesi avanzati (come l’Inghilterra studiata da Marx e dai classici). Poi analizzando la trasformazione del capitalismo in una sorta di organismo malato caratterizzato da dinamiche criminali legate alla corruzione non riesce ad evitare il solito intervento, tipico di coloro che vogliono dare delle ricette, in cui propone degli interventi immediati, anche se più volte Carlo sottolinea la sua anima radicale. Ed è su questi che desidero dire qualcosa. Innanzitutto sul reddito di cittadinanza

"Già nel primo numero della rivista (da cui è stato tratto l’articolo)ho posto l’accento sulla centralità del reddito di cittadinanza, inteso però come reddito che remunera un lavoro, il c.d. lavoro di
impegno civile Questo tipo di obbiettivo ha una portata dirompente, perché si contrappone alla spinta del sistema che crea poco lavoro (e molta disoccupazione) subordinandolo al profitto; qui abbiamo una logica opposta (lavoro remunerato e non legato al profitto ma ai bisogni sociali) che, però, nasce da esigenze collettive non adeguatamente soddisfatte dal sistema."

In sostanza Carlo chiama reddito di cittadinanza il sussidio di disoccupazione presente nelle economie del Nord Europa che sta subendo nel corso del tempo un continuo ridimensionamento a causa del taglio allo stato sociale divenuto ormai una legge inevitabile per qualsiasi tipo di governo. In effetti il successo conseguito dai partiti conservatori nel Nord Europa non deve meravigliarci, anche l’adeguamento alle politiche di taglio adottate dai laburisti nel Regno Unito e non solo in questo paese. Ciò che rende impossibile una inversione di questo genere è la scelta ormai di massa operata dai lavoratori delle economie avanzate di spingere verso un netto ridimensionamento dello stato sociale a favore di un recupero salariale basato sul taglio delle tasse. Tale comportamento è dettato sostanzialmente dalla impossibilità di recupero salariale attraverso i vecchi sistemi della trattativa o attraverso l’assunzione di più lavori come negli anni 80-90. I lavoratori lo stato sociale se lo vogliono pagare da soli quando serve.

Come è possibile che uno stato moderno riesca a “tenere in piedi un difficile equilibrio tra spese(sempre elevate e necessarie) e tagli” come afferma in precedenza l’autore che aggiunge poco dopo “Dall’altra il peso crescente dell’indebitamento pubblico e privato può fare crollare l’economia, mentre lo Stato impoverito ed indebolito appare sempre più incapace di svolgere le sue funzioni tradizionali” Per cui oggettivamente incapace di invertire una tendenza verso i tagli. Non solo ma aggiunge lucidamente che i paesi sviluppati ormai ossessionati dal loro debito e dai servizi del debito non possono certo abbonare il debito dei paesi più poveri o cosiddetti emergenti “ come propone Bono degli U2, ma al “leader” della grande “rock band”, nessuno ha il coraggio di dire che se poi questo nobile atto di generosità fosse realizzato le più grandi unità del mondo economico occidentale farebbero un crack clamoroso. Più passa il tempo e più il debito cresce il che rende impensabile (in termini capitalistici) un suo annullamento, spingendo
sempre più i paesi emergenti verso la bancarotta. Il sistema ha creato una situazione ingovernabile, i paesi emergenti danzano sull’orlo del baratro ma un loro tonfo trascinerebbe anche noi."

Come è possibile in una condizione da cul de sac di questo genere illudersi che un governo possa concedersi il lusso di un “reddito di cittadinanza? E’ meno utopistico proporre la Dittatura del Proletariato

"Si pone allora un grosso nodo, come cioè sia possibile, qui ed ora, finanziare questo tipo di lavoro, e la fonte a mio avviso non può essere che la lotta all’evasione fiscale. Su questo terreno si aprono ampie prospettive di alleanza tra radicali e riformisti, e c’è la possibilità di fare leva su un cuneo, un conflitto che si delinea tra il capitale e lo stesso Stato-nazionale borghese."

Siamo ai sogni onirici, poco prima Carlo sottolinea il legame tra capitalismo criminale che ormai imperversa in tutti i campi, ed il sistema politico attraverso corruzione e tangenti che non risparmiano nemmeno i “riformisti” al governo cui fa appello l’autore per realizzare una lotta alla evasione senza quartiere. Come è possibile realizzare l’unità tra Riformisti e radicali (quali?)? E poi come si potrebbero delineare delle differenze tra riformisti e radicali in un governo che realizzi una battaglia totale all’evasione? Sarebbe forse un governo rivoluzionario…di questi tempi…no?)
Ma sia chiaro non è lo stato che si lascia corrompere ma tutti sono suscettibili alla corruzione quando l’unica possibilità di conseguire guadagni è determinata da una dinamica di realizzazione che ormai è data solo dalla speculazione (in ogni senso). Anche una associazione che si propone di aiutare qualche popolazione povera del terzo mondo è obbligata gioco forza a piegarsi alle esigenze del primo delinquente di turno per poter proseguire nelle sue attività (e di esempi ci ne sono a bizzeffe)
Infatti

"Anche in USA, le vicende delle IM del fumo e dei “fast food” (certo le meno strategiche ma pur sempre IM) è indicativa: le “class actions” giudiziarie promosse contro di esse da grossi gruppi di consumatori organizzati, hanno portato a condanne risarcitorie clamorose dell’ordine di miliardi (di dollari), nel più grande paese del mondo (economicamente parlando), patria delle più grosse IM, gruppi consistenti di cittadini (spesso organizzati in movimento),ottengono sentenze clamorose ed umilianti e ciò significa una svolta epocale, significa che si è eroso il consenso sociale al mondo degli affari e del capitale, che comincia ad essere screditato; per trovare una crisi di consenso simile occorre tornare indietro negli anni ’30, gli anni della Grande depressione."

Ma l’autore, forse illuso da qualche storiella rappresentata in qualche film di successo, non si rende conto che ormai esiste un business tra gli avvocati degli USA legato alle cause contro le multinazionali che stanno pagando gruppi di cittadini, quasi organizzati in Lobby, cifre irrisorie rispetto ai loro profitti, continuando imperterrite le loro attività
E in Italia?

"nell’ultimo trimestre dell’anno sono stati recuperati 2 miliardi di IVA evasa171; quanti intende
recuperarne Prodi nel 2007 con tutti i mezzi messi in campo, il che significa che il solo recupero IVA può realizzare l’intero obbiettivo (8 miliardi di euro l’anno)."

Che strano, il grande riformista al governo si è però premurato di realizzare, insieme al suo socio Padoa Schioppa, immediatamente una finanziaria da capogiro pressando ulteriormente i lavoratori dipendenti e non contenti stanno proponendo una riforma (?) delle pensioni che realizza la Maroni semplicemente diluendo nel tempo le uscite dal lavoro (gli scaloni) con una continua rincorsa (senza mai arrivarci) fino alla fatidica soglia dei 60 anni. La Germania, patria dello stato sociale con un sindacato potente come la IG Metall, ha riformato le pensioni adeguandosi a quanto sta accadendo nei vari paesi OCSE

"Epperò se i soldi che sottrae al Fisco venissero versati come dovuto potrebbero diventare reddito di cittadinanza che remunera il lavoro di impegno civile e quindi si creerebbero per altre vie, dei consumi, forse più consumi essenziali che macchine sportive, ma sarebbe questo un male?"

Ecco che Antonio Carlo ricade nella logica della pianificazione tanto criticata ai vecchi marpioni degli anni 70, e come loro sogna una pianificazione dal basso

"E’ evidente come anche per la Confindustria sia impossibile ignorare un problema esplosivo ed incancrenito, un problema che nei prossimi anni diventerà un nodo strategico dei vari conflitti, che vedranno impegnati il movimento, i sindacati, le forze politiche ed il governo (alle prese con la crisi fiscale) nonché il padronato, piccolo e grande che sia. Si apre, dunque, un fronte vastissimo di lotta in cui l’attacco all’evasione fiscale può trovare consensi e “sponde”, come mai in passato."

E qui raggiungiamo il colmo, crede forse Antonio Carlo che la Confindustria ed il Governo non aspettassero altro che i suoi avvertimenti sulla minaccia determinata dall’evasione fiscale? Certo che un fronte comune tra Governo Sindacati e Confindustria (che bella ammucchiata) sarà certo in grado di invertire una tendenza nella quale loro stessi sono stati inevitabilmente coinvolti. Cosa crede Antonio Carlo: perché Sindacati e Confindustria stanno litigando sul TFR? Ma per accaparrarsi un finanziamento gratuito da investire in campo speculativo . E il Governo? Sta a guardare tanto in un modo o nell’altro entreranno più soldi dalla dinamica speculativa e maggiori saranno le possibilità per poter mantenere in vita la macchina governativa indipendentemente dal colore che ha.
E conclude

"Oggi in una situazione che presenta profili simili non mi meraviglierei se riemergessero prassi ed obbiettivi di un lontano passato.(l’autoriduzione delle bollette e la lotta per il salario degli anni 70) Come si vede le ipotesi e le prospettive di lotta non mancano, se il sistema sta impazzendo non dobbiamo subire passivamente la sua follia."

Invece le ipotesi e le prospettive mancano del tutto ed è impossibile per chiunque fare delle proposte immediate. La ripresa della lotta per il salario non la decidiamo noi od il buon Antonio Carlo ma i lavoratori che purtroppo vivono una condizione di piena concorrenza tra loro, la disoccupazione e la sottooccupazione non fanno altro che indebolire ormai una massa di lavoratori che si fa ricattare ogni giorno. Dovremmo far capire in qualche modo ai lavoratori che ormai costituiscono la stragrande maggioranza della società e che senza il loro consenso questo sistema cadrebbe in un batter d’occhio”. Ma come si può realizzare una cosa del genere quando coloro che dovrebbero avere a cuore il futuro dei lavoratori sono i primi a non averne fiducia? Ma è inutile quando un marxista cerca di fare proposte “risolutive” si scopre ed emerge sempre il solito keynesiano.
ante

sabato, maggio 05, 2007

dalla mailing list di politica scolastica

"Segreto di Stato: a Genova ci fu un disegno repressivo, prima condanna per la Polizia del G8 del 2001

La censura da parte dei media è stata rigida ed assoluta: della sentenza di Genova non si doveva parlare. Infatti incredibilmente non ne ha scritto neanche il Manifesto e dovrebbe spiegare perché.

di Gennaro Carotenuto <http://www.gennarocarotenuto.it/>

Alzi la mano chi ha saputo che la settimana scorsa a Genova c'è stata la prima condanna per i pestaggi della Polizia durante il G8 del 2001. Eppure la sentenza di Genova è un passaggio capitale per la ricostruzione della verità e la giustizia di quello che successe nel
capoluogo ligure oramai 6 anni fa. E ci spiega anche molto del disegno politico sotteso alla repressione.
Lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia in via Assarotti, nel pomeriggio del 20 luglio 2001. Marina, come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete Lilliput, era seduta, con le mani alzate dipinte di bianco, gridando 'non violenza', quando fu massacrata dalla Polizia. Questa si è difesa sostenendo (sic!) che non era possibile distinguere tra le mani dipinte di bianco di Marina e i Black Block. Per il giudice Angela Latella invece la selvaggia repressione genovese e la cortina di menzogne sollevata per coprirle- è stata una delle pagine più nere di tutta la storia della Polizia di Stato e per la prima volta ciò viene scritto in una sentenza. Non solo, è ben più grave quello che è scritto nella sentenza genovese. Quelle dei poliziotti non furono né iniziative isolate né eccessi, ma facevano parte di un disegno criminale. Si inizia a confermare in via processuale quello che chi scrive sostiene e scrive da sei anni. A Genova vi fu un disegno criminale selettivo da parte di apparati dello stato. Tale disegno era teso a terrorizzare non tanto la sinistra radicale ma il pacifismo cattolico, in particolare la Rete Lilliput, che per la prima volta in maniera così convinta e numerosa scendeva in piazza saldandosi in un unico enorme fronte antineoliberale con la sinistra. Le ragazze e i ragazzi delle parrocchie furono quelli che pagarono il prezzo più alto, soprattutto sabato. I loro spezzoni di corteo furono sistematicamente bersagliati dai lacrimogeni e centinaia di loro furono pestati selvaggiamente. Ma, soprattutto decine di migliaia di loro, e le loro famiglie, furono spaventati a morte in una logica pienamente terroristica. Quanti dopo Genova sono rimasti a casa?
Di fronte all'immagine sorda data dai grandi della terra, Bush, Blair, Berlusconi, quel movimento pacifico, colorato, credibile, fatto di persone serie e non dei pescecani rinchiusi nella città proibita, che si era riunito intorno alle proposte concrete per un nuovo mondo possibile del Genoa Social Forum, doveva essere schiacciato. Non lo sapevamo, ma mancavano 50 giorni all'11 settembre.

Riporto nel sito (RIPORTATO DI SEGUITO) <http://www.gennarocarotenuto.it/>
l'articolo dell'eccellente Massimo Calandri, apparso SOLO sulle pagine genovesi di Repubblica lo scorso 29 aprile. E' normale secondo voi? Esiste ancora il diritto ad essere informati in questo paese? Prima condanna per le violenze delle forze dell'ordine contro i manifestanti: "Non furono iniziative isolate" G8, condannato il Ministero - Missionaria picchiata, risarciti invalidità e danni morali "Ho solo ottenuto quello che attendevo da 6 anni: giustizia"

MASSIMO CALANDRI
LA PRIMA condanna nei confronti del Ministero dell'Interno per le illecite e gratuite violenze dei suoi poliziotti è arrivata nei giorni scorsi, e cioè circa sei anni dopo la vergogna del G8 genovese. Ma le parole con cui il giudice istruttore Angela Latella ha motivato la sua decisione rinfrescano la memoria. Ricordando a tutti che quelle cariche sanguinarie,quelle teste rotte a manganellate, quei lacrimogeni sparati contro le persone inermi, non erano frutto dell'iniziativa isolata o dell'autonomo eccesso di qualche agente. Facevano invece parte di un più ampio disegno -così
come le menzogne raccontate più tardi per coprire le nefandezze - , che rappresenta una delle pagine più buie nella storia della Polizia di Stato. Il tribunale del capoluogo ligure ha dato ragione a Marina Spaccini, pediatra cinquantenne di origine triestina, pacifista che per quattro anni ha lavorato in due ospedali missionari del Kenia. Alle due del pomeriggio del 20 luglio, era il 2001, venne pestata a sangue in via Assarotti. Partecipava alla manifestazione della Rete Lilliput, era tra quelli che alzava in alto le mani dipinte di bianco urlando: "Non violenza!". Gli agenti e i loro capi avrebbero poi raccontato che stavano dando la caccia ad un gruppo di Black Bloc, che c'era una gran confusione e qualcuno tirava contro di loro le molotov, che non era possibile distinguere tra "buoni" e "cattivi": bugie smascherate nel corso del processo, come sottolineato dal giudice. I cattivi c'erano per davvero, ed erano i poliziotti che a bastonate aprirono una vasta ferita sulla fronte della pediatra triestina. Dal momento che quegli agenti, come in buona parte degli episodi legati al vertice, non sono stati identificati, Angela Latella ha deciso di condannare il Ministero dell'Interno. La cifra che verrà pagata a Marina Spaccini non è certo clamorosa - cinquemila euro tra invalidità, danni morali ed esistenziali - , ma il punto è evidentemente un altro. «Se risulta chiaramente che la Spaccini sia stata oggetto di un atto di violenza da parte di un appartenente alle forze di polizia - scrive il giudice - , non si può neppure porre in dubbio che non si sia trattato né di un'iniziativa isolata, di un qualche autonomo
eccesso da parte di qualche agente, né di un fatale inconveniente durante una legittima operazione di polizia volta e riportare l'ordine pubblico gravemente messo in pericolo». Perché l'intervento della polizia non fu «legittimo», è ormai abbastanza chiaro. Lo hanno confermato i testimoni e in un certo senso gli stessi poliziotti e funzionari, con le loro contraddizioni: «Gli aggressori erano diverse decine; l'ordine era di caricarli, disperderli ed arrestarli», hanno detto, interrogati. Ma poi risulta che furono arrestati solo due ragazzi (non feriti), la cui posizione fu in seguito peraltro archiviata. La pacifista era assistita dagli avvocati Alessandra Ballerini e Marco Vano. Il giudice ha sottolineato come fotografie e filmati portati in aula «siano stati illuminanti»: «Si vedono ammanettare persone vestite normalmente; più poliziotti colpire con i manganelli una persona a terra, inerme. La stessa Spaccini è una persona di cinquant'anni, di cui giustamente si sottolinea l'aspetto mite». E poi, le testimonianze come quella di una signora settantenne che parla di una «manifestazione assolutamente pacifica e allegra» e di aver quindi visto agenti «bastonare ferocemente persone con le mani alzate ed inermi come lei». Marina Spaccini ha accolto il giudizio con un sorriso: «Era semplicemente quello che attendevo da sei anni. Giustizia»."

martedì, maggio 01, 2007

Piani di zona a Napoli

Ad una ricerca veloce sui piani di zona a Napoli si trova pochissimo, quasi niente e per giunta relativa a tre-quattro anni fa. Un definizione chiara di cosa sono i piano di zona l'ho trovata sul sito sociale della regione Emilia-Romagna
"Piani Sociali di Zona (PdZ) sono lo strumento fondamentale per definire e costruire il sistema integrato di interventi e servizi sociali così come delineato agli artt. 2 e 3 della L.R. 12 marzo 2003, n. 2 di recente approvazione, ovvero di un sistema che mette in relazione i vari soggetti operanti sul territorio, istituzionali e non, con l´obiettivo di sviluppare e qualificare i servizi sociali per renderli flessibili e adeguati ai bisogni della popolazione. In quest´ottica la scelta della Regione Emilia-Romagna è stata di prevedere PdZ di livello sovracomunale, coincidente con l´ambito dei distretti sanitari: i Comuni associati a livello del distretto programmano il sistema dell´offerta al cittadino in area sociale, e in collaborazione con le Az.Usl integrano la programmazione sociale con quella sanitaria per offrire risposte unitarie e coerenti al bisogno di salute e benessere dei cittadini di uno stesso territorio.Il processo di costruzione dei PdZ parte dal territorio e si sviluppa sia attraverso il lavoro dei Comitati di Distretto, per la parte politica, sia attraverso il lavoro di tavoli tecnici e tematici cui partecipano non solo le istituzioni (in particolare Regione, Province, Comuni, Aziende USL, alcune amministrazioni statali), ma anche le IPAB, il mondo della cooperazione sociale e del volontariato, le organizzazioni sindacali e varie forme di associazionismo."
E poi qui per quanto riguarda edscuola-handicap
Su questo sito l'aggiornamento è fino al 2005: welfare dei Comuni e delle Unioni

la domanda è: che nesso c'è tra i piani di zona e l'applicabilità del reddito di cittadinanza?

domenica, aprile 15, 2007

Dedicato agli amici di Crisiecompagni e a tutti gli altri....

La paranza di Daniele Silvestri

Mi sono innamorato di una stronza
Ci vuole una pazienza
Io però ne son rimasto senza
Era molto meglio pure una credenza
Un fritto dii paranza., paranza...paranza
La paranza e una danza
Che ebbe origine sull’isola di Ponza
Dove senza concorrenza
Seppe imporsi a tutta la cittadinanza
É una danza
Ma si pensa rappresenti l’abbandono di una stronza
Dal calvario alla partenza
Fino al grido conclusivo di esultanza
Uomini uomini c’è ancora una speranza
Prima che un gesto vi rovini l’esistenza
Prima che un giudice vi chiami per l’udienza
Vi suggerisco un cambio di residenza E poi ci vuole solo un poco di pazienza
Qualche mese e già nessuno nota più l’assenza
La panacea di tutti i mali è la distanza E poi ci si consola Con la paranza
La paranza e una danza
Che si balla nella latitanza
Con prudenza E eleganza
E con un lento movimento de panza
La paranza e una danza
Che si balla nella latitanza
Con prudenza E eleganza E con un lento movimento de panza
Cosi da Genova puoi scendere a Cosenza
Come da Brindisi salire su in Brianza Uno di Cogne andrà a Taormina in prima istanza
Uno di Trapani? Forse Provenza No no no non è possibile
Non è raccomandabile Fare ritorno al luogo originario di partenza
Ci sono regole precise in latitanza E per resistere c’è la paranza
La paranza È una danza che si balla nella latitanza
Con prudenza, E eleganza E con un lento movimento de panza
Dimmi che mi ami che mi ami E quando ti allontani Per prima cosa mi richiami
In ogni caso è molto meglio se rimani Se rimandi a domani Dimmi che ci tieni che ci tieni
E pure se non vieni
In ogni caso mi appartieni E che ti manco più dell’aria che respiri Più di prima Più di ieri
Dov’è dov’è Tutti si chiedono Dov’è dov’è Ma non mi trovano
Lo sai che c’è’ Che sto benissimo Fintanto che Sto a piede libero
E poi perchè Ritornare da lei
Quando per lei è sempre stato meglio senza di me
Non riusciranno a prendermi
Io resto qui
La paranza es un baile Que se baila con la latitanza Con prudencia y elegancia Y con un lento movimiento de panza La paranza es un baile Que se baila con la latitanza Con prudencia y elegancia Y con un lento movimiento de panza
E se io latito latito
Mica faccio un illecito
Se non sai dove abito Se non entro nel merito
Se non vado a discapito Dei miei stessi consimili
Siamo uomini liberi Siamo uomini liberi
Stiamo comodi comodi Sulle stuoie di vimini
Sulle spiagge di Rimini Sull’atollo di Bimini
Latitiamo da anni Con i soliti inganni Ma non latiti tanto quando capiti a pranzo
E se io latito latito....

giovedì, marzo 29, 2007

Ondina se ne va

[...]Non ci sono domande nella mia vita.
Amo l'acqua, la sua densa trasparenza,
il verde nell'acqua e le mute creature
(muta saro' presto anch'io!),
e i miei capelli, tra quelle, nell'acqua ...
L'umida barriera tra me e me.[...]

Non avevo bisogno di essere mantenuta,
non pretendevo dichiarazioni o promesse solenni,
solo aria,
aria notturna, aria costiera, aria di confine,
per poter ogni volta riprendere fiato
per nuove parole, nuovi baci,
per una confessione senza fine:
Si'. Si'.

Dopo aver reso la mia confessione
ero condannata ad amare;
quando un bel giorno mi liberavo dell'amore
ero costretta a ritornare nell'acqua,
nell'elemento dove nessuno si prepara un nido,
si costruisce un tetto sotto le travi,
si rifugia sotto un telone.

Non essere in nessun luogo, in nessun luogo restare.
Tuffarsi, riposare muoversi
senza spreco di forze...
[...]

Ingeborg Bachmann, Il Trentesimo anno

giovedì, marzo 15, 2007

Conclusioni di Fumagalli

Nell'articolo su Posse, le conclusioni di F.
1.non c'è vincolo di bilancio per dare un sussidio di 55o euro mensili a tutti i disoccupati/e e il reperimento delle risorse è già possibile 2. il discorso finanziario per un rde è diverso: a ragion veduta esso non può essere erogato in modo universale e incondizionato perchè le risorse per tutti non sono sufficienti; esso però può essere uno strumento compatibile. Tuttavia rispetto all'idea di un capitalismo cognitivo, il cui problema è la misurazione quantitativa, si possono ipotizzare tasse proprio su quegli elemeti che sono oggetto del capitalismo cognitivo, vale a dire ambiente, teeritorio, conoscenza. Quindi la riforma fiscale dovrebbe procedere con una tassazione delle aliquote sui flussi di reddito, una carbon tax, una tobin tax e una tassa sui copyright. Cioè si vanno a tassare quei nuovi settori che sfruttano beni comuni. Il coordinamento deve essere a livello sopranazionale. Un punto nodale è poi il ruolo dei comuni per quanto riguarda il finanziamento delle proprie attività.
Alla fine: progressività delle imposte.

Ora mi chiedo: quale sarà proprio il ruolo degli enti locali sul piano della gestione finanziaria delle risorse, soprattutto degli enti già indebitati fino al collo nei settori ad es. della sanità. Poi non capisco bene il meccanismo attuale per cui gli enti possono emettere titoli sul mercato per autofinanziarsi. Infine in questo modo il rde diventa di nuovo universale e incondizionato?

reddito di esistenza

La definizione di reddito di esistenza secondo Fumagalli è quello di una nuova misura redistributiva adeguata alle forme di accumulazione del capitalismo cognitivo occidentale. Esso è una misura che restituisce e redistribuisce una ricchezza precedentemente prodotta e quindi non può essere annoverata nelle misure di tipo assistenziale. In un recente articolo pubblicato su Posse. Potere precario, egli si concentra sulla considerazione di praticabilità di questa misura nella Provincia di Milano e sostiene che 1. la sperimentazione debba avvenire in via graduale partendo dalle situazioni più a rischio, in un arco di tempo stabilito e di cui tutti i residenti sono a conoscenza e consapevoli, 2. l'attivazione di innovazioni fiscali e finanziarie per reperire le risorse adeguate, redistribuendo il carico fiscale. Il quanto è fissato al livello della soglia di povertà relativa individuale che dovrebbe essere di 550 euro al mese. Ho trovato interessante l'apertura dell'analisi ai piani di zona, di cui non ne conoscevo l'importanza. I comuni ogni anno inviano all'ASL e alla Regione alcune schede relative alla spesa sociale per aree d'intervento: anziani, disabili, minori-famiglia, immigrazione, emarginazione-dipendenze, salute mentale, servizi-socio-sanitari. In questo modo si distinguono altre sotto-aree e i canali di finanziamento.Quante aree ci saranno in Campania? I comuni sono così divisi in aree di grandezza e a ciascuno di essi poi sono destinati risorse. Secondo Fumagalli dalla fiscalità generale e dalla revisione delle imposte in base alla capacità contributiva si possono recuperare le somme per finanziare il rde. Sarebbe interessante un case-study su Napoli. Sapete se ci sono cose a riguardo?

domenica, marzo 11, 2007

Il nuovo blog di Crisi e conflitti

A questo indirizzo potete trovare un nuovo blog della rivista: http://crisieconflitti1.ilcannocchiale.it/

Giocheremo su tutti e due, vediamo che succede;-))

giovedì, marzo 08, 2007

Risposta ad Andrea Vitale

La lettura delle tue osservazioni critiche è stata così stimolante da indurmi a riprendere alcune tue riflessioni al fine di chiarire le mie tesi e porti, a mia volta, alcuni problemi.A tuo parere, la periodizzazione del capitalismo in fordismo e postfordismo è inaccettabile per quattro motivi fondamentali: 1) il fordismo, come forma di organizzazione del processo industriale, è storicamente nato in una fase economica con delle caratteristiche diametralmente opposte a quelle del secondo dopoguerra; 2) è errato attribuire a modelli di organizzazione del lavoro aspetti specifici delle fasi economiche; 3) l’analisi è inficiata dal carattere speculativo della comparazione a fronte dell’esigenza di analisi concrete; 4); l’assenza della concezione dello Stato come dittatura di classe.Procediamo in ordine ed analizziamo da vicino le obiezioni sopra elencate.Per quanto concerne la prima – il fordismo è storicamente nato in una fase economica con delle caratteristiche diametralmente opposte a quelle del secondo dopoguerra – non ci sono dubbi che esso sia nato nella prima metà del ‘900, un periodo, come dici tu, “squassato da immani crisi e distruzioni totali”. Ma guardando meglio da vicino tale età storica scopriamo che il fordismo come forma di organizzazione del lavoro è stato introdotto da Ford, sulla base degli studi di Taylor, negli USA a partire dal 1908, per la produzione in serie della prima automobile utilitaria, - il modello T - passando in un ventennio da un’iniziale produzione di 200 esemplari ad una produzione di 40.000 autovetture nel 1929.Già questo dato dovrebbe farci riflettere sulle condizioni tutt’altro che critiche della fase economica USA. In effetti, all’inizio del ‘900 gli USA hanno conosciuto una crescita economica che non ha eguali negli altri paesi industrializzati dell’epoca. Il che consentirà loro di uscire dalla Prima guerra mondiale tra le potenze vincitrici senza avere subito distruzioni e di scalzare la Gran Bretagna da paese leader economico internazionale. La crescita si arresterà solo nel 1929 con una delle più devastanti crisi economiche che la recente storia ricordi. Solo dopo il secondo dopoguerra il fordismo è divenuto un modello vincente da imitare e/o esportare nelle altre nazioni.In sintesi, nato negli USA in una fase espansiva della loro economia, il fordismo diventa un modello vincente a livello internazionale solo dopo la Seconda guerra mondiale quando i paesi europei fanno registrare dal ’45 al ’75 tassi di crescita ineguagliabili: il famoso “glorioso trentennio”. Dunque, sia per la sua nascita sia per la sua affermazione è possibile constatare un nesso preciso tra crescita economica ed organizzazione fordista del lavoro, contrariamente a quanto affermi nella tua lettera.Per quanto riguarda la seconda critica – è errato l’attribuire a modelli di organizzazione del lavoro aspetti specifici delle fasi economiche – devo osservare che sono in buona compagnia, in quanto molti sociologi ed economisti di orientamento marxista fanno la stessa cosa (Revelli, Fumagalli, Bonomi etc.). Ma non voglio controbattere a delle osservazioni intelligentemente critiche opponendovi stupidamente un “principio di autorità”, voglio solo indurti a riflettere sul fatto che le modalità dominanti di organizzazione dei processi di produzione e di sfruttamento della forza lavoro, pur costituendo la base reale di un progetto politico di emancipazione, non possono essere analizzate come atomi a se stanti, onde non correre il rischio di cadere in una visione atomistica e deterministica dei rapporti sociali, che da un punto di vista politico ci può indurre al settarismo.In effetti, come ho precisato nell’articolo (p. 14), bisogna fare riferimento al concetto marxiano di “totalità organica”, per cogliere i nessi tra le varie sfere dell’attività umana: produzione, distribuzione, scambio, politica, ideologia.Nella fattispecie la predominanza di alcuni assetti produttivi, e quindi le diverse forme di comando tra capitale e lavoro, non si comprendono semplicemente sulla base di un’analisi incentrata sulla sola fabbrica. Il just time, la lean production, la precarizzazione e l’individualizzazione dei rapporti di lavoro, i gruppi di qualità, così come gli altri aspetti organizzativi e tecnologici del postfordismo, vanno spiegati in relazione alla tendenziale saturazione dei mercati, alla globalizzazione dell’economia, all’esigenza di frantumare la classe in moltitudine, etc. Sono, nell’insieme, una risposta economica e politica che il capitalismo ha dato agli alti livelli di conflittualità espressi dalle classi lavoratrici sino agli anni ‘70Il particolare va analizzato criticamente in relazione al generale. E’ questa la grande lezione metodologica marxiana ai fini dell’elaborazione di una teoria critica dell’esistente, altrimenti rischiamo di cadere nelle tentazione degli opposti monismi – quello idealistico da un lato e quello positivistico ed empiristico dall’altro – entrambi acritici ed infruttuosi rispetto alla nostra finalità politica tesa al superamento dell’esistente.Per quanto riguarda la terza obiezione – il carattere speculativo della mia impostazione metodologica in contraddizione con la premessa iniziale – mi permetto di dissentire sulla base di alcune considerazioni specifiche.Innanzitutto, i modelli idealtipici, per loro stessa definizione, non avanzano nessuna pretesa di realtà come le ipostasi ideologiche e/o speculative da me criticate nella prima parte dell’articolo, ma si caratterizzano per una valenza esclusivamente euristica, conoscitiva e non essenzialistica. In quanto tali devono estremizzare le caratteristiche peculiari di un oggetto o di una tendenza, onde chiarirne concettualmente le differenze. Inoltre, essi non vengono costruiti sulla base di speculazioni aprioristiche, ma, coerentemente allo schema marxiano concreto-astratto-concreto, sono elaborati sulla base di precise analisi empiriche di sociologi ed economisti quali Carlo, Revelli, Rifkin, Bonomi etc. e successivamente verificate sulla base di tendenze e processi reali analizzati dagli stessi studiosi.Come ci ha insegnato Marx, l’analisi parte dai processi reali per giungere all’individuazione delle caratteristiche di fondo e delle tendenze generali, fermo restando che nell’opera di sintesi ed esposizione le conclusioni possono apparire come premesse. A questo proposito, nel proscritto del 1873 alla seconda edizione del Capitale, Marx osserva:Certo, il modo di esporre un argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l’indagine. L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce, e se la vita del materiale si presenta ora idealmente riflessa, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori.Se mi fossi attenuto al livello ideologico non solo non sarei giunto alla conclusione che tra fordismo e postfordismo vi è continuità per quanto attiene i rapporti di comando capitale/lavoro, ma non avrei neanche colto sia il carattere mistificatorio e/o funzionale al capitale della rivalutazione della soggettività operaia – negando, così, l’alienazione, lo sfruttamento e i rapporti di comando e controllo tipici delle aziende, nonché la loro radicalizzazione – sia la sincronicità tra i diversi modelli organizzativi e le varie figure del lavoro. Tutti aspetti che ho individuato e denunciato (cfr. articolo pp. 24-30) e che tu, nella disamina dell’articolo, non hai colto o sottovalutato, pervenendo nella lettera alle mie stesse conclusioni: il carattere alienante di entrambe le forme di produzione. La discontinuità è individuata nelle diverse caratteristiche della fase economica, giungendo alla conclusione che il capitalismo mostra sempre di più il suo vero volto, facendo entrare in rotta di collisione sviluppo e socialità, crescita e coesione sociale, come non avveniva durante la fase fordista, caratterizzata, per quanto concerne il mercato del lavoro, da una tendenziale piena occupazione ed omogeneità delle condizioni contrattuali e dei diritti sociali, a fronte degli attuali processi di delocalizzazione, ristrutturazione, esternalizzazione, precarizzazione, individualizzazione contrattuale e disoccupazione crescenti. Processi sociali e tendenze queste che, se rimaniamo “chiusi” nel solo lavoro di analisi critica e di pratica politica all’interno delle fabbriche, non riusciamo a cogliere nella loro valenza negativa a livello territoriale e sociale, precludendoci la possibilità di comprendere criticamente le esplosioni di rabbia delle periferie delle megalopoli e delle metropoli sudamericane, francesi, statunitensi etc. (cfr. il caso esemplare delle banlieus francesi). Non ci fanno intercettare le nuove figure del lavoro, i nuovi bisogni, le nuove forme di sfruttamento, le nuove rabbie e le nuove frustrazioni, relegandoci ad una condizione marginale.Infine per quanto riguarda la concezione dello Stato, se non vogliamo limitarci a proclamare in modo ideologico la sua natura di classe, ne dobbiamo cogliere le concrete trasformazioni storiche, che sono una risposta ai processi di lotta. Lo Stato erogatore di servizi nei confronti del capitale testimonia la crisi del sistema non la sua forza, ne svela la sua natura di classe in modo storicamente determinato nell’età della globalizzazione, erodendo tutti quei diritti e quelle garanzie che nella fase precedente erano state conquistate dal movimento operaio e dalle altre classi lavoratrici contribuendo ad acuire la crisi anziché razionalizzarla.Scusami per la lunghezza della lettera, ma ritengo che sia stato necessario chiarire gli snodi problematici da te argutamente posti, proprio al fine di ribadirti, in qualità di rappresentate di un’associazione operaista, l’invito a partecipare ad un Forum sulle trasformazioni del lavoro, in modo tale da mettere in rete il meritorio lavoro politico, che svolgete nelle fabbriche, con le altre figure del lavoro e gli altri luoghi della produzione capitalista. Partire dalla fabbrica (ma quale fabbrica? solo quella fordista o anche quella diffusa sul territorio?) va bene, proprio per ribadire il carattere di espropriazione del modo di produzione capitalistico, ma rimanervi “chiusi” potrebbe indurre ad una posizione minoritaria e settaria, contribuendo a frantumare ulteriormente, da un punto di vista politico, quel mondo del lavoro, che oggi necessita di essere ricomposto, intercettando anche le istanze, le domande, i bisogni e le aspettative di una miriade di figure messe a lavoro e a valore dal capitale, al fine di rilanciare su livelli più alti, estesi e consapevoli la lotta tra capitale e lavoro.Si tratta, insomma, di individuare il filo rosso che unisce vecchie e nuove figure del lavoro, vecchie e nuove forme di subordinazione, comando e sfruttamento per ricomporre il fronte del lavoro e costruire politicamente un percorso di radicalità a partire dalle vecchie e nuove contraddizioni che stanno minando il sistema. Contraddizioni che di per sé non conducono necessaristicamente al comunismo –come invece sembra sostenere Enzo Acerenza, quando, nel numero 122 di Operai contro, parla di “processo storico ineludibile” – ma necessitano, come tu mi insegni, di una soggettività, una classe cosciente ed organizzata, capace di acuirle e superarle.Ma la costruzione di questa classe, che ha una valenza politica e non semplicemente sociologica, deve avvenire solo nell’ambito della grande fabbrica tradizionale o, per non rimanere settari e minoritari, dobbiamo partire anche dagli altri luoghi della produzione capitalista e coinvolgere le nuove figure del lavoro, che non sono immediatamente assimilabile all’operaio maschio adulto dell’industria siderurgica ed automobilistica?E la proposta di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato non consentirebbe da un punto di vista politico di ricomporre queste fratture all’interno del mondo del lavoro – fratture che attraversano anche gli operai per la differenza dei loro livelli salariali e delle loro tipologie contrattuali – e da un punto di vista economico di acuire le contraddizioni dell’ordinamento capitalistico in vista di un suo definitivo superamento?Aspettando una tua replica ed augurandomi di fare decollare quanto prima questa forma di collaborazione - un Forum online sul lavoro - che non implica nessuna rinuncia di linea da parte di nessuno, ma solo una condivisione del lavoro, politico, critico e teorico che le diverse associazioni ed organizzazioni svolgono nei loro ambiti di azione,ti rivolgo i miei più cordiali saluti.

Salvatore Lucchese