tag:blogger.com,1999:blog-171972532024-03-10T04:17:46.877+01:00crisieconflitti.itIl nostro blog è un modo di comunicare e scambiare opinioni intorno ai temi su cui ruota la rivista elettronica che puoi consultare su www.crisieconflitti.it.
Far circolare idee e spunti in un modo fluido e continuo simile ad un ragionamento ad alta voce, tradurre i pensieri in parole e condividerle con altri nel profondo rispetto per le differenze: questo è il nostro spirito. Uno spirito nel vento.lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.comBlogger91125tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-68143720177410494112009-07-06T21:58:00.001+02:002009-07-06T21:58:48.921+02:00MICROMEGA 4/2009Il freddo inverno<br />della sinistra italiana<br /> <br /><br />CONFRONTO TRA REVELLI, DAL LAGO, BRANCACCIO<br /><br /> <br />Marco Revelli: <br /><br /> <br /><br />Se proprio devo fare outing, ammetto la mia colpa. Prima delle elezioni avevo dichiarato che questa volta non sarei andato a votare. Devo confessare che però, purtroppo, non ho mantenuto fede al mio proposito. Ho votato Rifondazione comunista, «facendomi pena!» – questa è l’espressione giusta – e tuttavia l’ho votata, con un voto di autentica disperazione, legato solo al desiderio (molto egoistico, me ne rendo conto) di non sentirmi troppo male con me stesso il giorno dopo di fronte ai risultati.<br /><br />Considero comunque il mio voto un «errore» da un punto di vista strettamente politico. Perché credo che la stupidità in politica non debba godere dell’immunità. Che chi compie degli atti stupidi sia giusto che paghi. E quello che è stato posto in essere dalla sinistra, dalle diverse componenti della sinistra cosiddetta radicale negli ultimi mesi, nessuna esclusa, è sicuramente un comportamento segnato da profonda, grave dissennatezza politica. <br /><br />Non voglio distribuire le responsabilità, che a mio avviso sono pari nelle diverse componenti. L’uscita dal parlamento a seguito delle elezioni politiche del 2008 poteva apparire come il risultato di una sorte ingenerosa, ma i mesi successivi, le vicende del congresso di Rifondazione, le scelte compiute dai gruppi dirigenti delle diverse anime di quella sinistra, hanno ampiamente giustificato la «sentenza di morte» emessa allora dall’elettorato (Sartori parlò di giusta cancellazione dei «nanetti», e sinceramente, col senno di poi, bisogna dire che non aveva torto).<br /><br />Credo che non si possa ripartire dai gruppi dirigenti. Da «quei» gruppi dirigenti. I cocci non si possono rimettere insieme; con i cocci si può fare una buona esegesi delle fonti, se vogliamo, si può costruire una realtà museale, si può persino fare dell’estetica politica, ma non si rilancia un progetto. Con queste culture politiche, così come sono incarnate dai due gruppi dirigenti – parlo della sinistra radicale prevalente – non si può ripartire. <br /><br />Diverso è il discorso sui due milioni di voti – espressione di una parte generosa e consistente della nostra società – che queste liste hanno comunque raccolto in occasione delle ultime elezioni europee. È da questi due milioni di voti che si dovrà ripartire, perché due milioni di orfani politici sono una realtà, un patrimonio che non deve essere disperso. Ma si dovrà ripartire, io credo, con linguaggi, riferimenti culturali, progetti, programmi e persone totalmente diversi.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Alessandro Dal Lago: <br /><br /> <br /><br />Anche io come Revelli avevo annunciato che non sarei andato a votare. Ovviamente la cosa non aveva importanza se non per me; tuttavia mi piaceva pensare che nel mio piccolo avrei contribuito a lanciare un messaggio. E devo dire che io ho tenuto fede al mio impegno. Aggiungo che non me ne sono pentito affatto.<br /><br />Il messaggio che alcuni di noi volevano dare – e in questo sono assolutamente d’accordo con quanto ha appena detto Revelli – era diretto a gruppi dirigenti affetti – non solo da quest’anno, ma direi almeno dai tempi del governo Prodi – da stupidità politica oggettiva e recidiva. Il messaggio era chiaro: «andatevene». Un elettore qualunque, un cittadino qualunque di sinistra come io mi reputo, non ne può più di questi gruppi. E da questo punto di vista io sono abbastanza soddisfatto dell’esito delle elezioni. Naturalmente la mia è una soddisfazione amara, acre, anche perché non credo che il messaggio sarà accolto.<br /><br />L’impressione che traggo da ciò che sto leggendo in questi giorni successivi alla tornata elettorale è che i vertici dei partitini continueranno tranquillamente con questi risibili giochetti politici, con queste aggregazioni fantasmatiche o divisioni totalmente insensate. E le responsabilità di tale situazione non possono essere addebitate a una sola persona o a un solo gruppo, ma vanno distribuite equamente. <br /><br />Il ceto politico della sinistra radicale – ma sarebbe meglio definirla sinistra «sociale» – non mi pare abbia minimamente colto la gravità della fase e i messaggi che gli sono stati lanciati dal proprio elettorato. <br /><br />Tuttavia non possiamo trascurare il fatto che due milioni di voti segnalano la persistenza di un bacino elettorale non piccolo in attesa di trovare una degna rappresentanza. È un dato rilevante anche perché io credo che questo bacino elettorale sia potenzialmente molto più ampio, se si considerano quelli che, come me, non sono andati a votare e i tanti che hanno scelto Di Pietro per una valutazione contingente e tattica legata a una sua maggiore visibilità in chiave antiberlusconiana. Sommando i voti raccolti dalle liste di sinistra, gli astenuti (che sono stati moltissimi sia alle elezioni del 2008 sia alle ultime europee) e i tanti elettori di sinistra che hanno scelto Di Pietro, si raggiunge una quota che secondo me si attesta attorno al 15 per cento dell’elettorato. Ed è una valutazione che ritengo molto, ma molto cauta, se si pensa che fino a poco tempo fa la sinistra sociale raccoglieva tranquillamente il 12 per cento dei voti e nel frattempo sono intervenuti mutamenti che potenzialmente ne accrescerebbero in modo rilevante la capacità di attrazione. Parliamo dunque di una fetta consistente di società, che se solo riuscisse a esprimere un progetto all’altezza riuscirebbe a incidere profondamente sugli equilibri politici del nostro paese. <br /><br />Che cosa ci riserva il futuro? La mia impressione è che ci sia non solo un problema di classi dirigenti autistiche, chiuse nelle loro stanze e nei loro discorsi autoreferenziali, ma anche un problema più generale di struttura stessa della rappresentanza politica. Penso per esempio alle figure che periodicamente vengono presentate alle elezioni: non c’è nessun rapporto tra queste personalità e la società che dovrebbero rappresentare. Nessuno riesce mai a verificare il loro operato. <br /><br />Io non sono contrario alle elezioni per motivi di principio: ovviamente la cosa ha un senso se è funzionale a un progetto politico. Ma la sinistra sociale non può rapportarsi al problema della rappresentanza in modo identico a quello degli altri partiti, se no viene meno la sua stessa ragion d’essere. Per dotare di maggiore concretezza il mio discorso posso citare l’esempio della stessa città in cui vivo, Genova, che è storicamente una città di sinistra. Beh, in questi anni io non mi sono mai accorto che Rifondazione o altre formazioni della sinistra esistessero, se non nei periodi elettorali o in qualche dibattito o polemica comunale. Ma tra un’elezione e l’altra nessuno chiama mai i cittadini a fare una discussione, a partecipare, a interloquire con i propri rappresentanti eccetera. <br /><br />Ecco, io credo che il problema sia esattamente questo: la gente si è stufata di essere rappresentata da un personale politico del genere.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Emiliano Brancaccio: <br /><br /> <br /><br />Alle elezioni ho votato per la lista di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, e ho sottoscritto l’appello al voto per questa lista. Per esser sinceri fino in fondo, credo di averlo fatto con il sentimento di chi va verso una specie di «plotone d’esecuzione» politico. Infatti, dopo la discutibile scissione a opera di alcuni degli sconfitti di Chianciano, e con un partito che in questi anni è stato irresponsabilmente sradicato dal territorio e che di fatto ancora non dispone di un preciso progetto di costruzione del consenso, nutrivo dei dubbi sulla possibilità di raggiungere la soglia del 4 per cento. Ma il punto è che se anche la lista avesse raggiunto quella soglia, le cose in realtà non sarebbero cambiate moltissimo. Penso infatti che i problemi di fronte ai quali ci troviamo vengano da lontano e siano profondissimi. Anche per questo, se permettete, credo che per affrontare correttamente un discorso su quale futuro attenda la sinistra in Italia occorra sviluppare una breve analisi preliminare. <br /><br />Il dato da cui penso sia necessario partire è che le ultime elezioni hanno confermato una tendenza già ben visibile da molti anni: i lavoratori subordinati – soprattutto i lavoratori con minori tutele che operano nel settore privato e con mansioni esecutive – hanno da tempo abbandonato i partiti socialisti e comunisti, cioè i partiti eredi più o meno legittimi della tradizione del movimento operaio, e hanno indirizzato sempre di più il loro voto verso le destre, specialmente verso le destre populiste. Questa tendenza è in atto in Europa e in Italia da circa un quarto di secolo, e non sembra minimamente arrestarsi. Anzi, secondo i dati di cui disponiamo, pare addirittura che stia rafforzandosi. <br /><br />Ora, questi stessi lavoratori appaiono oggi particolarmente sensibili alle rivendicazioni legate alla difesa degli interessi territoriali e nazionali. Potremmo dire che nella loro visione il vecchio conflitto di classe svanisce, e viene soppiantato dal conflitto territoriale. Questo spostamento delle rivendicazioni dalla classe al territorio si compie in modo istintivo, ma non è né casuale né irrazionale. Questi lavoratori infatti percepiscono che l’apertura internazionale dei mercati e la conseguente maggiore circolazione mondiale dei capitali, delle merci e in parte anche dei lavoratori – in una parola la cosiddetta «globalizzazione capitalistica» – ha alimentato una guerra sempre più feroce tra i lavoratori. È una guerra mondiale tra poveri che deteriora le condizioni di lavoro, intensifica lo sfruttamento, comprime i salari e lo stato sociale, e crea quindi anche i presupposti per la crisi economica. <br /><br />Ebbene, per difendersi da questa guerra i lavoratori evidentemente cercano risposte politiche. E bisogna ammettere che al momento essi trovano risposte soltanto a destra. Infatti, soprattutto a seguito della crisi, le destre (non soltanto le destre populiste e xenofobe, anche le destre tradizionalmente conservatrici) hanno accentuato i loro propositi di difesa dei capitali nazionali, si sono votate al protezionismo commerciale e hanno sempre di più insistito sul blocco dell’immigrazione quale valida risposta al conflitto tra i lavoratori che viene oggettivamente alimentato dalla globalizzazione. <br /><br />Ora, è noto che una classica alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione consiste nel blocco dei movimenti di capitale. Vincolare questi movimenti significa infatti impedire ai capitali di scorrazzare liberamente da un capo all’altro del mondo a caccia dei massimi rendimenti, cioè delle maggiori possibilità di sfruttamento del lavoro. Significa quindi impedire ai capitali di mettere in sfrenata concorrenza i lavoratori a livello globale. Il problema è che oggi si parla di continuo di blocco dell’immigrazione ma non si spende nemmeno una parola sul blocco dei movimenti di capitale. E questo silenzio è uno dei numerosi sintomi della situazione di totale «imbambolamento» nel quale versano le sinistre. <br /><br />Ma perché c’è questo silenzio? Come si spiega questo imbambolamento? Riguardo ai partiti socialisti europei, la risposta a mio avviso è che essi in questi anni non hanno semplicemente assecondato la globalizzazione capitalistica. In Europa i socialisti sono stati i principali fautori dell’apertura dei mercati. E hanno cercato di giustificare questo loro pieno sostegno alla globalizzazione sulla base di un totale travisamento dei fatti. Alcuni esponenti del socialismo europeo sono stati addirittura capaci di spacciare l’odierno internazionalismo del capitale (l’odierna apertura dei mercati) come una variante aggiornata del vecchio internazionalismo operaio (cioè del solidarismo internazionale che caratterizzava il movimento dei lavoratori). E invece bisognerebbe ricordare che i due movimenti sono in irriducibile conflitto, poiché se esiste l’internazionalismo del capitale allora la competizione globale tra lavoratori si intensifica e quindi l’internazionalismo operaio inevitabilmente deperisce e muore. Per quanto riguarda poi le sinistre comuniste, anticapitaliste e cosiddette «radicali», abbiamo troppo spesso assistito a comportamenti grotteschi, dettati da ignoranza e furbizia. Nel periodo di massimo splendore del movimento altermondialista, vi fu in effetti l’opportunità di lanciare una reale sfida per l’egemonia ai partiti socialisti, che all’epoca celebravano entusiasti le grandi virtù del liberismo. Accadde invece che ci si perse attorno a una serie di proposte folkloristiche e risibili, come ad esempio quella di contrastare la globalizzazione creando piccole comunità di autoproduzione e autoconsumo, magari nel nostro quartierino. <br /><br />Ecco, secondo me in quella fase si sono perdute delle occasioni importanti. E in parte ciò è dipeso anche dal fatto che i gruppi dirigenti della sinistra «radicale» non hanno mostrato alcun interesse verso la possibilità di fare piazza pulita del folklore, per contendere realmente l’egemonia ai partiti socialisti. Invece sono apparsi più interessati a tenersi le mani libere per conquistare di tanto in tanto qualche contentino, qualche prebenda da quegli stessi partiti. Dunque, se i dirigenti della sinistra «radicale» se ne devono andare, un buon motivo per farlo è che hanno avuto delle occasioni storiche e le hanno malamente sprecate. <br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Revelli: <br /><br /> <br /><br />Dico subito che sono in radicale dissenso con quanto ha appena detto Brancaccio. In particolare sull’affermazione secondo la quale la chiusura dell’azione politica – e in particolare delle politiche economiche – entro i confini dello stato nazionale avrebbe potuto rappresentare la risposta vincente di una sinistra radicale rispetto alla resa delle sinistre socialiste e tradizionali alla globalizzazione e al liberismo. <br /><br />Io non credo che si possa inseguire la destra sul terreno della rinazionalizzazione del confronto e del conflitto. Non è un caso che buona parte delle destre, anche quelle che sono state iperliberiste fino a ieri, riscoprano la dimensione nazionale. Certo, è una logica che forse paga dal punto di vista elettorale, ma è un dato di fatto che i neonazionalismi o i neoregionalismi abbiano tutti un segno di destra, siano ispirati da logiche di recinzione dell’identità, di costruzione più o meno artificiale di un «noi», di un’identità collettiva che si esprime nel rifiuto dei flussi provenienti dall’esterno, dell’«altro» in ogni suo aspetto, in primo luogo dei flussi di persone, di migranti, ma poi anche dei flussi di capitale. Non credo che si possa inseguire su quel terreno la destra perché ogni volta che si sono affermate logiche di recinzione nazionalistica, protezionistica, incentrate sull’identità nazionale, si è aperta la strada a soluzioni catastrofiche dal punto di vista politico: a dinamiche aggressive, belliciste, autoreferenziali, di cui il nazionalsocialismo è stata l’espressione estrema e più abominevole. <br /><br />A me preoccupa moltissimo il segno con cui si stanno connotando le dinamiche politiche nella crisi; mi preoccupa moltissimo l’atteggiamento che una parte del mondo del lavoro sta assumendo nella ricerca di politiche di difesa. E che la questione della «difesa sociale» di quello che è stato il tradizionale insediamento di massa della sinistra, cioè del «mondo del lavoro», non sia una priorità assoluta. Una sfida per molti aspetti drammatica, e oggi in gran parte perduta. Rifiuto però nettamente l’idea che ciò possa passare attraverso una rinazionalizzazione del conflitto e della politica. Cioè attraverso un forzato e artificiale ritorno alle condizioni del secolo scorso, quello che a buona ragione poté effettivamente essere definito il «secolo del lavoro».<br /><br />D’altra parte quando parliamo del mondo del lavoro, di comportamenti dei lavoratori, dobbiamo tener presente che anche in questo siamo anni luce distanti dal Novecento maturo, dal Novecento centrale. Non esiste più un mondo del lavoro omogeneo, unificato; le sue componenti sono estremamente frammentate, differenziate all’interno dello stesso mondo del lavoro subordinato, del lavoro dipendente, ma anche in rapporto alla galassia del lavoro autonomo. Così come sono diversificate le politiche di difesa che vengono selezionate e individuate. C’è una parte del mondo del lavoro che si difende dall’ipercompetitività della globalizzazione, dall’integrazione dei mercati del lavoro, dalla concorrenza del lavoro straniero con risposte di tipo leghista e di chiusura delle frontiere; ci sono altre parti del mondo del lavoro che si difendono cercando di rafforzare le garanzie tradizionali, gli ammortizzatori sociali, con pratiche neocorporative o micronegoziali, lasciando fuori ampi settori cresciuti all’esterno di quel sistema di welfare; ce ne sono altre che praticano il «si salvi chi può» individuale, moltiplicando gli straordinari, accettando condizioni indecenti, piegando la testa… <br /><br />Siamo di fronte a un caleidoscopio all’interno del quale, d’altra parte, la qualifica di «lavoratore» non è più identificante. Se vogliamo, la crisi attuale ci mette di fronte a un mix costituito da una parte da bisogni postmaterialistici, così come sono stati definiti, e quindi da nuovi atteggiamenti nei confronti degli stili di consumo, dei beni «simbolici», delle pratiche di status, e dall’altra parte da un ritorno di bisogni crudamente materialistici, di reddito, di servizi essenziali, di protezione dall’impoverimento. Questi due elementi si intrecciano fortemente e determinano umori, sentimenti, atteggiamenti difficili da codificare, impossibili da ricondurre a un linguaggio politico razionale e coerente (come era abituata a fare la sinistra), e proprio per questo terribilmente pericolosi in politica, perché hanno tutti all’origine un elemento di invidia sociale, di rancore, di risentimento e di aggressività. <br /><br />Ora, io credo che una sinistra adeguata a questo tempo debba imparare a misurarsi con questi nuovi veleni e costruire degli antidoti. Con umiltà. Sapendo che non ci sono ricette consolidate. Soluzioni già sperimentate. Che bisogno inventare, privilegiando l’ascolto di ciò che si muove nel sociale, prima di dare la stura ai proclami. È vero che la micropolitica dell’altermondialismo appare insufficiente rispetto alla dimensione dei problemi, ma la grande politica del neoprotezionismo non è la risposta adeguata.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Dal Lago: <br /><br /> <br /><br />Sì, anch’io non sono del tutto convinto dal discorso sul nazionalismo. Qualche settimana fa sono stati diffusi dati interessanti sul fatto che i salari italiani sono praticamente i più bassi d’Europa. È un dato che si riferisce a un ciclo lungo, che comincia probabilmente alla fine degli anni Novanta e continua fino a oggi. Questa tendenza si intreccia però con quello spostamento, a cui già si è fatto cenno, dai conflitti di classe a quelli territoriali, nonché a ciò che Revelli chiama i bisogni postmaterialisti. Io ho l’impressione che la destra vinca in tanti modi, ma soprattutto perché, rivolgendosi a questi segmenti differenziati di lavoratori, è stata capace di trasformare le rivendicazioni materiali in rivendicazioni simboliche. <br /><br />Si è parlato molto dello sfondamento delle destre, e soprattutto della Lega, nei settori popolari e operai. Ma io vorrei sapere in che misura questi lavoratori trovano nelle destra la risposta a una condizione salariale che è fra le peggiori d’Europa. E parlo dei lavoratori dipendenti, figuriamoci se interpellassimo anche il vasto mondo del precariato… Questa contraddizione non è nuova nella storia. Penso ad esempio alla lotta politica nella Germania degli anni Venti e Trenta, quando prima dell’ascesa al potere di Hitler i comunisti e i nazisti si disputavano in gran parte uno stesso elettorato. Quindi siamo di fronte a un fenomeno pericoloso, ma che ha degli antecedenti storici. Io sono convinto che su questa contraddizione la sinistra radicale non è stata capace di intervenire e non solo per il carattere «micrologico» delle rivendicazioni altermondialiste, il vago solidarismo del consumo equo e solidale, le iniziative alla José Bové e tutte le cose simili, che alla fine hanno avuto – a mio avviso – un effetto di ottundimento generalizzato. Non è stata capace di intervenire su quella contraddizione perché ha fatto un discorso puramente ideologico, senza intercettare alcun tipo di istanza, né materiale né simbolica. <br /><br />Un altro esempio che potrei fare da questo punto di vista è il problema del radicamento territoriale dei partiti. È assolutamente naturale e comprensibile che partiti come quello berlusconiano o lo stesso Pd non abbiano bisogno di radicarsi sul territorio e abbiano dunque abbandonato questo modello. Ma nel caso della sinistra radicale la cosa non ha assolutamente senso, perché non disponendo di mezzi economico-mediatici, la territorialità non può non essere uno degli elementi fondamentali dell’azione politica. <br /><br />E questo è ciò che più è mancato alla sinistra radicale. È cominciato a mancare secondo me all’epoca di Bertinotti con i discorsi generici, puramente astratti, sul movimento no global eccetera; e continua a mancare con l’incapacità delle piccole élites locali e nazionali di questi partiti a intervenire sulla contraddizione fondamentale fra ordine materiale e ordine simbolico. Ritengo che qui vada individuato uno degli elementi essenziali dell’attuale crisi. Resta nondimeno il fatto che, come dicevo prima, c’è ancora una consistente fetta di elettorato disponibile a, come dire, non «nazionalizzarsi», a non «territorializzarsi» in senso leghista. Questo elettorato, questo settore sociale che si esprime anche attraverso le elezioni, continua a fare delle domande a cui nessuno risponde.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Brancaccio: <br /><br /> <br /><br />È positivo che Revelli abbia espresso il proprio dissenso in maniera netta. I grandi problemi di fronte ai quali ci troviamo hanno bisogno di prese di posizione chiare, e la mia posizione è alternativa rispetto a quelle da tempo sostenute da Revelli. <br /><br />Io non condivido innanzitutto la sua analisi della frammentazione intervenuta nel mondo del lavoro. Non dimentichiamo che le divisioni che hanno investito il lavoro sono state determinate in misura rilevante da una serie di scelte politiche. Queste scelte hanno contribuito a determinare una profonda differenziazione nei salari, nelle condizioni di lavoro e nelle tutele. È una differenziazione che ha accentuato la guerra tra lavoratori di cui parlavamo prima: privati contro pubblici, precari contro stabili, giovani contro anziani, e adesso soprattutto nativi contro immigrati. E oggi vi è chi gioca e specula su queste fratture tra i lavoratori, alimentando ulteriormente il conflitto tra di essi. Del resto, sono proprio queste grandi differenze tra i lavoratori ad aver creato le condizioni per una sconfitta generale del lavoro sia nei processi di distribuzione del reddito, sia nella scelta dei metodi e dei ritmi produttivi, sia nel tipo di produzione che si voleva realizzare. <br /><br />L’accenno ai bassi salari italiani che ha appena fatto Dal Lago è utile all’interno della nostra conversazione. È l’ulteriore dimostrazione che la globalizzazione capitalistica non favorisce la convergenza tra i paesi, come dicono i liberisti, ma produce divergenza a tutto tondo. A questo riguardo l’Italia è uno dei paesi che ha maggiormente arrancato in Europa, e che ha quindi subìto un pesante distanziamento in termini di redditi e di salari rispetto alle aree centrali dell’accumulazione capitalistica europea. <br /><br />Dunque il punto di fondo è questo: se noi continuiamo a manifestare una certa pruderie, una certa inquietudine nei confronti della proposta di bloccare i capitali e di ridurre l’apertura dei mercati, rischiamo di cadere in un equivoco colossale. Mi spiego: io sostengo che un’epoca di rinnovata coesione e protagonismo del movimento dei lavoratori a livello globale, un’epoca di nuovo «internazionalismo operaio», potrà fiorire solo in seguito a un processo di rinnovata segmentazione e divisione dei mercati, partendo dai mercati finanziari per arrivare eventualmente anche ai mercati delle merci. <br /><br />Quando si dice di temere una «deriva nazionalista» secondo me si cade in un equivoco, perché occorre riconoscere che sul piano storico il movimento dei lavoratori si sviluppa a livello internazionale proprio in relazione a dei processi di segmentazione e di irrigidimento dei mercati finanziari e delle merci, non certo grazie a una loro apertura. Quando si è verificato un processo di apertura globale dei mercati finanziari e delle merci, la competizione è diventata sfrenata e il movimento internazionale dei lavoratori ha ripiegato su se stesso, fino a implodere. <br /><br />Questo è un punto molto importante, nel senso che o capiamo questo fatto ed esigiamo una presa di posizione precisa su questo problema, oppure continueremo a essere vittime di esponenti politici che attraverso una pletora di chiacchiere cercheranno di coprire le peggiori nefandezze. Tanto per fare un esempio, legato alla contingenza politica più spicciola, subito dopo le elezioni ho sentito l’ex segretario di Rifondazione Franco Giordano parlare di grandi scenari, grandi prospettive e così via, e immediatamente dopo chiedere a Linda Lanzillotta – una delle esponenti del centro-sinistra che più si è distinta per subalternità al pensiero unico liberista nonché fra i principali sostenitori della privatizzazione dei servizi pubblici – se vi fosse un po’ di spazio per Sinistra e libertà nelle future strategie del Partito democratico, senza nemmeno chiarire i termini di un eventuale accordo. Ecco, io credo che questo iato spaventoso tra dichiarazioni roboanti e pratica politica effettiva sia un altro sintomo della profonda crisi nella quale ci troviamo immersi. Se non facciamo muro, avanzando analisi e proposte politiche precise e alternative, secondo me non ne usciremo mai.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Revelli: <br /><br /> <br /><br />I termini del dissenso con Brancaccio si sono fatti espliciti. È un dissenso molto forte, molto netto, molto polarizzato. Io non credo assolutamente che la metamorfosi radicale dell’universo del lavoro a cui abbiamo assistito nell’ultimo quarto di secolo sia ascrivibile solo a scelte e a ragioni politiche. Ci sono delle dinamiche profonde, tecnologiche, organizzative, di «paradigma» vorrei dire, che hanno determinato tutto questo. Indubbiamente ci sono degli imprenditori politici che hanno quotato alla borsa del consenso i risultati di questo processo e hanno enfatizzato gli aspetti torbidi che esso implicava. Penso al fenomeno della xenofobia e al modo in cui la Lega utilizza la paura e la competizione fra lavoratori. Ma la politica non è l’unico fattore esplicativo di ciò che è accaduto nella società.<br /><br />Dal 1980 a oggi io ho visto la mia città, Torino, mutare faccia dal punto di vista della sua composizione sociale per effetto di potentissimi processi tecnico-organizzativi. Ho visto la Fiat Mirafiori svuotarsi, passare da 60 mila operai (con 130 mila dipendenti complessivi di Fiat Auto) a 10 mila… Tutto questo non è solo il prodotto di scelte politiche, ma ha a che fare con le trasformazioni profonde nel corpo del capitale. Non credo quindi che sia «politicizzando» radicalmente la questione che noi ne veniamo a capo. <br /><br />Così come continuo a essere convinto che la segmentazione su base nazionale dei mercati, come Brancaccio la propone, sia un’operazione devastante, in primo luogo per quanto riguarda la ricaduta di ciò sulle «culture politiche» implicate nell’operazione, e sugli atteggiamenti di massa, le dinamiche simboliche, le mentalità collettive che dovrebbero necessariamente essere mobilitate in quest’operazione di intervento massiccio sulle strutture economiche e finanziarie. Risegmentare mercati che si sono integrati significa costruire barriere, fratture, confini attraverso l’impiego di valori simbolici aggressivi, perché la rinazionalizzazione implica identità omogenee, coese, territorialmente radicate e obiettivamente fascistoidi. Vuol dire un impiego massiccio della logica «amico-nemico», l’invenzione di una qualche tradizione e di una qualche antitesi negativa, un’alterità attraverso cui simbolizzare un esterno che non c’è più, ma di cui c’è necessità se si vuole «recintare» il noi…<br /><br />Il tentativo di ricondurre a logiche nazionali il primo processo di globalizzazione ha prodotto veleni a destra e a sinistra: ha prodotto il nazismo e la degenerazione della rivoluzione russa in nazionalbolscevismo. Sono assolutamente terrorizzato dall’esito che potrebbero avere tentativi di questo tipo oggi, con la potenza assunta dagli apparati di comunicazione. <br /><br />Io credo che alla globalizzazione un merito possa essere riconosciuto. Non sono fra quelli che l’hanno criticata e contrastata in tutti i suoi aspetti: l’apertura dei confini asfittici delle dimensioni nazionali è stata a mio avviso un vantaggio per l’umanità. Pone ovviamente dei giganteschi problemi di governance, di gestione politica del processo, ma non possiamo rifiutare queste opportunità e queste prospettive in quanto tali.. La sinistra non è stata capace di nuotare in questo nuovo mare senza andare a ricercare ricette vecchie, ricette novecentesche. Cerchiamo di evitare che naufraghi l’intera, fragile, umanità presente e futura.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Dal Lago: <br /><br /> <br /><br />Da quando i fenomeni migratori (e le problematiche a essi connesse) hanno conquistato una certa importanza in questo paese, all’interno di una certa sinistra si è diffuso il concetto di «guerra fra poveri», che secondo me è fondamentalmente sbagliato. Cerco di spiegarmi: il conflitto a cui si fa riferimento con questa espressione è in larga parte un conflitto immaginario, non un conflitto reale. L’operaio che decide di votare Lega o Pdl è comunque uno che in un paese come l’Italia ha un salario basso: parliamo di un salario che oscilla fra i 700 e i 1.200 euro al mese ed è – come si è detto prima – fra i più bassi d’Europa. L’elemento di riterritorializzazione – che prenda la forma di una regionalizzazione oppure di una nazionalizzazione della sua identità – ha un valore di supplenza evidente; ma se poi torniamo a guardare all’aspetto eminentemente materiale, al lato degli «interessi», questa territorializzazione non porta alcun tipo di vantaggio. <br /><br />Negli anni scorsi abbiamo tanto criticato un approccio esclusivamente economicista e materialista da parte della sinistra, ma tenendo fede a quell’approccio è facile rendersi conto che gli «interessi» non c’entrano con la paura nei confronti della moschea del quartiere o degli immigrati in generale, paura che poi si materializza in cose orripilanti come i respingimenti in mare, che altro non sono che «omicidi preventivi» di esseri umani. <br /><br />Non esiste un conflitto tra segmenti diversi del mondo del lavoro, non esiste un conflitto reale, perché stiamo parlando di immigrati che per lo più hanno salari risibili e sono impiegati in settori del tutto diversi da quelli in cui sono impiegati gli italiani. Un italiano non accetterebbe mai il salario di 400 euro di un rumeno al quale magari quei soldi sembrano molti se comparati ai 150 euro che guadagna in Romania. <br /><br />In queste forme di chiusura che sfociano nell’intolleranza e nella xenofobia io vedo piuttosto l’esito del disagio – a cui hanno contribuito tanto le scelte politiche del centro-destra quanto quelle del centro-sinistra – dovuto alla marginalizzazione del lavoro nella società contemporanea. Disagio che, filtrato da determinati processi di «simbolizzazione», si sfoga contro gli immigrati e i «diversi» in generale. <br /><br />Ma se le cose stanno così oggi, non sono date così per sempre e sono quindi in qualche misura modificabili. Dove purtroppo io scorgo il fallimento decisivo della sinistra, chiamiamola così, «di classe» è nell’aver ignorato il problema con discorsi molto astratti oppure nell’aver assecondato spinte di tipo – lo dico tra molte virgolette – «neoxenofobe». La priorità che la sinistra sociale dovrebbe porsi è dunque quella di tornare a intervenire su tali questioni, riscoprendo la riflessione sugli interessi ma anche lavorando sui simboli. <br /><br />Anche io condivido quanto detto da Brancaccio sullo iato incredibile fra dichiarazioni roboanti come quelle di Giordano seguite da richieste pigolanti di collaborazione rivolte al Pd, ma qui siamo di fronte a un più generale problema di qualità scadente di questo ceto politico. È gente che è rimasta indietro di vent’anni, che non è assolutamente in grado di capire la nuova situazione che si è venuta a creare e soprattutto che difende le proprie posizioni acquisite. Per esempio nelle tentazioni di ritorno all’Unione che nelle giornate postelettorali sono filtrate con evidenza da Sinistra e libertà io vedo semplicemente il disperato tentativo di questi microgruppi politici, di trovare comunque una collocazione, a tutti i costi.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Brancaccio: <br /><br /> <br /><br />La posizione di Revelli è sbagliata. Ed è una posizione, io dico, superata, nel senso che la traccia sviluppata da Revelli ha ispirato negli ultimi anni tutta una serie di ricerche teoriche e iniziative politiche che sono state al centro del dibattito e non mi pare che abbiano dato risultati particolarmente positivi.. C’è una generica propensione globalista da parte della sinistra cosiddetta radicale che è il frutto di uno spaventoso equivoco, equivoco in cui lo stesso Revelli mi pare cada pesantemente. <br /><br />Nel momento in cui si accetta l’impianto interpretativo proposto da Revelli e sostenuto da numerosi, vecchi esponenti della sinistra radicale, il flusso di voti dei lavoratori e delle fasce popolari che si indirizza verso la destra – soprattutto quella populista e xenofoba – è destinato a diventare inarrestabile. <br /><br />Ha ragione Dal Lago nel sostenere che esiste una dimensione «simbolica» che forze come la Lega riescono a proporre con estrema efficacia, ma, adottando una chiave interpretativa storico-materialista aggiornata, credo che questa scissione concettuale tra dimensione materiale e dimensione simbolica debba essere superata. Il conflitto simbolico infatti da solo non può sussistere. Esso prospera solo se esistono tendenze materiali potenti che lo sostengono. E queste tendenze ci sono. Da un punto di vista economico, la tesi che porta avanti Dal Lago è in fondo la tesi della «segmentazione del mercato del lavoro». È una interpretazione che tra gli economisti ha avuto un certo seguito negli anni passati. Secondo questa lettura gli immigrati non concorrono con i nativi perché si collocano in segmenti del mercato del lavoro diversi, non concorrenziali. <br /><br />Purtroppo però dobbiamo rilevare che oggi il mercato del lavoro è sempre meno segmentato ed è sempre più fluido, e quindi i diversi lavoratori sono sempre più fungibili tra loro. Insomma, per usare un’espressione marxiana, il lavoro si fa «astratto». Questo significa che la competizione tra lavoratori nativi e immigrati si sta effettivamente realizzando, nel senso che l’apertura dei mercati – dei capitali e delle merci in primo luogo, ma anche l’accelerazione dei flussi migratori – sta determinando una convergenza verso il basso dei salari, delle condizioni lavorative e dello stato sociale. E sta anche determinando un conflitto per l’occupazione degli spazi metropolitani.<br /><br />I dati purtroppo ci dicono questo. E allora insisto sul punto che ho introdotto nel mio primo intervento. Se noi vogliamo trovare una credibile alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione che la destra propone con tanto successo in questa fase, allora dobbiamo proporre un altro tipo di blocco, che sia innanzitutto blocco dei movimenti di capitale. In estrema sintesi, io dico: se vogliamo «liberare» i migranti, dobbiamo «arrestare» i capitali. <br /><br />Se invece insistiamo su una concezione tutto sommato favorevole al globalismo, temendo che un approccio alternativo possa essere foriero di chissà quali pericoli nazionalisti e guerrafondai, secondo me ribaltiamo in modo del tutto erroneo i termini del problema: cioè non ci rendiamo conto che il blocco dei capitali è proprio la necessaria risposta di sinistra a un futuro di violenza nazionalista, fascista e guerrafondaia verso il quale stiamo drammaticamente scivolando.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Revelli: <br /><br /> <br /><br />Le divergenze che sono emerse nel nostro dialogo ci mostrano quanto siano profondi i problemi che abbiamo di fronte e quanto di fatto la sinistra, che ha ormai perso le proprie stelle polari, abbia necessità di essere completamente ripensata. <br /><br />Dovendo però tirare le somme rispetto alla questione primaria sulla quale siamo stati chiamati a discutere – ovvero il futuro della sinistra radicale in Italia – vorrei solo proporre un paio di considerazioni. Quale sarà lo scenario nel quale ci si muoverà nei prossimi mesi, nei prossimi anni? Io credo che con le ultime elezioni sia stata sconfitta innanzitutto una tendenza che era alla base del recente processo di riorganizzazione del sistema politico italiano, ovvero la tendenza al bipartitismo. L’idea di un sistema politico strutturato su due grandi partiti egemonici è saltata completamente, sia sul versante del Pdl, sia sul versante del Pd, perché gli unici che si sono rafforzati sono coloro che stavano fuori da quello schema, cioè la Lega e Di Pietro.<br /><br />L’altro elemento – collegato al precedente – che le recenti elezioni ci restituiscono è il fallimento del progetto di autosufficienza perseguito dal Partito democratico, l’archiviazione della sua «vocazione maggioritaria». Il Pd ha raggiunto a malapena la metà dei consensi che dovrebbe ottenere per poter avere una risicata maggioranza. Questo significa che nei prossimi mesi, nei prossimi anni ci muoveremo in un ambiente totalmente liquido dal punto di vista dei soggetti politici, perché i due partiti attorno ai quali doveva essere ridisegnata la nostra impalcatura istituzionale non hanno retto l’urto delle spinte centrifughe. Tutto ciò rende ancora più drammatiche le considerazioni che facevamo prima, sia per quanto concerne il conflitto tra segmenti del mondo del lavoro a cui faceva cenno Brancaccio, sia per quanto riguarda il timore di soluzioni neorazziste e neoautoritarie. <br /><br />Credo che questo dovrebbe però richiamare a un senso di responsabilità chiunque oggi si muova nel nostro universo politico. Non abbiamo di fronte una primavera tranquilla; abbiamo di fronte, come diceva Weber all’inizio degli anni Venti, un freddo inverno, rigidissimo, in cui ognuno dovrà assumersi responsabilità pesanti.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Dal Lago: <br /><br /> <br /><br />Prima di concludere vorrei tornare in maniera molto rapida sulla questione del blocco dei capitali. In realtà questa strategia di un capitalismo «nazionale» il governo di destra italiano l’ha in qualche modo praticata, almeno a parole. Pensiamo alle vicende Alitalia e Fiat.<br /><br />In ogni caso, tornando a quanto diceva Revelli sull’inverno assai lungo che abbiamo di fronte, cerco di sforzarmi di intravedere qualche elemento che possa non farci disperare del tutto. Sono d’accordo sul fatto che la situazione sia in movimento, soprattutto grazie all’evidente battuta d’arresto subita dal progetto di controllo bipartitico sulla geografia politica italiana. Aggiungo anche che la fluidità dell’assetto a cui siamo per adesso approdati è accresciuta dal carattere a mio parere occasionale e provvisorio – per quanto il ciclo possa non esaurirsi in tempi brevissimi – di fenomeni politici come quello che vede protagonista Antonio Di Pietro. <br /><br />In realtà la situazione è molto più fluida e complicata di quanto non si pensi. La stessa affermazione della Lega – per quanto giudichi terrificante il fatto che un partito del genere si attesti al 28 per cento in Veneto e abbia consensi enormi in tante altre zone del Nord – non credo possa proiettare questa formazione in una dimensione nazionale come qualche osservatore ha affermato subito dopo le europee, commentando la penetrazione appenninica del partito di Bossi in Emilia e Toscana. <br /><br />Che fare allora all’interno di un quadro dai contorni così incerti? Secondo me le cose essenziali per la sinistra sono due. In primo luogo occorre ripensare il rapporto tra elettorato e rappresentanza. Insisto su questo perché i meccanismi che si sono affermati negli ultimi dieci anni e che hanno accompagnato la partecipazione delle varie formazioni di sinistra ai governi si sono dimostrati fallimentari. Inoltre ritengo esista una questione di leadership politica, di qualità della leadership, di rapporto tra i leader e la propria base elettorale o sociale, che non può essere più aggirata. I personaggi che anche nei giorni successivi all’ultima, ennesima sconfitta elettorale abbiamo visto ricominciare coi soliti giochetti politicisti devono, secondo me, essere buttati fuori. Se ne devono tornare a casa, dal primo all’ultimo, tutti i leader nazionali. Non ci sono alternative. <br /><br />La seconda questione che ritengo sia essenziale per una rifondazione della sinistra anche localmente rimanda alla necessità di allargarsi al contributo del mondo del lavoro, della società civile, degli intellettuali, di chi è impegnato nelle associazioni e nei movimenti territoriali. Attraverso questo coinvolgimento allargato è forse possibile ricominciare a ragionare in termini di interessi concreti e di appropriate rappresentazioni simboliche, magari dotandoci di strumenti analitici e riferimenti nuovi, senza perdersi in discorsi del tutto autoreferenziali. Ho trovato ad esempio penosi questi dibattiti sulla «falce e martello sì», «falce e martello no» ai quali è sembrato ridursi il confronto politico a sinistra negli ultimi mesi.. Sono chiacchiere che non hanno veramente più nessuna importanza, sono al di fuori di qualunque senso della realtà. Credo che il problema della rappresentanza e quello dell’identificazione delle motivazioni fondamentali dell’agire politico siano i due campi dai quali si deve ripartire.<br /><br /> <br /><br /> <br /><br />Brancaccio: <br /><br /> <br /><br />Mi pare che almeno su un punto siamo tutti d’accordo, e cioè che sarà lungo e freddo l’inverno che ci attende. Prima però di affrontare la questione del futuro della sinistra italiana, devo rispondere a Dal Lago sul blocco dei capitali. Questo governo non sta agendo nella direzione del controllo dei capitali. Anzi, questo governo in realtà latita in un momento nel quale effettivamente le destre tradizionali europee si sono mosse a protezione dei capitali nazionali: il caso Fiat-Chrysler-Opel è indicativo proprio della latitanza del governo nazionale su questo versante, con rischi occupazionali elevatissimi dei quali ci accorgeremo a breve. <br /><br />Aggiungo anche un altro chiaro esempio del fatto che al momento non c’è alcun blocco dei capitali. Poiché i mercati finanziari sono completamente globalizzati, i paesi relativamente deboli come il nostro sono tutt’ora esposti al rischio di un attacco speculativo sui titoli nazionali, cioè di una fuga di capitali all’estero. Si tratta di un attacco che questa volta potrebbe avere ripercussioni ancora più violente di quelle che si ebbero nel 1992 e che oltretutto decretarono una sconfitta pesantissima della sinistra sindacale e politica. Ovviamente, se venisse introdotto un meccanismo di blocco dei movimenti di capitali, il rischio di un attacco speculativo potrebbe essere scongiurato. Ma di blocchi al momento non si vede traccia, e quindi il pericolo è sempre in agguato.<br /><br />Per quanto riguarda le prospettive di una ricostruzione politico-organizzativa della sinistra in Italia, dico con franchezza che non sono interessato a progetti politici che non si pongano come obiettivo chiave quello di invertire il flusso di voti che abbandona i partiti eredi (più o meno degni) della tradizione del movimento operaio e che si indirizza verso le destre populiste e xenofobe. La sinistra dovrebbe in primo luogo tentare di riconquistare la fiducia di quei lavoratori in condizioni di estremo disagio, che oggi in Italia, purtroppo, sono moltissimi, e che le hanno da tempo voltato le spalle. Se non lo fa allora è spacciata. <br /><br /> <br /><br /> <br /><br />(a cura di Emilio Carnevali)lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-4808706658243947902009-07-06T21:54:00.002+02:002009-07-06T21:58:13.619+02:00Il silenzio è d'oroSono tempi in cui sembra che parlare, parlare, parlare, non servi ad alcunchè...anzi non serva proprio a niente.Rimanere ad osservare, a scrutare le pieghe, a trovare nuovia argomenti forse è la cosa migliore. Qualcuno mi ha detto: sono i tempi del cecchino.Bisogna sapere attendere....Sono tempi di tardo Impero....lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-12261091713900880872008-06-30T22:09:00.000+02:002008-06-30T22:10:59.962+02:00OsservazioneHo letto crisieconflitti più volte, svariati articoli , ma temo che<br />pecchi in qualcosa , troppo lontano dai temi di tutti i giorni, pardon<br />nn che per un operaio nn sia importante capire il mondo capitalista,<br />ma secondo me questa rivista dovrebbe integrare a quello che fa una<br />ulteriore denuncia sociale ed essere più attivista.<br /><br />roccovalentino.frontutolunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-62106152809577934482008-05-01T21:56:00.002+02:002008-05-01T22:03:23.186+02:00Bifo a proposito di...Nel suo recente libretto intitolato "De quoi Sarkozy est-il le nom?" Alain Badiou dice a proposito delle elezioni francesi qualcosa che possiamo ripetere per quelle italiane, cioè che esse sono state dominate dalla paura. Che la destra faccia della paura il suo argomento principale è cosa nota. La destra è paura del divenire e del dissolversi che il divenire porta in sé. Sicurezza è la parola chiave della destra perché è segno della paura: paura dell'inevitabile, cioè del venir meno, del confondersi, del dissolversi, del morire. Chi è saggio si libera dal bisogno di sicurezza perché la sicurezza non esiste, se non nel suo significato etimologico di<br />assenza di paura (sine cura), cioè come libertà dall'ansia sicuritaria.<br />L'ansia sicuritaria è il modo migliore per aumentare l'insicurezza e l'unica sicurezza consiste nel non aver paura del possibile, nel non temere<br />l'inevitabile.<br /><br />La destra non è saggia, questo è noto, ma la sinistra vi pare lo sia? Da tempo la sinistra non ha altro argomento se non la paura della destra:paura di coloro che hanno paura, paura doppia che introietta il culto della sicurezza in nome della paura altrui. Gran parte di coloro che hanno votato per il partito democratico, lo hanno fatto perché avevano talmente paura della destra da votare un partito che disprezzavano, un partito subalterno al declinante impero americano, succube dell'ingerenza vaticana, sottomesso ai voleri confindustriali. E chi ha votato Sinistra arcobaleno, perché l'ha fatto, se non per paura? Nessuno più credeva nella<br />possibilità di un rovesciamento del neo-liberismo capitalista per via<br />parlamentare. Dopo il governo Prodi, dopo il protocollo Welfare, dopo gli<br />scaloni che diventano scalini, insomma, dopo il governo più autolesionista<br />della storia non c'era altra ragione di votare Sinistra Arcobaleno se non<br />la paura che potesse accadere esattamente quello che è accaduto: la <br />scomparsa.<br /><br />Ma di cosa abbiamo paura effettivamente? Chi vota a destra ha paura della criminalità. Non serve a niente spiegargli che i delitti sono diminuiti negli ultimi anni e che nessuna politica della sicurezza ridurrà la violenza, fin quando la cultura dominante sarà fondata sul mix di repressione e ipersessualizzazione, e fin quando l'aggressività maschile sarà esaltata dalla competizione.<br />E la sinistra di cosa ha paura? di Alemanno e di Tremonti? Tremonti (come sa chi ha letto il suo libro Paura e speranza) esprime programmi molto più critici verso il liberismo di quelli realizzati dai governi di centro sinistra, e Alemanno non è più fascista di Cofferati, quando si tratta di manganelli.<br />Quanto alla paura di Berlusconi, è paura retroattiva, perché quello che Berlusconi poteva fare l'ha già fatto. Si è impadronito dell'intero sistema comunicativo, lo ha trasformato in una macchina schiaccia-cervelli, ha prodotto una mutazione psico-culturale definitiva per un paio di generazioni. E nessuno ha mai cercato di impedirglielo, meno che mai i governi di centro-sinistra che hanno ignorato la questione fondamentale: la questione della libertà di pensiero, che i fascismi passati cancellavano con la censura, e il nuovo potere cancella con il rumore<br />bianco. Berlusconi ha vinto tutto quello che si poteva vincere. Craxi gli ha fatto da tappetino negli anni '80, D'Alema gli ha fatto da tappetino negli anni '90, Prodi e Veltroni gli hanno fatto da tappetino negli anni 2000. Che altro volete che faccia il pover'uomo? I Moretti, i Di Pietro, i Travaglio continueranno a piagnucolare, ma il rancore retroattivo non servirà a cambiare l'irreversibile.<br /><br />Sono dunque i simboli che ci fanno paura? Ci dispiace che la gente gridi "Duce Duce"?<br />Lasciamo da parte i simboli e guardiamo alla sostanza: il governo Berlusconi del 2008 per i salariati sarà migliore del governo Prodi. Sarà meno subalterno agli ordini della Banca europea e meno tremante agli imperativi della Confindustria. Qualcuno dice che la destra italiana è pericolosa. Per quel che ne so io il primo Ministro degli Esteri che ha violato l'articolo 11 mandando gli aerei italiani a bombardare un paese sovrano con l'uranio impoverito, provocando morte e malattia non solo ai<br />bombardati ma anche a centinaia di soldati italiani, si chiama Massimo D'Alema, e nella geografia politica ufficiale starebbe a sinistra. E allora di cosa abbiamo paura?<br /><br />Il motivo profondo della paura non è stupido. Non lo vediamo perché operiamo quella che la psicoanalisi chiama "rimozione". Cerchiamo di non vedere la causa vera della nostra paura, che è il progressivo dispiegarsi di una catastrofe che sta ormai investendo la civiltà terrestre. Cerchiamo di non vedere gli effetti che il capitalismo liberista ha depositato nel cuore e nella mente dell'umanità, nella superfice fisica del pianeta, nella consistenza velenosa dell'aria. Abbiamo paura dell'impotenza della politica, dell'incapacità collettiva di arrestare o anche solo rallentare l'accumularsi della devastazione psico-fisica.<br /><br />Cerco di tirare delle conclusioni del mio ragionamento: quel che è successo<br />in Italia ha poca importanza. Non accadrà nulla di catastrofico. La<br />catastrofe non viene da quelli che hanno vinto le elezioni, ha cause più<br />profonde e dimensione molto più ampie. Di questo dobbiamo occuparci, non<br />del farsesco ritorno delle camicie nere. E per questo non serve a niente<br />recriminare, nè rimpiangere governi di sinistra che nulla fecero per<br />ostacolare la violenza del capitale. Non serve a niente neppure racimolare<br />quel che resta di un passato non molto glorioso per prepararsi alle<br />prossime scadenze elettorali. Quelli che pensano alle elezioni del 2013 mi<br />fanno ridere. Non tanto perché nel 2013 potrei non esserci, ma perché è<br />probabile che non ci sia più il mondo. Per lo meno il mondo come lo abbiamo<br />conosciuto nel corso dell'epoca moderna.<br /><br />Pensiamo alla prossima generazione. Cresce nel rumore bianco dell'ipermedia, mentre le strutture scolastiche della trasmissione di sapere stanno crollando, non solo perché sono private di risorse, ma soprattutto perché la mente docente non è più in grado di comunicare con la mente discente, per un problema di difformità tecnica, per incompatibilità dei formati. Affettivamente incapaci di fare comunità, culturalmente privi di difese critiche, tagliati fuori da ogni memoria storica, la nuova generazione è già oggi preda di un sistema basato sull'ipersfruttamento, la<br />precarietà, la violenza autolesionista. Negli ultimi dieci anni il cancro ai polmoni si è moltiplicato per tre volte nella popolazione delle grandi città. Polveri sottili e scorie tossiche come peste invisibile diffonderanno la malattia nella maggioranza della popolazione. La fame che negli ultimi cinquant'anni recedeva ora ha ripreso ad espandersi perché i Suv possano continuare ad inquinare.<br /><br />Un tempo dicevamo che la classe operaia combatteva una battaglia per i suoi interessi, ma che dall'esito di questa battaglia dipendeva il futuro di tutta l'umanità. Era vero. La classe operaia ha perso e con quella sconfitta è imploso il futuro di progresso dell'intera umanità.<br />Ricompattare l'esercito disperso del lavoro è un compito al quale non possiamo sottrarci, perché forse ci aspetta nel futuro una nuova stagione di lotta operaia. Ma non possiamo pensare che si ripresentino gli scenari novecenteschi del socialismo, perché il discrimine oggi è più radicale: da una parte c'è la libertà umana, dall'altra l'automatismo catastrofico dell'economia capitalista.<br />E' possibile affrontare questa problematica con gli strumenti della<br />democrazia rappresentativa, e le mitologie della sinistra storica? Credo di<br />no.<br />Ci sono altri strumenti che permettano di comprendere e di trasformare? Per il momento non mi pare che ci siano. Il primo compito è costruirli, non salvare qualcosa del passato.lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-35016385351516454332008-03-30T22:20:00.000+02:002008-03-30T22:21:10.040+02:00IL CAPITALISMO HA I GIORNI CONTATIIl capitalismo ha i giorni contati. Con l’avvento delle nuove “economie straccione” dei paesi emergenti (p. es. Cina, India), i capitali delle nazioni industrializzate sono dirette verso questi paesi, convogliando una quantità abnorme di investimenti nel nome del profitto. Ciò finisce per aprire ancora di più la forbice della disuguaglianza tra classi sociali più ricche e classi sociali più povere, spazzando di fatto la classe media o quello che ne resta.<br />In nome di questo capitalismo selvaggio stiamo assistendo, quali spettatori, ad un arricchimento ulteriore delle classi dirigenti ed industriali, sempre più marcato.<br />Da quindici anni a questa parte, un gran numero di imprese transnazionali chiudono (o nella ipotesi più benevola, riducono), gli impianti che si trovano nei paesi occidentali, per trasferirli (nel linguaggio più crudo), in questi paesi in fase di espansione. Un classico esempio è quello in cui noi consumatori acquistiamo prodotti fabbricati in questi paesi, aumentando conseguentemente la disoccupazione in occidente.<br />In teoria si dovrebbe creare sviluppo in questi paesi e dovrebbe migliorare il tenore di vita delle popolazioni, però purtroppo non è cosi.<br />Le domande che sorgono spontanee sono: quanto durerà tutto questo? Se le popolazioni arriveranno tra 20 anni al massimo, ad equipararsi alle nostre abitudini di consumo (avendo un PIL, disoccupazione e IPC come le nostre società), saranno anche esse sature? Che succederà dopo? A chi si destineranno i nuovi prodotti, oppure, ci sarà un bacino di utenze atto a ricevere o consumare questi prodotti?<br />Dovremmo cambiare sistema economico, senza ombra di dubbio. Già lo prevedeva Marx, nei suoi scritti.<br />I dati della povertà in aumento sono molto preoccupanti, soprattutto in quelle nazioni pioniere del capitalismo. Per la disoccupazione altrettanto si è in crisi, per non parlare dell’incremento dei lavori atipici o a tempo determinato.<br />Ormai siamo diventati pedine di questo sistema-scacchiere e ci daranno scacco matto!<br />Il problema cruciale è: Quale sistema adottare in alternativa al capitalismo?, quali saranno le regole di funzionamento di questo nuovo sistema?.<br />Come ha scritto lo storico Hobsbawn in un giornale recentemente: “I paesi industrializzati si vedono a trattare con questi paesi emergenti in condizioni di parità. Perciò il nuovo equilibrio riguarderà i rapporti tra le antiche potenze e quelle emergenti”.<br />Per concludere credo anch’io come Hobsbawn, che dovremo tornare all’illuminismo, iniziare a credere nel progresso umano, con la ragione, la trasmissione del potere e l’azione collettiva.<br />Battaglia Salvatore Brunolunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-58954449333822125542008-03-30T22:15:00.000+02:002008-03-30T22:18:39.632+02:0013 aprile: perché mi astengo<div align="left">Chi mi conosce sa quanto disprezzi la democrazia liberale, democrazia di classe o borghese, e però non sono mai stato astensionista per principio, votare si può sia pure per motivi molto strumentali. In passato a volte l’ho fatto, sia pure con lo spirito e l’ironia di una nota canzone di Giorgio Gaber sulla democrazia, ma il 13 e il 14 aprile prossimo non voterò neanche scheda bianca e invito tutti a fare altrettanto e in maniera particolare i lettori della nostra rivista “Crisi e conflitti”.<br />Una premessa generale: c’è un solo voto inutile o disperso, come disse Vittorio Foa nel 1976, quello dato contro i propri interessi e le proprie idee e siccome credo che nessun partito in Italia oggi sia di sinistra (né antagonista né riformista), votare per i partiti che prendono per i fondelli i lavoratori mi pare assurdo e masochista: non voto per farmi castrare. Si dirà che Foa oggi vota per il PD, ma io parlo del Foa del 1976, oggi Vittorio Foa parla come un vecchio e onesto liberale ottocentesco, nel ’76 era per me un maestro e adesso non lo è più. Questo è tutto.<br />Ovviamente il mio disprezzo, totale, verso i partiti che si dicono eredi di una tradizione riformista va documentato.<br />A) La sinistra Arcobaleno<br />Bertinotti ne è il leader, parla con la R moscia, porta occhialini penduli e cravatte di Marinella, un “parvenu” anche esteriormente, che teorizza essere in Parlamento “la Chiesa della democrazia” (l’ho sentito io stesso in televisione): asserzione questa che sa molto più di “sinistra clericale” che non di sinistra antagonista. Evidentemente intere biblioteche scritte sulla crisi della democrazia rappresentativa negli ultimi 35 anni gli sono ignote, come gli è ignoto il fatto che le istituzioni le fanno gli uomini e gli uomini in questione (i nostri parlamentari) sono sommersi da documentatissime analisi che testimoniano i loro privilegi e il loro malcostume, unito ad una oceanica ignoranza a partire dalla storia patria (vedasi le famose interviste delle Iene sulla “cultura” dei nostri parlamentari).<br />Ragionando più politicamente il Sig. Bertinotti è stato sostenitore del primo Governo Prodi, che ha lasciato perché non contava assolutamente niente; in seguito, nel 2006, la sinistra antagonista è tornata al Governo e ha continuato a non contare niente , ma questa volta il Governo l’ha fatto cadere Mastella. Per non passare per coloro che chiedono tutto e subito hanno accettato il principio del niente mai e del calarsi le brache sempre. Così nel 2006 hanno accettato un regalo di 9 miliardi di euro ai padroni senza che gli operai ottenessero nulla, hanno combattuto contro lo scalone pensionistico di Berlusconi (60 anni per pensionarsi) ed hanno ottenuto che, sia pure gradualmente, lo scalone venisse elevato a 61 anni: un risultato trionfale. Che io possa prendere in considerazione l’idea di votare per questa gente anche per i più strumentali motivi, mi pare fuori dalla realtà. Bertinotti, dunque, vada con il suo look (occhialini, R moscia e cravatte di Marinella) nei salotti di Montezemolo dove non c’è dubbio che verrebbe bene accolto<br />B) Il Partito Democratico<br />Diceva De Gasperi che la DC era un partito di centro che guardava a sinistra, il PD è senza dubbio un partito di centro , ma guarda a destra. La campagna di Veltroni è un modello di rincorsa verso l’elettorato di destra quello di Calderoli e Storace. La Repubblica del 27 febbraio 2008 (pag. 7) pubblica una dichiarazione del suo candidato (è noto che quel giornale sostiene Veltroni) in base alla quale se la castrazione chimica fosse scientificamente valida per combattere la pedofilia sarebbe accettabile; accettabile da Veltroni non da Casini che di lì a poco esprimerà il suo scandalo per un Veltroni che insegue Calderoli, paladino della castrazione, siamo evidentemente davanti ad un nuovo tipo di riformismo, il riformismo “castrante”. Questo signore ignora evidentemente che tutti i sistemi giudiziari anche i più efficienti hanno un tasso non indifferente di errori, ed è questo l’argomento fondamentale contro le pene mutilanti e la pena di morte. A tal proposito il noto giallista inglese Yollop durante la campagna che portò, circa trent’anni or sono, all’abolizione della pena di morte in Inghilterra, colpì l’opinione pubblica del suo paese dimostrando che in cinque casi dei quali nessuno dubitava , la pena di morte era stata applicata ad innocenti; si noti che a quell’epoca la pena di morte era applicata con il contagocce per cui cinque casi di innocenti sono tantissimi. Che accadrà se la castrazione verrà applicata ad un innocente? Gli trapianteremo le “guarnizioni” togliendole ad un cane? Non mi sembra giusto, neanche per il cane. Questo Paese ha avuto tra i suoi vanti l’illuminismo giuridico: uno Stato italiano preunitario ha abolito la pena di morte nel 1783 (Gran Ducato di Toscana) l’Italia unita l’ha abolita nel 1889: Veltroni con queste proposte non si mette sotto i piedi solo la storia del movimento operaio ma anche (qui il ma anche è d’obbligo) quella migliore della nostra borghesia.<br />Quando insegui Storace questo ti succede. <br />Nel campo economico Veltroni propone di lottare contro le disuguaglianze riducendo tutte le aliquote Irpef di un punto l’anno per tre anni. Facciamo un po’ di conti: un lavoratore con 20 mila euro lordi l’anno di reddito, avrà un incremento dopo tre anni del 3% pari a 600,00 euro; un signore che guadagna 150 mila euro otterrà anch’egli un incremento del 3% pari a € 4.500,00, le disuguaglianze in realtà cresceranno. Per ridurle bisognerebbe operare sgravi fiscali inversamente proporzionali al reddito e cioè dare di più a chi ha meno, ma questo sarebbe una insopportabile “forma di comunismo” per Veltroni, terrorizzato dall’idea non dico di somigliare a Lenin ma di somigliare vagamente a Roosvelt o a Keynes. Costoro amano definirsi riformisti per motivi che sinceramente mi sfuggono.<br /><br />La verità è assai semplice oggi, in Italia, non esiste nessun partito di sinistra, anche cautamente riformista, votare per costoro significa solo farsi prendere per i fondelli; naturalmente l’astensionismo non risolve il problema, ma pone la premessa minima per risolverlo e cioè l’acuirsi della crisi di consenso ad una democrazia rappresentativa che non rappresenta più nessuno (se non gli interessi forti fatti passare per interessi nazionali): per andare avanti bisogna sgombrare il campo dai cadaveri e questi partiti e questa democrazia mi sembrano appunto dei cadaveri, in avanzato stato di decomposizione.<br /> Antonio Carlo </div>lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-63895002777597611952008-03-28T08:16:00.001+01:002008-03-28T08:19:36.103+01:00il ' 68il ‘68<br />Molte cose si dicono, per meglio dire, si sprecano sul ’68. Certo che abbiamo avuto lo Statuto dei Lavoratori e la Legge sul divorzio, come pure la Legge quadro sulla Sanità.<br />Senza sopravanzare un giudizio positivo su questo periodo, che abbiano influito le lotte operaie è certamente vero, che si è trattato delle condizioni particolari dello sviluppo del capitalismo uscito dalla seconda guerra mondiale, pure è vero. L’opposizione tra chi forza il giudizio sul primo o sul secondo elemento è una questione ancora in discussione. Non tanto per il periodo storico preso in sé; anche se ha rianimato le attuali argomentazioni elettorali dei berlusconiani, tuttavia è ormai argomento degli storici. Interessano invece le implicazioni che sul piano dell’organizzazione operaia sono attinenti all’attuale situazione, specie se consideriamo il movimentiamo che anima molte organizzazioni senza che si metta al centro l’organizzazione degli operai in partito.<br />Il fatto che con lo Statuto gli operai non si sono liberati dallo sfruttamento, e che specie gli strati bassi che non lavoravano nelle fabbriche statali hanno pagato il più duro prezzo del Boom economico, è anch’essa una verità. Anzi, che quest’ultimi hanno rappresentato l’ultimo atto di distruzione del capitale nell’economia di sussistenza che trovavano nell’agricoltura, sradicandoli dai loro paesi e dalle loro famiglie per agglomerarli nelle grandi città industriali del mondo intero, per farli diventare gli antesignani della Legge 30, del pacchetto Treu, delle agenzie interinali e della repressione politica nelle fabbriche, ecc ecc., ci esime dal fare un’apologia e sostenere la tesi di un ’68 tutto operaio.<br />Oltre a tutti i diritti conseguiti coerentemente con lo sviluppo di una società capitalisticamente democratica, il ’68 segna anche l’aggancio della pensione al salario, ottenuta solo a seguito degli scioperi dell’autunno ‘69.<br />Ma, col ’68 si conclude un periodo e si compie anche il definitivo passaggio della guida dell’INPS nelle mani di Confindustria e Sindacati.<br />Se quest’ultimo approdo storico ci fa dire che si tratta di un esproprio di cui dobbiamo tener presente per come i sindacati odierni contrattano sulle pensioni, gli operai però possono ben dire che niente gli è stato regalato.<br />Anzi, se diamo uno sguardo a ritroso nella Storia sul problema della Previdenza Sociale, questo giudizio è più che confermato, perché non troviamo mai in primo luogo lo Stato, anche se le prime pensioni risalgono al 1812 per i dipendenti statali della Francia, e al 1873 per quelli dell’Inghilterra.<br />Per gli operai invece troviamo le Società Operaie di Mutuo Soccorso, la cui prima riunione ebbe luogo a Torino il 20 ottobre 1850, e il primo congresso si tenne ad Asti nel 1853.<br />Trenta società operaie, di cui quattro femminili, discussero delle questioni della vecchiaia, dell'invalidità, dell'assistenza alle vedove ed orfani degli operai.<br />Al sesto congresso discussero anche le questioni riguardante l'orario di lavoro. Fu il primo tentativo di parte operaia di usare queste associazioni per lo sciopero contro i padroni. Ma, avvocati e professionisti d'ispirazione democratico - liberale, accolti come soci onorari, si opposero con successo a questa tendenza degli operai. Vinsero questi borghesi paternalisti, sia per il ruolo di direzione che avevano assunto, sia soprattutto perché possedevano la “cultura”.<br />Al fine di scongiurarne il sovversivismo operaio permeato dalle prime idee socialiste, fu messo in atto da intellettuali dello stampo del Depretis il primo tentativo, non riuscito, di regolarizzare per legge tali associazioni.<br />L’avvocato Agostino Depretis, quasi sempre membro delle commissioni permanenti e sostenitore dei fini esclusivamente assistenziali, al congresso di Voghera del 1857, si fece promotore insieme ad altri della richiesta di regolamentazione legislativa da inviare al governo. Nel 1859 era già governatore di Brescia, e nel 1876 ebbe l’incarico di formare il suo primo governo, incarico che alternò a quello di ministro per diventare di nuovo capo del governo nel 1881.<br />Nonostante tutto, l'evoluzione dello scontro tra le classi impresso dalla pericolosità di un movimento operaio indipendente che rifletteva la nascita a Milano del Partito Operaio nel 1882, e le rivendicazioni, seppur annacquate, che seguirono con la nascita del PSI nel 1892, posero alla classe dei padroni e quindi allo Stato, la questione non più rinviabile della Previdenza Sociale.<br />Ma lo Stato il 15 aprile del 1886 si limiterà a riconoscerà per legge le Società di Mutuo Soccorso solo per fini assistenziali.<br />Il riconoscimento statale e l'unificazione delle società mutualistiche che seguirà, lungi dal rappresentare il buonismo del Re e del Parlamento, era solo lo specchio legislativo delle rivendicazioni e della pericolosità del movimento operaio. Benché annunciato teoricamente col Manifesto del 1848 e con la parte pratica avuta nelle insurrezioni contro i residui della vecchia società feudale, gli operai già avevano fatto presagire lo spettro della Comune di Parigi del 1871.<br />Infatti, l'INPS è fondato nel 1933, ma esso assorbì le competenze della Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali fondata nel 1919, la quale a sua volta subentrò alla Cassa Nazionale di Previdenza per l'Invalidità e la Vecchiaia degli Operai, fondata nel 1898. A ritroso vediamo soltanto i primi movimenti operai, ed in quest’arco di tempo si è realizzata la rivoluzione operaia del ’17 in Russia.<br />Tutto questo dimostra che la borghesia, con tutto il denaro che possiede quale mezzo per comprare chiunque, non potrà mai comprare l’intera classe degli operai, e il suo carattere sociale è fatto solo di paura per la miseria che genera, perché sa che gli operai non si lasceranno ridurre in una massa di diseredati, amorfa e senza futuro.<br />Elp 18-3-2008elpicahttp://www.blogger.com/profile/17542228884143665095noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-58244278567585249482008-03-28T08:02:00.000+01:002008-03-28T08:06:02.855+01:00il ' 68il professor Giulio Tremonti<br /><br />Nei dibattiti televisivi per la compagna elettorale è solito usare l’argomento che la sinistra è fatta sempre degli stessi uomini, lui sarebbe il nuovo, eh eh eh ehe .<br /><br />A metà degli anni settanta diventa docente di Diritto Tributario nell’Università di Padova, Macerata e Parma, e subito comincia a fare attività professionale in una società di consulenza e di intermediazione finanziaria, la Sem, nel cui consiglio di amministrazione entrerà il 12 giugno 1985.<br />Attraverso il meccanismo delle scatole cinesi, dalla Sem si giunge alla Eurogest, società che per prima, seguendo i finanzieri USA, introdusse la collocazione pubblica dei certificati di partecipazione a iniziative immobiliari: vengono definiti titoli atipici perché sono una specie di obbligazione che non garantiscono il rimborso del capitale investito. In quegli anni, oltre ad ottenere commissioni dal Vaticano, l’Eurogest, tramite una sua consociata, la Interpharos advisors, iniziò a fare affari anche sulla piazza di Mosca.<br />Negli anni ottanta Tremonti inizia a interessarsi di politica e collabora al Corriere della Sera per dieci anni, dal ’84.<br />Di famiglia liberale, si avvicina alle idee socialiste ed è candidato nel partito di Bettino Craxi alle politiche del 1987, ma già dal 1979 era consigliere dei Ministri delle Finanze, incarico che manterrà fino al 1990.<br />Lo sfaldamento della prima repubblica e la distruzione dei due maggiori partiti, la DC e il PSI, per mano della Magistratura, perché accusati e condannati per corruzione, vede Tremonti alleato di Mariotto Segni con quale viene eletto di nuovo deputato nel 1994. All’esaurimento di questo cartello elettorale – il Patto Segni- per via dell’avvento del maggioritario, Tremonti passa a Forza Italia e diventa Ministro dell’Economia e delle Finanze del primo governo Berlusconi, incarico che terrà fino al 2005.<br />Per anni è stato molto critico nei confronti dei condoni utilizzati dai vari governi della prima Repubblica: “ In sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge” ( dal Corriere della Sera, 25 settembre 1991).<br />Quando fu ministro, Tremonti varò i condoni, ricevendo anche una denuncia da parte della Unione Europea nel 2002.<br />Nel 2004 dovette dimettersi. I conti della finanziaria risultavano truccati. Mancavano due miliardi di euro tra il preventivo delle entrate e la riduzione reali delle spese. Alle critiche della sua stessa maggioranza rispose che si trattava di escamotage contabile.<br />Nel 2005 sarà richiamato d'urgenza per stilare la Finanziaria 2006.<br />Fonte <a title="http://www.wikimedia.it" href="http://www.wikimedia.it/">http://www.wikimedia.it/</a> e Internet<br /><br />Da economista di Berlusconi, a parte le fantasiose proposte di vendere le spiagge ai privati per 100 anni, o introdurre la pornotax del 25%, la proposta di stampare biglietti di carta da un euro anzicchè far circolare la moneta metallica, come vedremo, riconferma il suo ruolo di manipolatore economico. Certamente pensava alla differenza che esiste tra la carta stampata e il valore che indubbiamente contiene la moneta metallica.<br />Ma era un artifizio che fu rifiutato dagli organismi economici, perché quel valore stampato sulla carta avrebbe alterato il parametro di Mastricht del 3% tra deficit pubblico e Prodotto Interno Lordo.<br />Un artifizio che a Napoli avrebbe guadagnato l’appellativo di “Bancunaro” – erano faccendieri senza lavoro che dal dopoguerra, fino agli anni settanta, allietavano le feste di paese con baracconi dove venivano messi in palio pacchi in cui c’erano regali al di sopra del valore del biglietto di partecipazione, ma che nessuno mai vinceva – .<br /><br />Assieme a Berlusconi, che ha scoperto la nuova professione di Fachiro per risolvere i problemi dei lavoratori al grido di “Alzati Ali-Italia!”, formano una inossidabile coppia. Ma deve essere ricordato anche come l’inventore del meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef.<br />Studiato quand’era consulente del governo Craxi, sulle pagine del Sole 24 Ore dell'84, fu definito una mostruosità giuridica, perché assegna alla Chiesa cattolica anche donazioni non espresse. Infatti, il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille", ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse, il Vaticano si accaparra quasi il 90 per cento del totale.<br />Al momento il nuovismo di Tremonti non trova opposizione, perché la cosiddetta sinistra non ha il coraggio di confessarlo apertamente.<br />Difatti al protezionismo dichiarato di Tremonti che vede realisticamente il mercato pieno di merci cinesi, alle quali vuole porre limiti doganali, qual è la differenza che oppone la sinistra quando predica la ricerca scientifica per introdurre nelle merci più valore aggiunto? La differenza è che Tremonti, pragmatico com’è, vede il suo paese minacciato, mentre la sinistra che è più dialettica, vede il mercato mondiale e la possibilità di infrangerne la concorrenza con nuovi prodotti ad alta tecnologia, che possono funzionare come un monopolio con il quale drenare più ricchezza nello scambio con gli altri paesi.<br />Se questa è la differenza che li distingue nella politica verso i capitalisti concorrenti, resta un punto fermo tra loro: per gli operai deve esserci più produttività e salari sempre meno corrispondenti alla ricchezza che producono, ed una società che nel suo complesso va sempre più in basso.<br />È questo il destino cui vogliono indurre gli operai. Ma, una folta schiera di loro hanno più che compreso che le merci, pur rappresentando il terreno della concorrenza, all’opposto, possono anche rappresentare il terreno della loro solidarietà internazionale. Perché sono fatte dalle stesse persone: gli operai.<br />Allora per Tremonti finirà il bel tempo in cui poter fare battutine cui nessuno può rispondergli.<br />Elp 26-3- 2008elpicahttp://www.blogger.com/profile/17542228884143665095noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-74051991889293617272008-03-28T07:57:00.000+01:002008-03-28T08:02:49.717+01:00Il prof. Giulio Tremontijil professor Giulio Tremonti<br /><br />Nei dibattiti televisivi per la compagna elettorale è solito usare l’argomento che la sinistra è fatta sempre degli stessi uomini, lui sarebbe il nuovo, eh eh eh ehe .<br /><br />A metà degli anni settanta diventa docente di Diritto Tributario nell’Università di Padova, Macerata e Parma, e subito comincia a fare attività professionale in una società di consulenza e di intermediazione finanziaria, la Sem, nel cui consiglio di amministrazione entrerà il 12 giugno 1985.<br />Attraverso il meccanismo delle scatole cinesi, dalla Sem si giunge alla Eurogest, società che per prima, seguendo i finanzieri USA, introdusse la collocazione pubblica dei certificati di partecipazione a iniziative immobiliari: vengono definiti titoli atipici perché sono una specie di obbligazione che non garantiscono il rimborso del capitale investito. In quegli anni, oltre ad ottenere commissioni dal Vaticano, l’Eurogest, tramite una sua consociata, la Interpharos advisors, iniziò a fare affari anche sulla piazza di Mosca.<br />Negli anni ottanta Tremonti inizia a interessarsi di politica e collabora al Corriere della Sera per dieci anni, dal ’84.<br />Di famiglia liberale, si avvicina alle idee socialiste ed è candidato nel partito di Bettino Craxi alle politiche del 1987, ma già dal 1979 era consigliere dei Ministri delle Finanze, incarico che manterrà fino al 1990.<br />Lo sfaldamento della prima repubblica e la distruzione dei due maggiori partiti, la DC e il PSI, per mano della Magistratura, perché accusati e condannati per corruzione, vede Tremonti alleato di Mariotto Segni con quale viene eletto di nuovo deputato nel 1994. All’esaurimento di questo cartello elettorale – il Patto Segni- per via dell’avvento del maggioritario, Tremonti passa a Forza Italia e diventa Ministro dell’Economia e delle Finanze del primo governo Berlusconi, incarico che terrà fino al 2005.<br />Per anni è stato molto critico nei confronti dei condoni utilizzati dai vari governi della prima Repubblica: “ In sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge” ( dal Corriere della Sera, 25 settembre 1991).<br />Quando fu ministro, Tremonti varò i condoni, ricevendo anche una denuncia da parte della Unione Europea nel 2002.<br />Nel 2004 dovette dimettersi. I conti della finanziaria risultavano truccati. Mancavano due miliardi di euro tra il preventivo delle entrate e la riduzione reali delle spese. Alle critiche della sua stessa maggioranza rispose che si trattava di escamotage contabile.<br />Nel 2005 sarà richiamato d'urgenza per stilare la Finanziaria 2006.<br />Fonte <a title="http://www.wikimedia.it" href="http://www.wikimedia.it/">http://www.wikimedia.it/</a> e Internet<br /><br />Da economista di Berlusconi, a parte le fantasiose proposte di vendere le spiagge ai privati per 100 anni, o introdurre la pornotax del 25%, la proposta di stampare biglietti di carta da un euro anzicchè far circolare la moneta metallica, come vedremo, riconferma il suo ruolo di manipolatore economico. Certamente pensava alla differenza che esiste tra la carta stampata e il valore che indubbiamente contiene la moneta metallica.<br />Ma era un artifizio che fu rifiutato dagli organismi economici, perché quel valore stampato sulla carta avrebbe alterato il parametro di Mastricht del 3% tra deficit pubblico e Prodotto Interno Lordo.<br />Un artifizio che a Napoli avrebbe guadagnato l’appellativo di “Bancunaro” – erano faccendieri senza lavoro che dal dopoguerra, fino agli anni settanta, allietavano le feste di paese con baracconi dove venivano messi in palio pacchi in cui c’erano regali al di sopra del valore del biglietto di partecipazione, ma che nessuno mai vinceva – .<br /><br />Assieme a Berlusconi, che ha scoperto la nuova professione di Fachiro per risolvere i problemi dei lavoratori al grido di “Alzati Ali-Italia!”, formano una inossidabile coppia. Ma deve essere ricordato anche come l’inventore del meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef.<br />Studiato quand’era consulente del governo Craxi, sulle pagine del Sole 24 Ore dell'84, fu definito una mostruosità giuridica, perché assegna alla Chiesa cattolica anche donazioni non espresse. Infatti, il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille", ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse, il Vaticano si accaparra quasi il 90 per cento del totale.<br />Al momento il nuovismo di Tremonti non trova opposizione, perché la cosiddetta sinistra non ha il coraggio di confessarlo apertamente.<br />Difatti al protezionismo dichiarato di Tremonti che vede realisticamente il mercato pieno di merci cinesi, alle quali vuole porre limiti doganali, qual è la differenza che oppone la sinistra quando predica la ricerca scientifica per introdurre nelle merci più valore aggiunto? La differenza è che Tremonti, pragmatico com’è, vede il suo paese minacciato, mentre la sinistra che è più dialettica, vede il mercato mondiale e la possibilità di infrangerne la concorrenza con nuovi prodotti ad alta tecnologia, che possono funzionare come un monopolio con il quale drenare più ricchezza nello scambio con gli altri paesi.<br />Se questa è la differenza che li distingue nella politica verso i capitalisti concorrenti, resta un punto fermo tra loro: per gli operai deve esserci più produttività e salari sempre meno corrispondenti alla ricchezza che producono, ed una società che nel suo complesso va sempre più in basso.<br />È questo il destino cui vogliono indurre gli operai. Ma, una folta schiera di loro hanno più che compreso che le merci, pur rappresentando il terreno della concorrenza, all’opposto, possono anche rappresentare il terreno della loro solidarietà internazionale. Perché sono fatte dalle stesse persone: gli operai.<br />Allora per Tremonti finirà il bel tempo in cui poter fare battutine cui nessuno può rispondergli.<br />Elp 26-3- 2008elpicahttp://www.blogger.com/profile/17542228884143665095noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-34629870641794591762008-03-28T07:50:00.000+01:002008-03-28T07:56:45.252+01:00vita da operai<span style="font-size:130%;">Questioni d’inizio anno 2008: La vita degli operai.<br /><br /></span>L’anno che si è chiuso e quello che comincia ad incamminarsi verso primavera è stato costellato da innumerevoli casi di incidenti mortali sul lavoro. Ciò che è avvenuto alle acciaierie Thyssen, ha scoperchiato le responsabilità del mondo delle imprese. Le morti sul lavoro sono uscite dalla considerazione pubblicistica della marginalità delle piccole imprese. Con la Thyssen, ma anche con l’ILVA di Taranto, si è riaperta la questione del lavoro Killer, la media nazionale delle morti è passata da tre degli anni passati a quattro al giorno, la gravità sociale del fenomeno ha sommerso l’intero ambiente politico. E ciò conferma quanto da tempo abbiamo sostenuto sulla questione amianto: prima ti fanno sgobbare fino a rimetterci la vita, e solo dopo arriva qualche legge che tenta di arginare per ricondurre il fenomeno nelle compatibilità fisiologiche del sistema.<br />Nonostante questo, gli operai tornano al centro della scena.<br />Addirittura il segr. del PdCI Diliberto rinuncia alla sua candidatura nella lista Arcobaleno per far posto a Ciro Argentino, delegato sindacale della Thyssen. Un altro operaio è candidato nel PD di Veltroni, perché ha sposato in pieno la tesi che può esserci un accordo tra i produttori. Così ha definito Veltroni gli operai che mettono braccia e intelligenza, la quale, tranne brevi periodi storici, non è mai stata pagata, e i capitalisti che impiegano il loro capitale.<br />Ci può essere un accordo simile? Tranne ovviamente gli accordi di tipo sindacale, e non mi riferisco a quelli che firmano le attuali organizzazioni sindacali, perché niente posso aggiungere alla già matura critica che i lavoratori gli fanno, ma considero l’ipotesi di accordi migliori, ed anche in questo caso la risposta è NO! Non ci può essere un accordo tra il capitale e il lavoro.<br />L’ esempio di cui mi servirò per dimostrare l’infodatezza di questo accordo è tratto dalla discussione che K. Marx sostenne a Londra nel 1865, in una serie di conferenze dell’Internazionale Operaia da un anno appena fondata, il cui contenuto è stato pubblicato col titolo “Salario, Prezzo e Profitto”.<br />In quell’occasione Marx trattò vari argomenti:<br />1 - Dimostrò che l’aumento o la diminuzione del salario non intacca la legge del valore. In determinate condizioni di stabilità tra capitale e lavoro la merce prodotta ha sempre lo stesso valore. Per cui, la diminuzione o l’aumento del salario significano soltanto il relativo aumento o diminuzione del profitto, e non già la scomparsa di esso quale incarnazione della classe capitalistica e del suo “circolo infernale” dei prezzi e dei salari.<br />2- Precisato questo punto, come un principio da cui non si può deviare, passò ad esaminare la dinamica economico - sociale del capitale, i cui due elementi essenziali sono la concorrenza e la concentrazione.<br />3- Dalle conclusioni su questo secondo punto che illustrerò di seguito, Marx passò ad esaminare tutte le possibili azioni che gli operai potevano portare avanti sul terreno sindacale. Non le giudicò né insensate né irrealistiche. Anzi, dimostrò che esse erano una necessità da cui gli operai non potevano sfuggire, e che tutte le resistenze dei capitalisti, giustificate secondo la tesi che l’aumento dei salari faceva aumentare i prezzi, era infondata, e mirava a sfiancare gli operai nella loro lotta facendola apparire una cosa inutile. Ma avvertì che questo tipo di lotta non combatteva le cause della miseria degli operai, ma gli effetti di queste cause, e mise in guardia gli operai dalla inefficienza e dal modo con cui si portava avanti questa lotta, cioè mise in guardia gli operai sul modo irrazionale di come i sindacati organizzavano e gestivano la forza che essi mettevano in campo contro i padroni.<br /><br />L’operaio che avrà la pazienza e saprà sottomettersi a questo ulteriore sacrificio dello studio di questo piccolo libro, costaterà quanto siano attuali i giudizi e quanto siano preziose le indicazioni che Marx offrì alla lotta per l’emancipazione dallo sfruttamento.<br />Anche se una parte del contenuto di questo libro trova largo uso nella cosiddetta “politica dei redditi”, che con parole più roboanti quali “giustizia sociale” o “redistribuzione sociale della ricchezza”, viene presentata dai sinistri come ultima spiaggia, l’ulteriore sviluppo dell’analisi di Marx, di cui il punto 2 è la premessa, ci fa capire non solo che la politica dei redditi è un imbroglio dei padroni, benché si presenti con un lato positivo, ma scopriremo addirittura che in determinate condizioni si arriva alla sua stessa impossibilità.<br />Le condizioni attuali lo dimostrano a sufficienza. Alla insopportabile condizione economica dei lavoratori che in quest’anno fuoriesce dall’inferno della loro vita, la borghesia risponde accorgendosi della loro miseria. Non perché produttori espropriati della ricchezza che producono, per la quale si dovrebbe stabilire in via del tutto pacifica un aumento dei salari, ma perchè la loro miseria deprime i consumi e quindi la produzione industriale e la crescita economica della società. Quindi l’unica risposta che i capitalisti, con tutto il loro apparato borghese di politici e sindacalisti sanno offrire, è sempre di aumentare i loro profitti, perchè questo significa quando di pretende un nuovo aumento di produttività come unica possibilità di aumentare i salari, che come sappiamo sarà del tutto effimero.<br /><br />Ci può essere quindi un accordo tra gli operai e i padroni secondo quanto abbiamo specificato prima?<br />In quelle discussioni dell’Internazionale Marx giunse alla considerazione finale: ” La lotta fra capitale e lavoro e i suoi risultati”- pag. 105 libro citato, Editori Riuniti, va edizione, 1955-: […]. Con lo sviluppo della produttività del lavoro, l’accumulazione di capitale è molto accelerata,… Si potrebbe dunque concludere… che questa accumulazione… debba far traboccare la bilancia a favore dell’operaio, in quanto crea una domanda crescente di lavoro. […]. Ma parallelamente all’accumulazione progressiva del capitale ha luogo una modificazione crescente della composizione del capitale. Quella parte del capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione di ogni genere, aumenta più rapidamente di quell’altra parte del capitale che viene investita in salari, cioè per comprare lavoro. […].<br />Se inizialmente il rapporto tra questi due elementi del capitale era uno a uno, con il progresso dell’industria esso diventa cinque a uno, e via di seguito.<br />- Infatti, ndr - Se di un capitale globale di seicento, si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie prime, ecc., e trecento in salari, basta raddoppiare il capitale globale per creare una domanda di seicento operai invece di 300.<br />Ma se dello stesso capitale di 600, cinquecento parti sono investite in macchinari, materie prime, ecc., e soltanto 100 in salari, questo capitale globale deve salire da 600 a 3600 per creare una domanda di 600 operai invece che di 300. Con il progresso dell’industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l’accumulazione del capitale. Essa aumenterà indubbiamente, ma in proporzioni continuamente decrescente rispetto all’aumento del capitale. […]. Queste poche indicazioni basteranno per mostrare che proprio lo sviluppo dell’industria moderna deve far pendere la bilancia sempre più a favore del capitalista, contro l’operaio, e che per conseguenza la tendenza generale della produzione capitalistica non è all’aumento del livello medio dei salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più basso.<br />Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, ciò significa forse che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e disperati a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto.[…].<br />Credo di aver dimostrato che le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l’aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità di lottare contro il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come merce. […]. Nello stesso tempo la classe operaia, …non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. […], che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dalle oscillazioni del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera, ed è nello stesso tempo gravido delle condizioni materiali e delle forme sociali necessarie per una trasformazione e ricostruzione economica della società. Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un salario giusto per un giusto lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera la parola d’ordine rivoluzionaria: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”. […].<br /><br />Ma perché lo sviluppo dell’industria fa pendere la bilancia a favore dei capitalisti e contro gli operai?<br />L’esercito industriale di riserva<br />K. Marx<br />da - Il Capitale, vol. I Editori Riuniti 1997 pag. 688 / 701.<br />e - Il Capitale, Newton Compton Editori 1976, pag. 853 / 852 -<br /><br />[…]. L’accumulazione del capitale, che all’inizio appariva come una sua estensione quantitativa, si realizza, come abbiamo visto, attraverso un costante cambiamento qualitativo della sua composizione, in un costante aumento della sua parte…costante - fissa - a spese di quella variabile - salari -. […]. L’accumulazione capitalistica…produce in continuazione, ed esattamente in rapporto alla propria energia e alla propria entità, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente alle esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua ossia supplementare. […]. Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione, ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa a sua volta la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico.<br />Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione del capitale il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]….per godere di un libero gioco, per avere mano libera… […].<br />L’esercito industriale di riserva, …. è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e della offerta del lavoro. […]. Quelli che vengono resi liberi, non sono soltanto gli operai soppiantati direttamente dalle macchine, ma in egual misura anche i loro sostituti regolari e il contingente addizionale, che viene di solito assorbito regolarmente quando l’impresa si estende sulla vecchia base - della composizione del capitale, cioè della ripartizione tra capitale fisso e capitale variabile n.dr. -. […].<br />Che assuma questi o altri operai, l’effetto sulla domanda generale del lavoro sarà uguale a zero, fintantoché questo capitale sarà esattamente sufficiente a liberare il mercato di quello stesso numero di operai che le macchine vi hanno gettato.<br />Se esso ne occuperà un numero minore, la massa degli operai in soprannumero crescerà; se ne occuperà un numero maggiore, la domanda generale del lavoro crescerà soltanto dell’eccedenza degli operai occupati su quelli “messi in libertà”.[…].<br />Il che significa quindi che il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che l’aumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro. […].<br />Quindi, non appena gli operai penetrano il mistero e si rendono conto come possa avvenire che, nella stessa misura che lavorano di più, …. perfino la loro funzione di valorizzazione del capitale diventa più precaria per essi; non appena scoprono che il grado d’intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della popolazione relativa; non appena quindi cercano mediante Trade Unions, ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe, - il capitale, e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della “eterna” e per così dire “sacra” legge della domanda e della offerta.<br />Ogni solidarietà fra operai occupati e quelli disoccupati turba infatti l’azione “pura” di quella legge. Non appena,…circostanze avverse impediscono la creazione dell’esercito industriale di riserva e insieme impediscono la dipendenza assoluta della classe operaia dalla classe dei capitalisti, il capitale si ribella…contro la “sacra” legge della domanda e della offerta e cerca di raddrizzarla con mezzi coercitivi. […].<br /><br />La risposta degli operai:<br />Se gli scioperi hanno più che dimostrato una tendenziale forza d’urto, per come sono portati avanti dalle centrali sindacali, si dimostrano invece del tutto svilite. Per questo è necessario che agli scioperi deve seguire una Coalizione degli Operai. Per le questioni finora toccate molto alla larga per dimostrare quanto è illusorio, ma anche quanto sia banditesco proporre in politica degli operai che si fanno portavoce di simili sciocchezze, il processo di unità operaia, pur vertendo sui caratteri di difesa, non può prescindere dalla necessità di incamminarsi verso la realizzazione più piena e sempre più fondata di un Partito politico indipendente degli operai.<br />Perché ai due operai della Thyssen voglio porre la seguente domanda: se invece di questioni legate ai salari e alla distribuzione sociale della ricchezza, che è bene sempre precisare che sono gli operai stessi a produrla, dovremmo discutere, ad esempio, dei materiali che si usano nella produzione, come pure dei processi chimici e tecnologici, che sappiamo hanno prodotto e produrranno nel prossimo futuro la morte per gli operai, che per l’Europa si aggira su 200 mila nuovi casi mortali, come il solo caso amianto dimostra, che spazio avrebbero le loro illusioni benché mosse da nobile intento?<br />Affinché la vita degli operai fuoriesca dalla casualità, è necessario che siano essi stessi padroni del ciclo produttivo. Un materiale che è nocivo per la salute o non si mette in produzione, oppure, se è necessario, lo si adopera con le migliori precauzioni possibili, e ciò nella società capitalistica, per il profitto che vi deve dominare, può avvenire sempre fino ad un certo punto. Perché la necessità è sempre il regno della schiavitù, e soltanto con il potere degli operai può accadere che sia relegata nelle cose inservibili, man mano che cresce il loro potere di indurre anche la scienza verso programmi dal contenuto sociale, anzicchè dal lato della utilità e profittabilità privata.<br />Da questo punto di vista è quanto mai risibile l’entrata di questi nuovi apostoli operai nell’arena famelica della politica borghese.<br />Perché se uno si domanda quali sono i mezzi coercitivi di cui Marx parla per raddrizzare la legge capitalistica della domanda e dell’offerta del lavoro, scoprirebbe che essi sono il protezionismo economico fino al fascismo interno e l’imperialismo esterno che stiamo vedendo in Palestina, in Iraq, in Afghanistan, in Cecenia. A questi mezzi pratici non si può opporre né l’egemonia basata sulle chiacchiere, né l’opinione pubblica pacifista, che, benchè sarà chiamata a svolgere un ruolo, esso lo potrà avere soltanto in presenza di una rottura rivoluzionaria in un punto del mercato mondiale. Ed è in quest’ottica che deve essere indirizzato il lavoro della formazione del Partito politico indipendente degli operai.<br />Elp. 15/16 – 3 - 2008elpicahttp://www.blogger.com/profile/17542228884143665095noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-40941963122115139052007-12-31T12:20:00.000+01:002007-12-31T12:21:45.129+01:00Amianto dalla CinaDa Elpica<br /><br />Trovato amianto nei thermos cinesi. La notizia divulgata dal TG 1 de 13 luglio scorso, arriva dalla direzione generale per “l'Armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori” presso il ministero dello sviluppo economico. I Nas e le ASL competenti ne ha sequestrato un notevole quantitativo.<br /> Indubbiamente è la concorrenza che costringe a tenere sotto pressione i prodotti cinesi, ma il motivo ufficiale è che i thermos contengono delle pasticche di Amianto, la cui funzione di attutire la differenza della temperatura interna/esterna evita che il contenitore di vetro si rompa, conferendo così alla merce un valore d’uso senza il quale non vi sarebbe valore di scambio. La motivazione ufficiale, con tanto di servizio televisivo, ha dato ai lavoratori la “certezza” che militari e sanitari fanno osservare la legge, cosa che invece è stata mille volte disattesa nei cantieri e nelle fabbriche; in questo caso è la n° 257 del 1992 che ha bandito l’uso e la commercializzazione dei prodotti che contengono amianto.<br /> Numerose sono le volte che abbiamo scritto sulla questione, sia per l’aspetto della controinformazione sulla verità della pericolosità di questo materiale, la quale risale al ben lontano 1935, quando gli studi epidemiologici negli USA ne confermavano la relazione con il tumore della pleura – il mesotelioma -, sia soprattutto per organizzare movimenti di operai contro l’amianto.<br />Le cronache delle sentenze che gli operai stanno riuscendo a strappare, in quest’ultimo periodo, se da un lato non riuscirà mai a far giustizia della loro morte prematura, di sicuro dimostrano una capacità di critica alle organizzazioni politiche e sindacali, che, per quanto sia risultata limitata, ha dato un preciso segnale alla necessità di non delegare a nessuno i propri interessi, specie ora che non c’è la necessità per il capitalismo di confondere le ristrutturazioni degli esuberi con la salute degli operai.<br /> La notizia che viene dai prodotti cinesi, se da un lato può far comprendere cosa sia lo sviluppo capitalistico e le sofferenze che gli operai cinesi saranno costretti a patire, ripropone nel nostro paese la domanda: perché l’amianto è stato bandito per legge dello Stato?<br />La risposta di chi interpreta il marxismo secondo lo schema della riproduzione semplice, quindi delle contraddizioni che insorgono tra gli operai e il capitalista o tra questi e il costo delle materie prime, non può rispondere a questa domanda, gli basta ribadire che l’amianto è stato sostituito perché non più economico. Per cui lo Stato è ridotto ad esecutore politico di un interesse particolare, quello dell’industria dell’amianto. Così gli interessi collettivi della classe dei capitalisti, nonostante che si facciano concorrenza tra loro spariscono, e non possono assumere nessun significato, poiché, ciò che nella concezione precedente si è annullato è stato proprio il meccanismo della produzione e riproduzione allargata del capitale, che per il suo carattere sociale non può esistere senza lo Stato, e lo Stato non ha ragione di esistere senza rapporti sociali in perenne contraddizione tra l’interesse privato e ricchezza sociale.<br />L’impostazione, nella versione economicista, che vuole spiegare la sostituzione dell’amianto dai processi produttivi perché sarebbe diventato più costoso nei confronti dei materiali che l’hanno sostituito, non regge. Perché, se ciò fosse vero, il materiale sostitutivo dell’amianto si imporrebbe sul mercato in modo spontaneo, cioè senza l’intervento dello Stato.<br />Ci sono dati, anche se risalgono al 2003, che confermano, a dispetto della tesi economicista, che l’amianto è tuttora prodotto e utilizzato. Infatti, tra i principali paesi produttori extraeuropei, insieme a Russia e Cina, che hanno sfornato rispettivamente 700.000 e 450.000 tonnellate, c'è il Canada, che con le sue 335.000 tonnellate prodotte ha mobilitato la sua diplomazia per far pressione all’Europa per ripristinare l’uso dell’amianto, e con ciò stesso sconfessando anche l’altra tesi a sostegno dell’economista, cioè che i costi di trasporto contribuirebbero a fare dell’amianto un materiale più costoso di quelli sostitutivi.<br />Fu nel 1998, a sei anni di distanza dalla legge italiana e su proposta dei Paesi Bassi, che la maggioranza dei paesi della Comunità Europea (dodici su quindici) si pronunciò a favore della proibizione totale dell’uso dell’amianto. Gli stati membri che votarono contro furono: Grecia, primo produttore europeo d’amianto, Spagna e Portogallo grandi utilizzatori di questo materiale.<br />Ritornando alle notizie che ci vengono dai thermos cinesi, gli industriali di quel paese sarebbero degli stupidi, perchè utilizzerebbero un materiale più costoso, altamente nocivo, e premessa di futuri contrasti con gli operai.<br />La notizia però più importante è quella che riguarda i profitti derivanti dalla produzione dell’amianto, che a nove anni di distanza della legge 257 pur ci sono ancora, anche se in oscillazione per i timori che generano i riconoscimenti delle patologie, ci è offerta dall’articolo del Sole-24 Ore dell’11 dicembre 2001:<br /> “ In scivolata sull’amianto<br />Zurigo. Proseguono i cambi al vertice di Abb, che lanciano ombre sul futuro del colosso di engineering. Peter Voser, sarà, dal secondo trimestre 2002, il nuovo responsabile finanziario del gruppo svizzero-svedese ed entrerà a far parte della commissione esecutiva della holding. Voser, che ricopre attualmente la stessa carica nella Shell Worldwide Oil Products, rimpiazzerà Renato Fassbind. Il cambio arriva a poche settimane dalle dimissioni a sorpresa del presidente “storico” Percy Barnevik, l’artefice della nascita del colosso europeo dalla fusione tra la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri nell’88. Ma a far scivolare le quotazioni di Abb, che, dopo aver perso oltre il 10%, hanno chiuso a Zurigo a 17,30 franchi (- 8,22%), sono stati anche i timori legati all’amianto. Le preoccupazioni sono state innescate dalla caduta a picco dei rivali americani della Halliburton, che hanno perso il 40% venerdì e ieri un altro 15% sull’onda dei rischi finanziari legati alle richieste di risarcimenti correlati all’utilizzo dell’amianto.”<br />Come si può notare, le cifre sull’andamento dei profitti azionari legati all’amianto, anche se mostrano una diminuzione a causa dei risarcimenti che gli operai richiedono, dimostrano che l’amianto è un materiale ancora in uso perché ancora economicamente insostituibile.<br />I padroni sono costretti ad abbandonarlo non “Quando il costo dell’amianto diventa troppo alto, sarebbe un fatto che come sempre si impone in modo spontaneo all’interno della concorrenza tra i capitalisti, il che non solleverebbe grossi problemi alla critica, se non quella di criticare a posteriori una merce, e quindi un valore d’uso per il modo storico in cui è stato prodotto.<br />Invece i padroni italiani hanno abbandonato l’amianto solo dopo aver mietuto tante vittime e malattie da risarcire, ma soprattutto solo dopo aver trovato di fronte gli operai con una volontà d'azione.<br />E, questi padroni sono stati costretti dallo Stato, perché troppi risarcimenti doveva pagare. Per gli industriali fu una costrizione vantaggiosa, perché con la scusa dell’amianto lo Stato gli regalò migliaia di miliardi per le ristrutturazioni.<br />Se in altri paesi si continua non solo ad estrarlo, ma addirittura a lavorarlo, non sarà l’umanità dei padroni o del loro Stato a vietarne la lavorazione, né tantomeno la fantomatica esistenza di un materiale sostitutivo più economico, ma la situazione della lotta che gli operai e i lavoratori possono condurre su questa questione. <br />Elp 30 luglio 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-74474017084353044072007-12-31T12:16:00.000+01:002007-12-31T12:17:28.474+01:00Alcune riflessioni sulla lettera aperta inviata dai compagni della Rete dei Comunisti.Da Elpica<br /><br />La sinistra \arcobaleno nasce subalterna …….perchè era già subalterna.<br />Chi crede che non lo era deve fare i conti con alcuni problemi: ha di frontea sè una storia di compromessi politici e cedimenti sindacali, una montagna di falsificazioni teoriche e di abiure storiche che necessitano delle risposte. In esse si vedrà che non c’è nessuna Montagna né tantomeno dei Montagnardi che lottano contro i Girondini, e che il topolino che partorisce non è altro che un nuovo Danton.<br />Ripercorrere la breve storia della nascita del PRC sarebbe un defatigante impegno che penso sia meglio evitare. Perché, più di ogni altra ricerca che evidenzierebbe geneticamente le premesse teoriche ed il blocco sociale di cui era espressione, le conclusioni cui è giunto insieme ai verdi e alla sinistra dei DS sono per i lavoratori e i tanti militanti il più bell’insegnamento. Anche se si è fregiato dell’appellativo "comunista, su cui ancora qualcuno si oppone alla sua scomparsa, ciò che si formato ed ora si coalizza in questa cosa rossa è il comunismo borghese.<br />Anche se ricacciato nella sua storica collocazione e per questo un pò recalcitrante ma pur senza smentire la sua vocazione governista, esso rimane quello che è: partito di riserva del capitale collocato a sinistra, per tenere a freno le contraddizioni che spingono i lavoratori alla coscienza e alla organizzazione rivoluzionaria, per sabotarne la necessaria possibilità di rovesciare gli attuali rapporti di produzione e di scambio. In sostanza rimane quello che fu il vecchio riformismo, balbuziente con la proprietà privata, romanticista verso le capacità demiurgiche dello Stato borghese.<br />Se la critica dovesse fermarsi a quanto dice Giulio, per il quale: "la gravità della situazione e la sua deriva continua richiede una rinuncia a dogmi e velleità integraliste per affrontare in maniera propositiva, concreta e ampia (perché ampia è la platea che ne è colpita) i problemi della precarietà del lavoro, del reddito, della casa, dell'istruzione, dei diritti civili", sarebbe priva di significato.<br />Perché alla fine non è chiaro di che cosa si tratterebbe; se fare una nuova organizzazione politica un po’ più di sinistra o qualcos’altro di non meglio precisato. Se teniamo però conto che le questioni accennate rappresentano gran parte del programma del sindacalismo alternativo, la faccenda si ingarbuglia alquanto, riportandola proprio al punto da cui hanno iniziato Cossutta e Bertinotti, con il primo, mosso dalla simbologia ideologica che riportava la memoria allo Stato Sociale con un corposo retroterra elettorale, ed il secondo mosso dalla velleità di riscossa dei salari senza colpire i profitti, ma salvando, con quindici anno di anticipo, il maggior sindacato dalla crisi di rappresentanza che ora lo investe più in profondità.<br />Se con la condivisione di una parte della lettera aperta promossa dai compagni delle Rete dei Comunisti, si può giungere a ripetere un film già visto, credo che le questioni vadano scritte in modo più stringato e senza lasciare nessuno alla libera interpretazione.<br />La critica può invece significare tutto, se, rivolta agli attuali rapporti di produzione e di scambio giunge, per la sua coerenza, a collocare una folta schiera di militanti nella posizione inconciliabile con il capitalismo. In caso diverso non dovrebbe esserci niente di cui scandalizzarsi. Infatti, se finanche la borghesia è interessata a risolvere i suoi mali senza metterne in discussione i rapporti di produzione e la dinamica economico-sociale su cui regge il suo potere, perché dispiacersi per i tanti panni sbiancati che sono in circolazione?<br />Penso che un dibattito che non tenga conto di questa ultima affermazione èsubalterno esso stesso ai panegirici che ci propina la politica borghese. Anzi, per chi è convinto della necessità storica di rovesciare l’attuale piramide sociale, una presa di posizione del genere, che può sembrare in sé indifferente se non anche rozza e priva di dialettica, è la sola che ci permette di iniziare un cammino autonomo e indipendente, senza stracciarsi le vesti per quanti non lo fanno.<br />Ed è a partire da qui che anche le battaglie di cui parla Giulio, ammesso che possano trovare soluzione negli attuali rapporti sociali sempre più lacerati dalla crisi economica e dalla sete di profitto, possono essere combattute sul loro connaturato terreno anticapitalistico, oppure come fisiologici aggiustamenti del sistema.<br />Su questa nuova aggregazione politica pesa soprattutto la necessità che venga lasciato per sempre, anche se ora lo fa solo nominalmente, ogni riferimento al comunismo teorico. Perchè, come espressione della liberazione degli operai dallo sfruttamento capitalistico, li compromette continuamente col capitale nei confronti del quale si sono legittimati come forza governativa. Infatti, al pensiero di liberazione degli operai, non basta più nemmeno commemorare la Russia del ’17 senza dire che ciò ha significato anche capitalismo di stato.<br />In secondo luogo sta la riforma elettorale col suo sbarramento percentuale che renderà impossibile la rappresentanza parlamentare che non prenda voti sufficienti.<br />Ma c'è dell'altro ancora nella nascita di questa cosa rossa, che è tutto a suo discapito. Certo è che loro pensano alla propria esistenza e si assemblano, ma sarà sempre più problematica la loro vita futura. Una della cause, oltre all’incedere della crisi capitalistica con i suoi inconciliabili risvolti sociali, è proprio il ricongiungimento dei loro differenti approcci alla realtà.<br />Infatti, se il riformismo, storicamente posizionato dentro i rapporti borghesi di produzione e di scambio, ha potuto essere anche espressione dell’utopica distribuzione equa del reddito facendo pure un po’ la voce grossa sul salario nelle condizioni di sviluppo del capitale, ora che si unisce con i verdi che sono alla rincorsa di un equilibrio tra questi primi e fondamentali rapporti con la natura, per loro, come anche per gli ecologisti, saranno tempi duri e banco di prova per le più belle ed inconcludenti proposte universalistiche con le quali credono di poter mettere d’accordo il lavoro con l’ambiente, senza eliminare l’appropriazione privata del plusvalore.<br />Sarà un caso, oppure è proprio il capitale, che, giunto all’apice del suo sviluppo rimette il comunismo nella sua espressione umana? Staremo a vedere.<br />Intanto i comunisti senza partito rappresentano un anacronismo se non anche un po’ di folclore, fanno tanto male a se stessi e al comunismo da essere un fatto inaccettabile.<br />Se c’è un ultimo insegnamento che dobbiamo ricavare è quello di finirla col metodo di dire cose che non si intendono o lasciare intendere cose che non si dicono.<br />L’indipendenza politica e il programma comunista sono tracciati nel Manifesto del 1848.<br />Elp 10- 12- 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-36545152153923070662007-12-31T12:13:00.000+01:002007-12-31T12:16:06.051+01:00La repressione contro gli operai ad un punto di svolta: perché…..Da Epica<br /><br />Dalle manifestazioni dei Consigli di Fabbrica dei primi anni ’90, che fecero indietreggiare l’attacco contro le pensioni, salvando una parte consistente degli operai e dei lavoratori allora in forza, sono trascorsi quindici anni. Anni in cui operai più giovani hanno rimpiazzato, in numero oltrechè minore, gli operai andati in pensione, ma ad un tasso di produttività maggiore di quello che si poteva ottenere con lo stesso numero.<br />Il sistema pensionistico pensato dal Sg. Dini - è bene ricordare che fu il capo di un governo per la cui maggioranza il PRC dovette elaborare la prima scissione. Un drappello di parlamentari amici di Garavini, ex Segrt. Reg. Fiom-Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta alla Fiat nel 1980, appoggiò il governo in nome dello spauracchio di Berlusconi.-, le cui invariate e sostanziali proiezioni sociali, insieme all’accordo del ’93, alla legge Treu e alla legge 30 in materia di mercato del lavoro, fanno sempre più sentire le loro ricadute negative sulle generazioni più giovani dei lavoratori.<br />Quindici anni di lotte, anche dure, in cui gli operai hanno fronteggiato i padroni fabbrica per fabbrica, ed i lavoratori impoveriti il governo nelle piazze, ma hanno anche sperimentato sulla propria pelle due sostanziali questioni, mentre oggi un’altra si affaccia sempre più potente.<br />La prima è il risultato di queste lotte, nonostante i sacrifici consumate in esse. In generale, non è esagerato affermare che risultati veri e propri non ne abbiamo portato a casa nessuno, e che, anche quel poco che si è riuscito a strappare è stato sempre quello predeterminato dalla concertazione pubblicamente dichiarata, o stabilita nel segreto delle loro riunioni.<br />La seconda questione è rappresentata da come la repressione si è scatenata contro i vari livelli delle lotte, sia dalle aziende in prima persona, sia dalle centrali sindacali contro i suoi stessi militanti per la loro opposizione agli accordi con la confindustria, o tra il sindacato e le singole aziende.<br />Prima di passare alla terza questione, che a mio parere è imperniata attorno alla necessaria possibilità di generalizzare le lotte, credo sia utile ragionare attorno a questi due primi aspetti.<br />La repressione delle lotte è avvenuta come tradizionalmente ci hanno abituati a constatare sia i padroni che il riformismo negli anni addietro: da una parte l’azienda con le sue provocazioni interne ed esterne alla fabbrica, dall’altro le organizzazioni politico-sindacali che isolavano con vari provvedimenti disciplinari, o con campagne mediatiche, le avanguardie dalla massa in movimento.<br />Ne citerò alcune di queste lotte e della repressione che subirono, perchè a mio parere esemplari, non solo per il momento in cui si svolsero, dato che poco tempo prima la classe operaia veniva data a furor di popolo e dallo stuolo dominante degli intellettuali per scomparsa, integrata o addirittura dormiente, ma anche per il fatto che in quelle lotte già si intravedevano problematiche più fresche su cui oggi è più accesa la discussione.<br />In merito al rapporto tra gli operai, il sindacato e la contrattazione, c’è da ricordare i 16 operai della Piaggio di Pontedera, di cui alcuni anche RSU, espulsi e sospesi a fine luglio 2004 dal loro stesso sindacato, la Fiom di Pisa.<br />La lettera che segue, di cui a monito dei lettori riporto la notizia che non fu pubblicata né da Liberazione e né da Il Manifesto, con la quale gli operai contestavano la repressione subita, tranne che per la collocazione organizzativa implicita alla continuazione della battaglia, cioè dentro o fuori i maggiori sindacati, nella sostanza contiene punti identici a molte situazioni di lotta e di contestazioni operaie.<br />Solo per rimanere in ambito Fiat, basta ricordare le contestazioni del 2006 alla Fiat di Pomigliano contro il contratto cui seguì il licenziamento di alcuni militanti dello Slai-Cobas, e quella contro i provvedimenti burocratici congiunti contro delegati RSU a Mirafiori che lasciarono il Sin.Cobas; le motivazioni sono sempre le stesse e la lettera che riporto le coglie pienamente.<br /><br />“L'espulsione di undici tra delegati e lavoratori e la sospensione di altri cinque è un fatto senza precedenti nella storia della CGIL, ed è necessario che tutti possano conoscere i fatti che stanno dietro una simile decisione. Veniamo accusati di aver pubblicamente e sistematicamente contestato, con interventi in assemblea, volantini, promozione di agitazioni, nientemeno che la linea sindacale della Segreteria provinciale di Pisa della FIOM.<br />Perchè l'abbiamo contestata? Chi conosce la storia sindacale alla Piaggio negli ultimi anni sa bene che dal '95 una serie di accordi tra OO. SS. provinciali e Azienda ha introdotto alla Piaggio forti aumenti dei ritmi di lavoro, oltre 2000 licenziamenti, uso abnorme del lavoro stagionale, flessibilità e sabati lavorativi, senza aumenti salariali. In particolare, il metodo dei tempi di lavoro TMC2, ben noto perchè alla base della rivolta di Melfi, è stato introdotto alla Piaggio da un accordo aziendale del 1995. La sua applicazione, anche di fronte alla resistenza operaia,è stata possibile solo grazie al sostegno delle OO.SS. provinciali, in particolare dalla FIOM.<br />Questo ha portato dal '95 a oggi a una serie di accordi, che hanno autorizzato la stagionalizzazione della produzione, con l'uso massiccio del lavoro precario e dei sabati lavorativi e hanno acconsentito ai licenziamenti generati dai forti aumenti di produttività conseguenti agli aumenti dei ritmi di lavoro.<br />Nell'ultimo anno, con l'arrivo alla Piaggio di Colaninno, la disponibilità della FIOM provinciale ad ulteriori concessioni all'azienda si è tradotta nella sigla di un accordo integrativo che riduce al minimo gli aumenti salariali, assenti in Piaggio da nove anni, condizionandoli interamente agli obiettivi aziendali, conferma l'applicazione del TMC2, introduce la legge 30 e reimpone i sabati lavorativi, che le lotte operaie avevano resi impraticabili negli ultimi tre anni.<br />L'accordo è stato approvato a maggioranza strettissima, solo grazie al voto favorevole degli impiegati, in un Referendum fuori delle regole (per es., solo quattro rappresentanti del NO, venti del SI, su otto seggi, un rappresentante del NO e cinque del SI in Commissione elettorale).<br />Tutto questo stracciando la piattaforma precontrattuale, dai contenuti diametralmente opposti, approvata lo scorso Settembre dai lavoratori a larghissima maggioranza nel quadro delle iniziative della FIOM contro gli accordi separati di FIM e UILM sul contratto nazionale e condraddicendo apertamente tutte le posizioni e gli obiettivi della FIOM nazionale su TMC2, legge 30, flessibilità e salari.<br />In questi anni noi ci siamo fatti interpreti della resistenza operaia, che si è espressa all'inizio con scioperi di reparto e ha nel tempo consolidato un gruppo di lavoratori e delegati FIOM, circa la metà dei 17 FIOM nella RSU prima del suo rinnovo nello scorso Novembre. La continua crescita del sostegno operaio alle nostre posizioni ha determinato negli ultimi anni uno scontro aperto in fabbrica con la Segreteria provinciale della FIOM.<br />In Ottobre le dimissioni dei delegati FIOM legati alla segreteria provinciale hanno anticipato il rinnovo della RSU. Le elezioni sono state gestite da una commissione di sole quattro persone, nominate dalle segreterie provinciali di FIOM FIM e UILM e UGL, col disprezzo di ogni regola e garanzia (assenza in tutti i seggi degli elenchi dei votanti, divieto ai componenti dei seggi di siglare le schede elettorali, siglate solo della Commissione elettorale, che ha rifiutato di indicarne il numero totale, urne facilmente manomettibili e nella disponibilità della sola Commissione per lunghi periodi, in particolare per quattro ore tra la fine delle votazioni e l'inizio dello scrutinio, durato cinque giorni, rifiuto totale, anche a formale richiesta, di accesso ai verbali). [.....].<br />Dall'inizio dell'anno sono stati compiuti una serie di atti arbitrari nei nostri confronti, tra i quali l'allontanamento sostanziale dalle trattative per il contratto integrativo, l'esclusione, contro il regolamento, della nostra lista dal Congresso provinciale della FIOM, e infine la richiesta, da parte della Segreteria provinciale alla CGIL regionale dell'avvio del procedimento disciplinare che si è concluso con 11 espulsioni e 5 sospensioni.<br />Sembra una commedia dell'assurdo: noi che abbiamo rivendicato gli obiettivi della FIOM nazionale contro la diversa linea sindacale della FIOM provinciale e denunciato in tutte le sedi le continue violazioni regolamentari con cui è stato impedito alla volontà dei lavoratori di esprimersi, veniamo sanzionati per averlo fatto apertamente e pubblicamente.<br />La nostra vicenda è solo un episodio di un problema, che si sta imponendo sul piano nazionale e che è già esploso con la lotta degli autoferrotranvieri, di reale e verificabile rappresentanza dei lavoratori, che le organizzazioni sindacali finiscono per trattare come soggetti passivi, privi della possibilità di espressione democratica e del diritto di determinare le scelte di linea sindacale e gli obiettivi delle rivendicazioni, e perciò privi degli strumenti fondamentali di difesa delle proprie condizioni di lavoro. Questo problema sarà difficilmente eludibile e fa tutt'uno con la necessità di una ripresa dell'iniziativa politica del movimento operaio, oggi subalterno agli interessi e alle prospettive di classi parassitarie e inconsistenti.”<br />fonte: <a href="mailto:infoslai@fastwebnet.it">infoslai@fastwebnet.it</a><br /> Come si vede siamo in presenta di un attacco concentrico: mentre alcuni nuclei di operai si mettono in movimento contro i padroni, devono nello stesso tempo, se non anche prima, entrare in contrasto con i propri dirigenti sindacali e difendersi dai loro attacchi pur di rimare nell’ambito della loro classe, senza esserne isolati e ricacciati in angolo.<br />Un caso da manuale lo dimostrò nel 2001 la lotta degli operai alla FMA di Pratola Serra. La fabbrica fu bloccata per cinque giorni dagli operai che rivendicavano “Uguale Lavoro - Uguale Salario”. La battaglia, pur se ebbe risonanza nazionale e momenti di mobilitazioni ricadenti solo sulle spalle di nuclei ristretti di operai, non fu generalizzata. I sindacati, tranne simboliche presenze, non vollero accettare lo scontro con la Fiat così com’era maturato in tutto il comparto, e non ci fu nessuno in grado di farlo. Non solo, ma quell’esperienza di lotta dovette ripiegare per concentrarsi nella battaglia per far rientrare i licenziamenti promossi a seguito di provocazione esterna alla fabbrica, lasciando così alle ortiche gli obiettivi della lotta intrapresa.<br />Gli esiti di questi attacchi li conosciamo. Sono rientrati, sia per l’impugnazione dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, ma soprattutto per le radici collettive di cui erano espressione questi operai incriminati.<br />Un caso a parte invece fu il licenziamento di F.F., un operaio della Fiat New Holland di Modena. Fu licenziato per scarso rendimento. Ma, nonostante l’individuazione soggettiva che mirava a colpire un militante operaio marxista, l’azienda fu sconfitta dopo circa due anni di sentenze e ricorsi. La stessa organizzazione scientifica del lavoro, con tanto di cartellini - tempi di produzione su cui è scritto nero su bianco la quantità da produrre in condizioni ottimamente ergonomiche, non poteva far ricadere sull’operaio le deficienze tecniche e ambientali in cui lavorare. La sua strenua resistenza a tutte le sirene con la faccia dell’Euro, lo riportarono in fabbrica al suo posto di combattente.<br />Da quando si è visto fin’ora, la repressione degli operai ribelli ha marciato su di un solo livello, quello che nelle premesse ricadeva su interessi collettivi. Così: da parte delle aziende, vi è stato il tentativo di sotterrarli in un mare di guai giudiziari e di difficoltà economiche, da parte del Sindacato, lo scopo di rompere il legame tra queste soggettività incompatibili a tener la testa piegata e la restante massa degli operai. Come pure, ciò che nelle conclusioni poneva gli stessi problemi, abbiamo avuto, da parte dello Stato, la sua presenza intimidatoria e le cariche della polizia contro gli operai in sciopero.<br /><br /> Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, rappresentano però un punto di svolta nella repressione operaia nelle fabbriche. Esso consiste nel fatto che le motivazioni si presentano sganciate dal movente dell’azione che li determina, cioè dagli interessi collettivi come il salario e l’organizzazione del lavoro contro cui gli operai organizzano scioperi e proteste, per incentrarsi invece sulla responsabilità individuale.<br />Questa forzatura avviata dalla Fiat con l’interpretazione dell’art 26 del CCNL dei metalmeccanici ci pone l’esatto rovescio della medaglia. Le azioni soggettive non devono mai uscire dagli ambiti degli interessi collettivi. Questa credo sia la lezione che il più grande gruppo industriale offre alla classe degli operai e specie alle sue avanguardie.<br />Una lezione storica, dal momento che la Fiat l’attua a difesa dei suoi interessi mentre gli operai saranno costretti a contrastarla fino alla resa dei conti finale con al comando, o la Fiat o gli operai.<br />Una lezione storica, perché i licenziamenti di Melfi, a parte la illegittimità riscrontabile sulla base dello stesso Diritto del Lavoro e in numerose sentenze della Cassazione, proiettano nel futuro ula possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, come anche la possibilità che i padroni possano sostituirsi al potere punitivo dello Stato, nel mentre esso non ha ancora sanzionato niente.<br />Questa possibilità, in cui oggi a Melfi ne costatiamo i prodromi, riporta di nuovo la questione sugli interessi collettivi, ma ad un livello più alto dello scontro tra le classi, che né il diritto né le sentenze della Cassazione contemplano. Chi vuole capire capisca, perché qui si tratta di nuovo di rapporti di forza, ed essi si plasmano dentro lo scontro collettivo tra gli operai e il capitale.<br />È possibile, dato gli impulsi reazionari che stiamo riscontrando e senza che qui parli della competizione tra una sigla sindacale ed un’altra, continuare a pensare e ad agire senza rompere l’isolazionismo e quegli elementi di autocoscienza che caratterizzano la frammentazione organizzativa in cui sono immersi una nutrita schiera di operai e militanti che hanno perso ogni illusione riformista e concertativa ? La risposta è negativa.<br />Se si sta affacciando il Maccartismo del 21° secolo, la risposta non può riposare su iniziative frettolose, o isolate. Seppur generose negli intenti che spesso caratterizzano la piccola borghesia rivoluzionaria, nella realtà risultano invece proclami che non fanno altro che aprire gli occhi alle zecche senza che abbiamo possibilità di togliercene una. Perché se c’è una lezione da imparare è quella di sapere che nell’ambito di interessi che si contrappongono, le azioni di una parte ricadono comunque su tutta la classe. Ed i borghesi non fanno differenza su chi li promuove. Se nella storia hanno perseguitato finanche i democratici perché accusati di comunismo, questo dovrebbe far pensare ancora una volta di più alle responsabilità soggettive e al loro legame con gli interessi collettivi.<br />Una Coalizione Operaia. Solo a partire da essa si può in seguito valutare il come e il quando. Tutto il resto che fuoriesce da questo impegno non solo è sbagliato sul piano del materialismo, ormai ridotto ad una scadente scolastica ripetitiva di condizioni storiche superate, che al massimo può solo fare l’apologia culturale del 1848, del 1917 e del 1969, senza vedere in esse i reali esecutori e i compiti attuali in cui sono immersi per emanciparsi nuovamente.<br />Una Coalizione Operaia è necessaria per rimettere anche il pensiero di liberazione di questa classe nella collocazione oggettiva dello scontro tra le classi. Anche se ciò deve per forza far indietreggiare tutti i sostenitori “della coscienza esterna” con i loro programmi, una cosa do per certa: non esiste nessun pensiero teorico autonomo dalla evoluzione delle fondamentali classi sociali: gli operai e la borghesia.<br />I licenziamenti alla Fiat sono la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata. La sua sempre più marcata fuoriuscita dai canoni di salvaguardia che il riformismo offre al sistema capitalistico, incapace com’è di contenere i risvolti sociali delle sue contraddizioni economiche, pongono al primo posto il problema dell’organizzazione.<br />Chiunque è su questo terreno non può far finta di non sapere che, per rispondere all’attacco del più grande gruppo industriale che ha inaugurato il sistema legale per effettuare licenziamenti selettivi degli operai ribelli, si può solo rispondere con l’unità degli operai. La Coalizione è il primo e fondamentale passo che si può e di deve percorrere.<br />Elp. 3 – 12 - 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-85489017661178919552007-12-31T12:12:00.000+01:002007-12-31T12:13:51.671+01:00Fiat: licenziamenti discriminatori in fatto e in dirittoDa Elpica<br /><br />Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, insieme alle pene proposte contro decine di giovani antimperialisti che dimostravano a Genova 2001, rappresentano un punto di svolta nella repressione: non solo della ribellione operaia nelle fabbriche, ma anche della contestazione che sale potente nella società.<br />È la reazione padronale al crescente sviluppo delle contraddizioni che scaturiscono dall’organizzazione scientifica del lavoro e contro le scelte politiche dei governi; ma In Fatto, è soprattutto la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata.<br />La sempre più marcata fuoriuscita di questo processo dai canoni di salvaguardia che offrono il sindacalismo concertativo, e i partiti politici della sinistra, ormai ridottisi a particolari appendici della borghesia dominante, impensierisce sia i padroni che i governi.<br />Sindacati e partiti, incapaci come sono di contenere le contraddizioni tra una metrica del lavoro che ti spreme in minuti-secondo a fronte di un salario e di condizioni del lavoro che scendono sempre più al di sotto della vita media sociale, perdono sempre più consensi. Mentre lo Stato vorrebbe punire i dimostranti contro il G8 con centinaia di anni di galera, rispolverando in aggiunta anche il reato di tipo patrimoniale, il quale nessuno potrà mai risarcire, i padroni scendono direttamente in campo.<br />Nell’oblio completo dei difensori del diritto e della democrazia, i padroni hanno trovato nel concetto giuridico di “rapporto fiduciario” che lega il lavoratore al datore del lavoro, l’arcano per risolvere il conflitto dentro le fabbriche.<br />Questa uestaquesta metodologia dell’odierno attacco padronale, per la possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, non è escluso che possa costituire nel futuro il nuovo terreno della repressione delle avanguardie su tutti i luoghi di lavoro.<br />Se questa è la sostanza della reazione che abbiamo di fronte, contenerla, solo per parlare in termini di difesa, significa porre nei fatti un grado di organizzazione capace di coagulare un vero e autentico rapporto di forza tra gli operai e il capitale, senza nessun intermediario. E questa è una questione che passa inevitabilmente per le forche caudine di un processo organizzativo capace al tempo stesso di valorizzare ma anche di strozzare tutti quegli elementi di autosufficienza che funzionano come separazione e frammentazione. Elementi che sono pur presenti nelle varie componenti organizzate che si sono poste sul terreno dell’indipendenza politica di classe, ma che vanno rimossi.<br />C O A L I Z I O N E, è, a mio parere, l’indirizzo politico che deve seguire alla messa in campo e alla condivisione del principio dell’Indipendenza politica della classe, con tutti gli sforzi e la messa in discussione che le esperienze fin qui fatte esigono, per cui, la parola della sua realizzazione passa evidentemente nelle mani delle sue espressioni politiche organizzate.<br />Se i padroni al momento hanno ragione solo perché siamo deboli organizzativamente, il che equivale a dire che siamo deboli anche politicamente, nemmeno dal versante del Diritto hanno le carte in regola. Infatti, la forzatura avviata dalla Fiat con l’applicazione dell’articolo 26 del C.C.N.L. dei metalmeccanici che tratta appunto del rapporto fiduciario, offre, ad una attenta lettura, la possibilità di rigettare questi licenziamenti individuali come un atto discriminatorio.<br />In proposito, l’art. 25 del CCNL che descrive le mancanze per le quali l’azienda può licenziare, e le varie sentenze della Cassazione che hanno reso nullo il licenziamento per cause non attinenti alla prestazione lavorativa, come anche quelli sanzionati per motivi politici e religiosi, ed in mancanza di una sentenza passata in giudicato, dimostrano che ci troviamo di fronte ad una vessazione padronale.<br />Infatti di che cosa sono colpevoli questi operai? Allo stato dei fatti di niente. Ma se la Fiat, con quest’atto discriminatorio vuole sostituirsi al potere punitivo dello Stato, senza che esso abbia sanzionato alcunché, è meglio che sappiamo fin da ora che, se i padroni si incamminano su questa strada, l’alternativa di organizzarci meglio è sempre meno una opzione interlocutoria per diventare sempre di più una necessità vitale.<br />Se questa discriminazione potremo farla rimangiare mobilitandoci anche nel campo della giurisprudenza, sopportando i tempi di essa che c'inducono a patire insopportabili situazioni economiche, con il relativo risvolto psicologico che i padroni sanno che mina il rapporto tra queste avanguardie e il resto degli operai, nel merito rimane l’essenziale: una organizzazione degli operai più solidale, più forte.<br />Nell’esprimere la mia solidarietà a questi operai licenziati, esprimo al tempo stesso anche un appello ai tanti lavoratori e militanti per stringersi attorno ad essi, e il desiderio di vedere la classe operaia nella posizione sociale che gli compete, in quanto produttrice di tutta la ricchezza sociale.<br />Elp. 23.nov. 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-19825340409346111162007-12-31T12:09:00.000+01:002007-12-31T12:12:08.941+01:00l’ Uranio Impoverito ovvero il cattivo uso delle armida Elpica<br /><br />Si è scritto troppo e troppe volte sul Petrolio come uno dei principali motivi dello scatenarsi delle attuali guerre di aggressioni.<br />Da parte nostra, che siamo critici del capitalismo in quanto sistema di produzione e appropriazione della ricchezza fondato sullo sfruttamento, dobbiamo dire che:<br />Se questa fonte di energia rappresenta la base della moderna storia del capitalismo, come l’acqua ed il carbone furono quella dei suoi inizi, per comprenderne gli sviluppi bisogna togliere al concetto di energia il suo significato universale, per ri-connetterlo invece alla sua intima natura di elemento fondamentale del capitale costante. È solo da questo punto di vista che possiamo comprendere l’imperialismo, gli attriti e le alleanze tra le varie nazioni che prefigurano veri blocchi contrapposti.<br />Chi detiene il monopolio dell’estrazione ha il monopolio del prezzo sul mercato. Il capitale costante dei paesi concorrenti è tenuto sotto pressione da questo monopolio con l’effetto di contrastare lo sviluppo e la concorrenza di queste nazioni. Esse devono pagare questa fonte di energia con la moneta di riferimento. Ne devono accumulare una gran quantità, e per farlo devono diventare loro malgrado acquirenti di prodotti dei paesi monopolisti. Benchè non più convertibile in oro, al momento la moneta di riferimento del mercato del petrolio è il Dollaro, che ha la sua base nelle Borse di New York e Londra, ma anche l’Euro comincia ad essere usato nei pagamenti, specie tra l’Iran e i clienti del suo petrolio.<br />Neanche il capitale costante è un concetto avulso da altri significati concatenanti. È costante, perché una parte di esso è il valore delle materie prime, o è addirittura fisso, immobile, pietrificato in strutture e in macchinari, solo perché si contrappone al capitale variabile, cioè ai salari. Ed il capitale variabile è tale solo perché alla fine del suo consumo, alla fine del processo produttivo, ha prodotto più del suo valore, ha prodotto un plusvalore.<br />Questo plusvalore non rimane quieto nella sua esistenza di sovrappiù, è talmente grande la sua grandezza in valore che neanche lo sperpero per le classi dominanti basterebbe a soddisfare in qualche modo un equilibrio per ricominciare daccapo lo stesso ciclo. Gran parte di esso deve trasformarsi in nuovo capitale, e si trasforma costantemente per via concorrenza, delle nuove scoperte scientifiche che essa stessa stimola e che alla fine impone di applicare.<br />Nell’economia borghese, questo plusvalore, questa massa di lavoro non pagata, la cui esistenza sarebbe già di per sé una fonte di formidabili progressi sociali, per i capitalisti invece è una dannazione da cui non possono uscire. Quando alla fine della circolazione le vendite hanno realizzato il profitto, per i capitalisti cominciano i veri grattacapi, la loro domanda: quanto capitale abbiamo investito per guadagnare tot profitti? Si accorgono che il rapporto tra queste due quantità che prende il nome di Saggio del Profitto è sempre più in discesa.<br /> Alcuni sono presi dal panico, altri devono abbandonare la scena, i rimanenti, che al momento risultano i vincitori di questa gara, sono presi dal loro famelico sforzo di aumentare la produttività. Devono spremere gli operai al limite degli elementi fisici del tempo di lavoro, in primo luogo, e quando questo non basta devono opprimere l’intera società, rovesciando in essa la razionalità dei loro freddi calcoli col risultato di imprimerle un ritorno al passato.<br />Si può capire quindi quali sofferenze stanno subendo, ad esempio, gli operai e il proletariato delle campagne cinesi, nonostante che il loro paese sia in una fase di sviluppo industriale. Schiacciati come sono dallo sviluppo del capitale cinese che per aumentare la redditività del suo capitale impiegato vorrebbe comprare il petrolio ad un prezzo più basso ma che invece deve provenire tutto dal tasso dei salari e dalla produttività.<br />Fin qui abbiamo descritto gli elementi della guerra tra le classi prendendo come base l’energia del Petrolio. Ma, se c’è una nozione che dà il senso del movimento, quella è appunto la Storia. Ed essa sta iniziando a cambiare anche la base da cui dovremmo dedurre i fatti nel futuro.<br />Appunto perchè si sta affacciando sempre di più la possibilità di usare come fonte di energia alternativa l’Uranio Impoverito.<br />Ne abbiamo sentito parlare al tempo della guerra in Kossovo. Ne sentiamo parlare sporadicamente, quando i militari italiani, dopo averlo usato, a loro insaputa ovviamente, come arma anticarro, cominciano a denunciarne gli effetti letali sulla loro salute, il che fa prevedere anche quali siano in futuro gli effetti sulle popolazioni dove si faceva la guerra.<br />Eravamo stati abituati a pensare che i moderni mezzi tecnologici impiegati come armi da guerra risparmiassero vittime civili non coinvolte direttamente sul fronte. Che, la guerra moderna, non fosse più sporcata dalle rappresaglie di stampo nazista, che non avesse più bisogno n’è di un retroterra sociale, n’è di fronteggiare i risentimenti delle popolazioni, tanto era potente all’inizio degli anni ’90 il pensiero che la guerra fosse un’azione chirurgica.<br />I fatti non stanno così, non solo per come si sta facendo la guerra all’Iraq o all’Afghanistan; gli effetti radioattivi dell’Uranio, come furono e lo sono ancora quelli dell’uso dell’amianto nella produzione, si faranno sentire, sia nei paesi che hanno scatenato la guerra sia dove la si è combattuta.<br />Elp 24-10 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-74500432357911649752007-12-31T12:04:00.001+01:002007-12-31T12:08:55.891+01:00l'ambiguità da sciogliere: Gli operai e la società civileDa Elpica:<br /><br />Dobbiamo convenire che è stata una grande e ben riuscita operazione, quella di fare un referendum esteso a tutte le classi sociali con operazioni di voto su tutto il territorio.<br />La democrazia del voto ha funzionato. Pensionati e casalinghe ammaliati dal misero aumento di una miserabile pensione, lavoratori benpensanti che non hanno nulla a che vedere col Lavoro, insomma la società civile ha decretato che l’accordo del 23 luglio, seppur con qualche modifica che si preannuncia marginale sui lavori usuranti, deve passare.<br />Questo voto ha decretato che i pensionati devono rimanere nella miseria, gli operai devono contentarsi del presente e quelli futuri di essere certi che la loro condizione peggiorerà.<br />Dall’abolizione della scala mobile, dopo che gli anni ’80 sono trascorsi all’insegna del Toyotismo e della Qualità Totale, sono ormai più di quindici anni che gli operai si ritrovano stretti un cappio al collo contro ogni loro rivendicazione per migliori salari e diritti nel lavoro.<br />Da quando agli inizi del '90 i Consigli di Fabbrica diedero vita alle grandi proteste contro Berlusconi per poi ritrovarci un governo di sinistra col finanziere Dini che riformò il sistema pensionistico proiettandolo per tappe alla conclusione oggi raggiunta, e con il sg. Treu che istituzionalizzò con legge le premesse per la precarietà del lavoro, sono passati quindici anni.<br />Anni di continui ricatti e cedimenti, in primo luogo sulle condizioni degli operai: dal versante della Confindustria e dai vari governi succedutisi fino ad ora, la parola magica che ha funzionato come il pilastro contro cui fermare ogni rivendicazione sui salari, sui diritti e sullo stato sociale dell'erogazione dei servizi, è stata il Mercato. Nessuno può sentirsi responsabile delle leggi che regolano il suo andamento, e in effetti sarebbe vano ricercarne la responsabilità in questo o quel capitalista, tranne ovviamente quando bisogna scaricarne le conseguenze sugli operai e i lavoratori. Come pure, è vano cercarne le responsabilità nell’imperialismo degli Usa, senza lottare contro il proprio capitalismo.<br />Dai padroni grandi e piccoli, la parola, che è un vero e proprio arcano concettuale, è passata nelle mani dei partiti, di destra e di sinistra, federalisti o centralisti che siano, mediante varie tappe che hanno contrassegnato gli equilibri della borghesia di destra e di sinistra e le pressioni esercitate sulle due fazioni dalla Lega di Bossi.<br />Questa convergenza, anche se la destra si distingue per affermare più apertamente il primato dell’impresa, libera da ogni condizionamento, per il quale i migliori affari sarebbero fonte di migliori condizioni lavorative, mentre la sinistra si affanna a indicare che migliore efficienza e innovazione aumenterebbero la competitività e quindi la domanda di lavoro, è stata contrassegnata, come prima tappa, da un scontro sul carattere costituzionale della democrazia.<br />Il punto da colpire era la velleità separatista della Lega di Bossi, che per la stessa questione del Mercato, da cui discende la competitività, ha mosso guerra allo Stato, definito ladrone, parassitario e centralista, al solo scopo di scalzarlo dalle garanzie sui patti tra capitale e lavoro, come l'attacco all'art. 18 ha dimostrato, e per consentire ai padroni del nord di pagare meno tasse, e quindi di trarre più profitti.<br />Si è continuato a porre sotto ricatto gli operai e i lavoratori per il pericolo di Berlusconi. E per mantenere il consenso elettorale della società civile cercando di non perdere quello degli operai sempre più arrabbiati, il partito che si prefiggeva di rifondare il comunismo, ha dovuto programmare due scissioni: la prima, con alla testa l’ex sindacalista Garavini - segr. reg. Fiom Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta contro i licenziamenti alla Fiat - che si separava da Cossutta per dare i numeri al governo Dini; la seconda, tra Cossutta e Bertinotti, con il primo a difendere il governo D’Alema, il secondo a cercare di recuperare consensi tra gli operai e la gioventù arrabbiata dei centri sociali e trattenerli sotto l’egida dell’opposizione ma non troppo. Infine altri aggiustamenti di posizioni - leggi abiure sulla storia del novecento - per accreditarsi come forza governativa e come soggetto istituzionale e tenere in vita il governo Prodi ultimo, che con non allenta la precarietà, riconfermando l’andamento da Treu a Maroni e che sulle pensioni ha una proiezione per il 2013 addirittura peggio della riforma di Maroni.<br />Qui comincia il bello.<br />Il pericolo della destra è stato usato dai partiti di sinistra con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. E il governo Prodi non è davvero l’ultimo che gli operai di meritano. Dovremo per questo essere destinati a farne il cane da guardia pur sapendo di andare incontro ad un baratro?<br />Certo che siamo per la Libertà, ne abbiamo sempre più bisogno, per questo vogliamo combattere questo sistema economico che ha inglobato nei suoi cicli di rotazione tutta la nostra vita, con turni a scavalco di giorno e di notte. Ma la Libertà per le classi sottomesse non significa niente senza la Fratellanza e l’Uguaglianza, e se per giungere a questo saremo costretti ad usare la ghigliottina tecnologicamente idonea ai tempi nostri, sarà una necessità, ab torto colli, da cui non poter sfuggire.<br />Quindici anni non sono trascorsi invano. Pur se accanite lotte non hanno dato risultati perlomeno corrispondenti ai reali rapporti di forza che si sono messi in campo o che potevano essere messi in campo, una nuova leva di operai combattenti si va formando nei più grandi centri della produzione sociale.<br />Qui è scontato il giudizio negativo dei sindacati. Giudizio che deve affondare più in profondità gli elementi da cui deriva, ed uno particolarmente importante che si affaccia sempre di più è il potere e la possibilità che il sindacato ha di sabotare le lotte, di non generalizzarne i contenuti, di non estenderne la forza.<br />Che si levi alto il grido di battaglia: COALIZIONE!<br />L’unità degli operai d’avanguardia che sappiano farsi valere nella cosiddetta società civile come la classe da cui tutto viene e niente rimane.<br />Elp 14-10- 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-91612867625242478412007-12-01T13:02:00.000+01:002007-12-01T13:03:31.909+01:00Antonio Pagliarone rispondeCaro Antonio Carlo<br />Ho scoperto per caso una risposta ad alcune critiche sollevate all’articolo “L’economia globale un Titanic che affonda” e mi precipito a fare alcune brevi considerazioni soprattutto sullo stile. Innazitutto non intendevo fare lo sbruffone (come si dice tra noi meridionali) citando gli ultimi lavori di Rawski, ma semplicemente cercare di sostenere ulteriormente il mito di Cindia esposto in maniera soddisfacente dal testo in esame. Tutto qui. Non intendevo fare il saccente, non è nel mio stile. Ma veniamo all’oggetto del contendere evitando atteggiamenti supponenti.<br />Riporto per la seconda volta la frase di Antonio Carlo sul cosiddetto Lavoro di Impegno civile "Già nel primo numero della rivista (da cui è stato tratto l’articolo)ho posto l’accento sulla centralità del reddito di cittadinanza, inteso però come reddito che remunera un lavoro, il c.d. lavoro diimpegno civile Questo tipo di obbiettivo ha una portata dirompente, perché si contrappone alla spinta del sistema che crea poco lavoro (e molta disoccupazione) subordinandolo al profitto; qui abbiamo una logica opposta (lavoro remunerato e non legato al profitto ma ai bisogni sociali) che, però, nasce da esigenze collettive non adeguatamente soddisfatte dal sistema." Mi sembra che non vi siano dubbi sul fatto che sappia leggere. Questo Reddito di Cittadinanza comunque lo si definisca ha dei costi per l’amministrazione statale. Ma non sembra al prof Carlo che qualsiasi governo in condizioni di crisi economica così grave e con possibilità quasi nulle nell’intervenire per contrastare una dinamica di lungo periodo sia condannato ad effettuare tagli alla spesa pubblica piuttosto che incrementare welfare? Non lo dico perché sono un lurido liberista (anzi) ma semplicemente perché è definitivamente tramontata l’epoca del golden age nel quale lo stato ed il sistema politico potevano integrare i lavoratori grazie ad una fase di sviluppo portentoso che garantiva entrate tali da garantire stato sociale indipendentemente dalla evasione. Oggi che siamo in piena dinamica di de-integrazione come è possibile adottare misure del genere? Non solo, Antonio Carlo collegherebbe tale proposta come dirompente poichè spingerebbe fortemente l’amminsitrazione pubblica verso il recupero, se non pieno almeno parziale, della evasione fiscale divenuta insopportabile per un paese civile. Strano che non vi sia un governo che non adotti politiche così efficaci su due fronti. Ma si rende conto Antonio Carlo che ormai siamo di fronte ad una fase economica completamente diversa dal passato? Come è possibile riuscire ad intervenire in una dinamica economica che ha fatto della speculazione finanziaria, quella si globale, la quintessenza dell’esistenza? Ma se non riescono nemmeno a tassare gli utili finanziari a livelli decenti….come possono recuperare l’evasione da imprese che continuano a strillare per una riduzione della tassazione? Ed i lavoratori non sono da meno strillano anche loro e danno ragione ai loro padroni. Questa non è saccenza ma solo guardare in faccia alla realtà che è brutta… ma è così. Certo che lo Stato farà bancarotta ( e la farebbe anche se ci fossero non solo Lenin e Mao che non ho mai ammirato ma anche lo stesso Keynes, ma io gli preferisco Marx) , non c’è remissione dei peccati che tenga. La dinamica in atto dagli anni 80 (mi sembra si chiami deregulation) per la quale lo stato si defila progressivamente da qualsiasi controllo della dinamica economica non è la causa ma la conseguenza di un progressivo mutamento degli investimenti che dal settore produttivo si spostano nella speculazione finanziaria da parte di tutte le attività (non solo le imprese ma anche le istituzioni di ogni genere compresi i fondi pensione e quant’altro. Questo è il mio punto di vista sulla base di quella che ritengo l’evidenza empirica e che l’ultima debacle finanziaria, destianta a proseguire, dimostrerebbe inequivocabilmente. Sull’ironia sappia Carlo che anche il sottoscritto, avendo origini napoletane ma vivendo in quest’inferno di città pseudoindustriale, sa riconoscerla e praticarla abbastanza regolarmente, ma il problema non sta qua ma nelle affermazioni di Antonio Carlo che riporto<br />"E’ evidente come anche per la Confindustria sia impossibile ignorare un problema esplosivo ed incancrenito, un problema che nei prossimi anni diventerà un nodo strategico dei vari conflitti, che vedranno impegnati il movimento, i sindacati, le forze politiche ed il governo (alle prese con la crisi fiscale) nonché il padronato, piccolo e grande che sia. Si apre, dunque, un fronte vastissimo di lotta in cui l’attacco all’evasione fiscale può trovare consensi e “sponde”, come mai in passato."<br />Mi sto impegnando ma non ci vedo niente di ironico, anzi Antonio Carlo fa appello ad un fronte comune contro l’evasione fiscale. La frase si commenta da sola.<br />Concludo sulla solita pistolettata relativa alle proposte da fare che mi sono sentito recitare migliaia di volte. Non ne ho. Contento? L’unica cosa che posso dire, ma è solo un accenno al problema, è che prima o poi i lavoratori capiranno che questo sistema economico non è più in grado di garantire la riproduzione della comunità umana per cui si vedranno costretti a riorganizzare la produzione e la distribuzione dei beni in una forma economica superiore dove non saranno pià presenti il denaro, il mercato ed il valore di scambio, un po’ come abbozzava il Vecchio di Treviri nella sua “Critica al programma di Gotha”. Spero in tal modo di aver fugato ogni fraintendimento. Nonostante tutto ringrazio il prof Carlo delle sue note e ribadisco che le sue proposte sono di tipo keynesiano, cosa che non comporta la lapidazione ma semplicemente il mio dissenso da seguace del vecchio Marx. Per una critica all’ideologia keynesiana posso solo consigliare, senza alcuna saccenza, il vecchio testo “Marx e Keynes” di Paul Mattick e l’ottimo intervento di Paolo Giussani “ I Limiti dell'Economia Mista e l'accumulazione di capitale dei giorni nostri” presente nel sito <a href="http://www.countdownnet.info/">www.countdownnet.info</a> . Con questo spero di non destare mai più alcuna irritazione per aver commentato un articolo che ritengo nel complesso interessante vista la modestia della pubblicistica che la sinistra propone attualmente, mi scuso se sono stato troppo diretto ma non intendevo dare lezioni a nessuno.<br />Un caro saluto<br />Antonio pagliarone Novembre 2007lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-1653902347020218052007-11-10T11:57:00.000+01:002007-11-10T12:01:26.358+01:00Caro PagliaroneAntonio Pagliarone, che da questo momento indicheremo con l’iniziale P., mi onora di alcune critiche relative al mio articolo sull’economia globale, che sta naufragando. A ben vedere P. sembra essere consenziente sui primi sei paragrafi su sette che compongono l’articolo, anche se avanza alcuni rilievi di dettaglio, come la mia mancata conoscenza degli scritti di Rawski , che effettivamente è un autore che non conosco dal 1979 , quando cominciava a scrivere le sue prime ricerche su occupazione e sviluppo economico in Cina per i tipi dell’ Oxford University Press. Ma lasciamo da parte queste critiche noiose e saccenti e andiamo al paragrafo sette che a P. non va proprio giù, e qui va detto che delle due l’una o P. non sa leggere o falsa in modo volgare il mio pensiero per confutarlo meglio.<br />Infatti io proporrei un reddito di cittadinanza che sarebbe un sussidio di disoccupazione alla maniera scandinava , e per sostenere questa tesi cita un mio brano in cui io dico esattamente il contrario: che cioè il reddito di cittadinanza deve remunerare il lavoro di impegno sociale e civile. Tal obiettivo avrebbe una portata dirompente poiché in USA già negli anni ’90 oltre 92 milioni di americani dedicavano 4,2 ore al giorno al lavoro di impegno civile gratuito (il cosiddetto volontariato); si tratta di un monte ore erogato dall’8% della forza lavoro americana occupata a tempo pieno, remunerarla richiederebbe un trasferimento enorme di ricchezza dal capitale al lavoro e questo salda il discorso col problema della lotta all’evasione fiscale.<br />Tale problema sta diventando esplosivo poiché se la classe dominante non paga le tasse lo Stato fa bancarotta e chiude i battenti: lo hanno capito persone come Prodi e Visco, che non sono certo Lenin o Mao, ma sono chiamati a gestire uno Stato che altrimenti chiuderebbe i battenti. Lo capiscono anche studiosi di parte capitalistica come Turner o Rajan ma non lo capisce P. E non gli chiediamo di capire poiché per lui questo sarebbe uno sforzo da ernia mentale. Proporrei inoltre, secondo P., una ignobile ammucchiata tra Governo , sindacati e confindustria. Evidentemente P. non ha letto il brano del mio articolo in cui, molto napoletanamente, prendevo a pernacchie la posizione della confindustria secondo cui l’evasione fiscale è enorme e questo richiede l’abbassamento delle aliquote fiscali sul capitale: come dire scopro un ladro a rubar polli e gli regalo il pollaio. È evidente che io demistifico e derido la posizione della confindustria, ma questo per P. sarebbe un’ammucchiata o una fantasia onirica, evidentemente non è il caso di affaticare troppo il cervello del nostro contraddittore richiedendogli ragionamenti, anche elementari, che non è in grado di fare. È chiaro che qui si apre un fronte di lotta enorme che vede impegnati con diversi interessi Governo, sindacati, confindustria e lavoratori, ed è chiaro che per me si tratta di strappare concessioni ed interventi al potere politico, che si trova in una situazione quantomai contraddittoria, esattamente come fecero i lavoratori inglesi nel 1847 (legge delle 10 ore) , o i lavoratori argentini che in questi ultimi anni hanno avuto da alcuni Stati della federazione argentina il riconoscimento per legge di occupare e autogestire le fabbriche lasciate inattive dal capitale, senza dover pagare i debiti della pregressa gestione.<br />Per P. tutto questo significherebbe che io cedo alla tentazione di fornire “ricette”; ora io non faccio il cuoco, mestiere nobilissimo che da uomo di gusto apprezzo moltissimo, ma faccio da decenni l’intellettuale impegnato e come tale penso che sia mio dovere avanzare delle ipotesi di proposte , altrimenti sarei solo un noioso cacadubbi o un irritante saccentello, compito che lascio volentieri ad altri (indovinate a chi?).<br />Al signor P. comunque voglio raccontare un piccolo episodio, anche se credo egli non ne capirà il significato: nel 1964 venne a Napoli a tenere un comizio uno dei più prestigiosi leader del movimento operaio: Vittorio Foa, che poi in seguito ho avuto occasione di frequentare per anni e che mai ho visto in imbarazzo, tranne che in quella occasione. Si trattava di presentare l’ultimo nato della politica italiana il PSIUP , di cui io fui socio fondatore. Nel suo comizio al cinema Adriano, Foa affrontò il problema dello slogan lanciato da Franco Fortini: “Guerra no, guerriglia si”. A tal proposito egli disse di non avere ricette e dal fondo della sala si alzò la voce di un compagno che disse: “E non ti sembra venuto il momento di trovarle?”.<br />Foa rimase si stucco, farfugliò alcune parole e passò oltre. All’uscita vidi un uomo alto sui 45 anni circondato da compagni festanti , di cui aveva interpretato le esigenze: se fai politica o cultura impegnata non puoi limitarti a fare il cacadubbi, capito P.?<br />P. conclude dicendo che se gratti il marxista trovi il keynesiano: oh, c’est terrible!<br /> Antonio Carlolunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-70326695518316681842007-09-09T20:14:00.000+02:002007-09-09T20:15:55.352+02:00Vero o falso?di Rossana Rossanda - da il Manifesto del 04-09-2007<br /><br /><br />Possono o non possono i ministri d'un governo di coalizione partecipare a una manifestazione che chiede di mutare in aula alcuni aspetti d'un pacchetto di norme sociali? Dei quali il meno che si può dire è che nel programma elettorale parevano promessi? Squisito caso costituzionale, che oscura il merito del contendere: come va esattamente con le pensioni, perché si sono dette balle grandissime sui bilanci dell'Inps, quanti sono i precari, se davvero sarebbero inesorabilmente richiesti dalla crescita.<br />Anche io la paventerei. Ma perché conseguirebbe a una manifestazione con o senza ministri? Le manifestazioni non votano. Il solo che minaccia il governo è Lamberto Dini, il quale ha dichiarato che se l'aula, cioè il più legittimo dei luoghi, modifica il pacchetto non ancora approvato, voteranno contro il governo lui e i suoi. Si rivolgessero dunque, i preoccupati, al dottor Dini.<br />Per tornare nel merito, ci sarebbe caro se ci si rispondesse alle seguenti tesi e domande:<br /><br />1. Non è vero che bisogna ridurre le pensioni (attraverso età, scalini o altre pensate) perché il bilancio pensionistico dell'Inps sarebbe in deficit. Il bilancio delle pensioni, cioè il saldo fra contributi pagati dai lavoratori e pensioni erogate è in attivo. Vero o falso?<br /><br />2. Il bilancio dell'Inps è in rosso esclusivamente perché sono messe indebitamente a suo carico le spese per casse integrazioni lavoro e una serie di altre misure assistenziali. Esse dovrebbero cadere su regimi speciali con relativa legge, lasciando ai lavoratori il bilancio delle proprie pensioni. Vero o falso?<br /><br />3. I pensionati non costano nulla alla fiscalità pubblica, mentre vi contribuiscono pagando le tasse anche sul reddito che da esse proviene. Vero o falso?<br /><br />4. La gobba che avrebbe gonfiato la spesa pensionistica secondo le previsioni del governo Dini, non si è verificata. Erano sbagliate. Vero o falso?<br /><br />5. Che un paese civile abbia circa sei milioni di pensionati (su sedici) a meno di euro 500 al mese è una vergogna. O no? Gradirei risposta firmata.<br /><br />6. Molto altro resterebbe da dire sulle pensioni. Intanto Massimo D'Alema cessi di giurare che non ci sono i soldi. Per le pensioni non occorrono. La proibizione di usare il tesoretto per l'assistenza non è un dogma di Santa Romana Chiesa. Si occupi dell'Afghanistan (in politica estera finora non se l'era cavata male) invece che di Welfare di cui non sa. A proposito, non l'aveva definito una trovata del maschio adulto e garantito. Vero o falso?<br /><br />7. Precariato. Secondo il calcolo di Luciano Gallino i precari sono da quattro a cinque milioni, circa un lavoratore su quattro. E non smettono di crescere. Vero o falso?<br /><br />8. La cosa fa comodo alle imprese, specie del terziario (in quelle più grosse della manifattura il precariato esiste già alla grande), dove pagare il lavoratore solo nei giorni che serve riduce i costi e aumenta il profitto. Vero o falso? Quando il lavoro è qualificato, l'usa e getta giova a breve all'impresa ma spreca una gran quantità di know how. Vero o falso? Quando la qualifica è bassa (tipo call center) il precariato è quello che più somiglia al lavoro parcellizzato del secolo scorso, con elementari diritti in meno. Vero o falso?<br /><br />9. Soltanto i giovani che hanno una famiglia alle spalle o possiedono una qualifica forte sul mercato (cioè pochi), preferiscono il lavoro precario a quello fisso. Vero o falso?<br /><br />10. Puntare a un salario generale di cittadinanza, è una chiacchiera. Esso ammonterebbe, secondo i calcoli fatti in Francia da Marc Augé, a circa la metà del salario minimo di sussistenza quando fosse ricavato dall'abbattimento di tutta l'attuale struttura del Welfare. Vero o falso? Sono dieci tesi e domande. Soltanto dopo avervi risposto si discuta di estremismo e massimalismo, eccetera. Farlo prima significa nascondere a se stessi e al prossimo delle semplici verità elementari.lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-64263042523241746552007-07-03T08:21:00.001+02:002007-07-03T08:21:56.731+02:00note a Antonio Carlo "Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo"Se l'ultimo l'ho trovato pienamente convincente, il penultimo saggio del Prof. Antonio Carlo ("Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo"), apparso nella Vostra rivista, mi ha suscitato qualche perplessità.<br />Condivido tutto il discorso sull'inattendibilità dei metodi ufficiali di rilevazione statistica della disoccupazione (e non solo). Mi permetto di aggiungere che negli Usa, questi, a seconda del vento, hanno subito negli ultimi decenni continui aggiornamenti, per nascondere appunto la realtà, fondandosi spesso sullo "scientifico" sistema delle telefonate per campioni, in base alle quali chi ha lavorato in un determinato periodo, ad esempio anche solo per una settimana, risulta tra la popolazione attiva occupata... Condivido anche tutto quanto è detto sulla diffusione del precariato, ecc. <br />Sono anche d'accordo che nel sistema capitalistico, sul lungo periodo, meno lavoratori sono in grado di produrre quanto in passato facevano in molti, come l'agricoltura docet.<br />Ciò non toglie, che questa prospettiva (sostenuta anche dal pluricitato Rifkin o dai sociologi tedeschi del gruppo Krisis, uno tra tutti Robert Kurz) non spiega, a mio avviso, adeguatamente il fenomeno attuale. E' la tecnologia che nell'ultimo quarto del secolo scorso e fino ad ora ha tolto lavoro? Ciò avrebbe dovuto comportare una serie di investimenti produttivi che il mondo capitalistico in genere non registra da decenni a questa parte, decenni nei quali, invece, quando c'è stata qualche momentanea ripresa, è stata determinata da un maggior sfruttamento del lavoro e dei vecchi macchinari.<br />Altrove il Prof. Carlo ha parlato della mancanza di investimenti produttivi (accumulazione), ma qui non lo fa e tutta l'argomentazione sulla disoccupazione sembra dipendere invece, se ho ben capito, dall'assunto che sono le macchine ad estromettere operai dal mondo del lavoro.<br />Più che investire nella produzione, in tecnologia strutture ecc, la tendenza, a mio avviso, ormai lontano dal boom post bellico è stata piuttosto quella di dislocare fabbriche all'estero, dove la manodopera costa poco, e/o di canalizzare flussi enormi di capitale verso il settore speculativo. Alla deindustrializzazione interna americana degli ultimi quarant'anni corrisponde un massiccio trasferimento all'estero della produzione (prima in Canada e poi in Europa, Asia...); per non parlare appunto della speculazione finanziaria e della politica finalizzata a costringere i possessori stranieri di dollari ad investire sul mercato americano.<br />Il postfordismo, la rivoluzione microelettronica, è un altro dei miti del nostro tempo che come il concetto di globalizzazione va adeguatamente precisato e ridimensionato. Solo che, mentre a proposito della globalizzazione il Prof. Carlo ha fatto delle puntualizzazioni efficaci, riguardo alle innovazioni tecnologiche mi pare che ne enfatizzi il ruolo nell'attuale fase storica.<br />Cordialmente<br />Alessandro Cocuzzalunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-50305156928409907692007-06-28T17:46:00.000+02:002007-07-03T08:20:19.241+02:00Alcune note critiche all’articolo di Antonio Carlo “L’economia “globale” un Titanic che affonda”<em>In luogo della lotta di classe subentra una formula giornalistica: la “questione sociale”. Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, credere che si possa costruire una società nuova per mezzo di sovvenzioni dello stato, come si costruisce una nuova ferrovia, è presunzione che tratta lo stato come una realtà indipendente, che possiede sue proprie basi intellettuali e morali libere, invece di trattare la società presente come base dello stato esistente. Le forme dello stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la “libertà dello stato”. (K Marx “Glosse marginali al Programma del partito Operaio Tedesco”(Gotha).<br /></em><br /><br />Innanzitutto Antonio Carlo nel criticare i miti correnti presenti nella pubblicistica di sinistra e non, utilizza alcuni dati empirici che permettono di confutare la tesi alla moda dell’economia globale “governata” da un Impero. Le teorie sulla pianificazione introdotte da certe ideologie degli anni 70 sono state trasferite dal mito dello Stato Piano a quello dell’Impero–piano attraverso i suoi organismi internazionali sono frutto delle fantasie di qualche intellettuale di vecchio stile vista la condizione di totale anarchia in cui vive il capitalismo nell’epoca moderna. Ormai le previsioni del FMI o della Banca Mondiale vengono riviste a distanza di tempo sempre più ridotta. Interessante, ma solo accennata, la trasformazione della dinamica classica relativa all’accumulazione di capitale in speculazione globale che porta inevitabilmente l’attuale sistema economico verso il baratro. Purtroppo Antonio Carlo non va a fondo nell’analizzare la dinamica speculativa. Infatti l’autore mette si in evidenza l’incremento inusitato dell’indebitamento USA specie di quello privato ma si limita a giustificarlo esclusivamente sul versante dei consumi mentre gran parte di tale indebitamento ( come dimostrato da vari studi empirici) sarebbe causato dal trasferimento di capitale all’interno della speculazione sui titoli, sui bond e specie sui derivati.<br />Interessante la messa in discussione del mito del boom economico cinese ed indiano “L’impero di Cindia ovvero il miracolo di cartapesta”. Purtroppo l’autore accetta i dati ufficiali del PIL (forse non conosce i numerosi interventi che contestano i criteri di rilevazione dei dati statistici come quelli di Thomas Rawski) ma nonostante questo riesce a dimostrare l’infondatezza del possibile sviluppo futuro da grandi potenze di economie ancora al palo se raffrontate alle dinamiche di sviluppo che hanno caratterizzato il capitalismo nei paesi avanzati (come l’Inghilterra studiata da Marx e dai classici). Poi analizzando la trasformazione del capitalismo in una sorta di organismo malato caratterizzato da dinamiche criminali legate alla corruzione non riesce ad evitare il solito intervento, tipico di coloro che vogliono dare delle ricette, in cui propone degli interventi immediati, anche se più volte Carlo sottolinea la sua anima radicale. Ed è su questi che desidero dire qualcosa. Innanzitutto sul reddito di cittadinanza<br /><br />"Già nel primo numero della rivista (da cui è stato tratto l’articolo)ho posto l’accento sulla centralità del reddito di cittadinanza, inteso però come reddito che remunera un lavoro, il c.d. lavoro di<br />impegno civile Questo tipo di obbiettivo ha una portata dirompente, perché si contrappone alla spinta del sistema che crea poco lavoro (e molta disoccupazione) subordinandolo al profitto; qui abbiamo una logica opposta (lavoro remunerato e non legato al profitto ma ai bisogni sociali) che, però, nasce da esigenze collettive non adeguatamente soddisfatte dal sistema."<br /><em><br /></em>In sostanza Carlo chiama reddito di cittadinanza il sussidio di disoccupazione presente nelle economie del Nord Europa che sta subendo nel corso del tempo un continuo ridimensionamento a causa del taglio allo stato sociale divenuto ormai una legge inevitabile per qualsiasi tipo di governo. In effetti il successo conseguito dai partiti conservatori nel Nord Europa non deve meravigliarci, anche l’adeguamento alle politiche di taglio adottate dai laburisti nel Regno Unito e non solo in questo paese. Ciò che rende impossibile una inversione di questo genere è la scelta ormai di massa operata dai lavoratori delle economie avanzate di spingere verso un netto ridimensionamento dello stato sociale a favore di un recupero salariale basato sul taglio delle tasse. Tale comportamento è dettato sostanzialmente dalla impossibilità di recupero salariale attraverso i vecchi sistemi della trattativa o attraverso l’assunzione di più lavori come negli anni 80-90. I lavoratori lo stato sociale se lo vogliono pagare da soli quando serve.<br /><br />Come è possibile che uno stato moderno riesca a “tenere in piedi un difficile equilibrio tra spese(sempre elevate e necessarie) e tagli” come afferma in precedenza l’autore che aggiunge poco dopo “Dall’altra il peso crescente dell’indebitamento pubblico e privato può fare crollare l’economia, mentre lo Stato impoverito ed indebolito appare sempre più incapace di svolgere le sue funzioni tradizionali” Per cui oggettivamente incapace di invertire una tendenza verso i tagli. Non solo ma aggiunge lucidamente che i paesi sviluppati ormai ossessionati dal loro debito e dai servizi del debito non possono certo abbonare il debito dei paesi più poveri o cosiddetti emergenti “ come propone Bono degli U2, ma al “leader” della grande “rock band”, nessuno ha il coraggio di dire che se poi questo nobile atto di generosità fosse realizzato le più grandi unità del mondo economico occidentale farebbero un crack clamoroso. Più passa il tempo e più il debito cresce il che rende impensabile (in termini capitalistici) un suo annullamento, spingendo<br />sempre più i paesi emergenti verso la bancarotta. Il sistema ha creato una situazione ingovernabile, i paesi emergenti danzano sull’orlo del baratro ma un loro tonfo trascinerebbe anche noi."<br /><br />Come è possibile in una condizione da cul de sac di questo genere illudersi che un governo possa concedersi il lusso di un “reddito di cittadinanza? E’ meno utopistico proporre la Dittatura del Proletariato<br /><br />"Si pone allora un grosso nodo, come cioè sia possibile, qui ed ora, finanziare questo tipo di lavoro, e la fonte a mio avviso non può essere che la lotta all’evasione fiscale. Su questo terreno si aprono ampie prospettive di alleanza tra radicali e riformisti, e c’è la possibilità di fare leva su un cuneo, un conflitto che si delinea tra il capitale e lo stesso Stato-nazionale borghese."<br /><br />Siamo ai sogni onirici, poco prima Carlo sottolinea il legame tra capitalismo criminale che ormai imperversa in tutti i campi, ed il sistema politico attraverso corruzione e tangenti che non risparmiano nemmeno i “riformisti” al governo cui fa appello l’autore per realizzare una lotta alla evasione senza quartiere. Come è possibile realizzare l’unità tra Riformisti e radicali (quali?)? E poi come si potrebbero delineare delle differenze tra riformisti e radicali in un governo che realizzi una battaglia totale all’evasione? Sarebbe forse un governo rivoluzionario…di questi tempi…no?)<br />Ma sia chiaro non è lo stato che si lascia corrompere ma tutti sono suscettibili alla corruzione quando l’unica possibilità di conseguire guadagni è determinata da una dinamica di realizzazione che ormai è data solo dalla speculazione (in ogni senso). Anche una associazione che si propone di aiutare qualche popolazione povera del terzo mondo è obbligata gioco forza a piegarsi alle esigenze del primo delinquente di turno per poter proseguire nelle sue attività (e di esempi ci ne sono a bizzeffe)<br />Infatti<br /><br />"Anche in USA, le vicende delle IM del fumo e dei “fast food” (certo le meno strategiche ma pur sempre IM) è indicativa: le “class actions” giudiziarie promosse contro di esse da grossi gruppi di consumatori organizzati, hanno portato a condanne risarcitorie clamorose dell’ordine di miliardi (di dollari), nel più grande paese del mondo (economicamente parlando), patria delle più grosse IM, gruppi consistenti di cittadini (spesso organizzati in movimento),ottengono sentenze clamorose ed umilianti e ciò significa una svolta epocale, significa che si è eroso il consenso sociale al mondo degli affari e del capitale, che comincia ad essere screditato; per trovare una crisi di consenso simile occorre tornare indietro negli anni ’30, gli anni della Grande depressione."<br /><br />Ma l’autore, forse illuso da qualche storiella rappresentata in qualche film di successo, non si rende conto che ormai esiste un business tra gli avvocati degli USA legato alle cause contro le multinazionali che stanno pagando gruppi di cittadini, quasi organizzati in Lobby, cifre irrisorie rispetto ai loro profitti, continuando imperterrite le loro attività<br />E in Italia?<br /><br />"nell’ultimo trimestre dell’anno sono stati recuperati 2 miliardi di IVA evasa171; quanti intende<br />recuperarne Prodi nel 2007 con tutti i mezzi messi in campo, il che significa che il solo recupero IVA può realizzare l’intero obbiettivo (8 miliardi di euro l’anno)."<br /><br />Che strano, il grande riformista al governo si è però premurato di realizzare, insieme al suo socio Padoa Schioppa, immediatamente una finanziaria da capogiro pressando ulteriormente i lavoratori dipendenti e non contenti stanno proponendo una riforma (?) delle pensioni che realizza la Maroni semplicemente diluendo nel tempo le uscite dal lavoro (gli scaloni) con una continua rincorsa (senza mai arrivarci) fino alla fatidica soglia dei 60 anni. La Germania, patria dello stato sociale con un sindacato potente come la IG Metall, ha riformato le pensioni adeguandosi a quanto sta accadendo nei vari paesi OCSE<br /><br />"Epperò se i soldi che sottrae al Fisco venissero versati come dovuto potrebbero diventare reddito di cittadinanza che remunera il lavoro di impegno civile e quindi si creerebbero per altre vie, dei consumi, forse più consumi essenziali che macchine sportive, ma sarebbe questo un male?"<br /><br />Ecco che Antonio Carlo ricade nella logica della pianificazione tanto criticata ai vecchi marpioni degli anni 70, e come loro sogna una pianificazione dal basso <br /><br />"E’ evidente come anche per la Confindustria sia impossibile ignorare un problema esplosivo ed incancrenito, un problema che nei prossimi anni diventerà un nodo strategico dei vari conflitti, che vedranno impegnati il movimento, i sindacati, le forze politiche ed il governo (alle prese con la crisi fiscale) nonché il padronato, piccolo e grande che sia. Si apre, dunque, un fronte vastissimo di lotta in cui l’attacco all’evasione fiscale può trovare consensi e “sponde”, come mai in passato."<br /><br />E qui raggiungiamo il colmo, crede forse Antonio Carlo che la Confindustria ed il Governo non aspettassero altro che i suoi avvertimenti sulla minaccia determinata dall’evasione fiscale? Certo che un fronte comune tra Governo Sindacati e Confindustria (che bella ammucchiata) sarà certo in grado di invertire una tendenza nella quale loro stessi sono stati inevitabilmente coinvolti. Cosa crede Antonio Carlo: perché Sindacati e Confindustria stanno litigando sul TFR? Ma per accaparrarsi un finanziamento gratuito da investire in campo speculativo . E il Governo? Sta a guardare tanto in un modo o nell’altro entreranno più soldi dalla dinamica speculativa e maggiori saranno le possibilità per poter mantenere in vita la macchina governativa indipendentemente dal colore che ha.<br />E conclude<br /><br />"Oggi in una situazione che presenta profili simili non mi meraviglierei se riemergessero prassi ed obbiettivi di un lontano passato.(l’autoriduzione delle bollette e la lotta per il salario degli anni 70) Come si vede le ipotesi e le prospettive di lotta non mancano, se il sistema sta impazzendo non dobbiamo subire passivamente la sua follia."<br /><br />Invece le ipotesi e le prospettive mancano del tutto ed è impossibile per chiunque fare delle proposte immediate. La ripresa della lotta per il salario non la decidiamo noi od il buon Antonio Carlo ma i lavoratori che purtroppo vivono una condizione di piena concorrenza tra loro, la disoccupazione e la sottooccupazione non fanno altro che indebolire ormai una massa di lavoratori che si fa ricattare ogni giorno. Dovremmo far capire in qualche modo ai lavoratori che ormai costituiscono la stragrande maggioranza della società e che senza il loro consenso questo sistema cadrebbe in un batter d’occhio”. Ma come si può realizzare una cosa del genere quando coloro che dovrebbero avere a cuore il futuro dei lavoratori sono i primi a non averne fiducia? Ma è inutile quando un marxista cerca di fare proposte “risolutive” si scopre ed emerge sempre il solito keynesiano.<br />antelunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-48120248070901295752007-05-05T20:41:00.000+02:002007-05-05T21:45:58.443+02:00dalla mailing list di politica scolastica"Segreto di Stato: a Genova ci fu un disegno repressivo, prima condanna per la Polizia del G8 del 2001<br /><br />La censura da parte dei media è stata rigida ed assoluta: della sentenza di Genova non si doveva parlare. Infatti incredibilmente non ne ha scritto neanche il Manifesto e dovrebbe spiegare perché.<br /><br />di Gennaro Carotenuto <<a href="http://www.gennarocarotenuto.it/">http://www.gennaroc<wbr>arotenuto.<wbr>it/</a>><br /><br />Alzi la mano chi ha saputo che la settimana scorsa a Genova c'è stata la prima condanna per i pestaggi della Polizia durante il G8 del 2001. Eppure la sentenza di Genova è un passaggio capitale per la ricostruzione della verità e la giustizia di quello che successe nel<br />capoluogo ligure oramai 6 anni fa. E ci spiega anche molto del disegno politico sotteso alla repressione.<br />Lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia in via Assarotti, nel pomeriggio del 20 luglio 2001. Marina, come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete Lilliput, era seduta, con le mani alzate dipinte di bianco, gridando 'non violenza', quando fu massacrata dalla Polizia. Questa si è difesa sostenendo (sic!) che non era possibile distinguere tra le mani dipinte di bianco di Marina e i Black Block. Per il giudice Angela Latella invece la selvaggia repressione genovese e la cortina di menzogne sollevata per coprirle- è stata una delle pagine più nere di tutta la storia della Polizia di Stato e per la prima volta ciò viene scritto in una sentenza. Non solo, è ben più grave quello che è scritto nella sentenza genovese. Quelle dei poliziotti non furono né iniziative isolate né eccessi, ma facevano parte di un disegno criminale. Si inizia a confermare in via processuale quello che chi scrive sostiene e scrive da sei anni. A Genova vi fu un disegno criminale selettivo da parte di apparati dello stato. Tale disegno era teso a terrorizzare non tanto la sinistra radicale ma il pacifismo cattolico, in particolare la Rete Lilliput, che per la prima volta in maniera così convinta e numerosa scendeva in piazza saldandosi in un unico enorme fronte antineoliberale con la sinistra. Le ragazze e i ragazzi delle parrocchie furono quelli che pagarono il prezzo più alto, soprattutto sabato. I loro spezzoni di corteo furono sistematicamente bersagliati dai lacrimogeni e centinaia di loro furono pestati selvaggiamente. Ma, soprattutto decine di migliaia di loro, e le loro famiglie, furono spaventati a morte in una logica pienamente terroristica. Quanti dopo Genova sono rimasti a casa?<br />Di fronte all'immagine sorda data dai grandi della terra, Bush, Blair, Berlusconi, quel movimento pacifico, colorato, credibile, fatto di persone serie e non dei pescecani rinchiusi nella città proibita, che si era riunito intorno alle proposte concrete per un nuovo mondo possibile del Genoa Social Forum, doveva essere schiacciato. Non lo sapevamo, ma mancavano 50 giorni all'11 settembre.<br /><br />Riporto nel sito (RIPORTATO DI SEGUITO) <<a href="http://www.gennarocarotenuto.it/">http://www.gennaroc<wbr>arotenuto.<wbr>it/</a>><br />l'articolo dell'eccellente Massimo Calandri, apparso SOLO sulle pagine genovesi di Repubblica lo scorso 29 aprile. E' normale secondo voi? Esiste ancora il diritto ad essere informati in questo paese? Prima condanna per le violenze delle forze dell'ordine contro i manifestanti: "Non furono iniziative isolate" G8, condannato il Ministero - Missionaria picchiata, risarciti invalidità e danni morali "Ho solo ottenuto quello che attendevo da 6 anni: giustizia"<br /><br />MASSIMO CALANDRI<br />LA PRIMA condanna nei confronti del Ministero dell'Interno per le illecite e gratuite violenze dei suoi poliziotti è arrivata nei giorni scorsi, e cioè circa sei anni dopo la vergogna del G8 genovese. Ma le parole con cui il giudice istruttore Angela Latella ha motivato la sua decisione rinfrescano la memoria. Ricordando a tutti che quelle cariche sanguinarie,<wbr>quelle teste rotte a manganellate, quei lacrimogeni sparati contro le persone inermi, non erano frutto dell'iniziativa isolata o dell'autonomo eccesso di qualche agente. Facevano invece parte di un più ampio disegno -così<br />come le menzogne raccontate più tardi per coprire le nefandezze - , che rappresenta una delle pagine più buie nella storia della Polizia di Stato. Il tribunale del capoluogo ligure ha dato ragione a Marina Spaccini, pediatra cinquantenne di origine triestina, pacifista che per quattro anni ha lavorato in due ospedali missionari del Kenia. Alle due del pomeriggio del 20 luglio, era il 2001, venne pestata a sangue in via Assarotti. Partecipava alla manifestazione della Rete Lilliput, era tra quelli che alzava in alto le mani dipinte di bianco urlando: "Non violenza!". Gli agenti e i loro capi avrebbero poi raccontato che stavano dando la caccia ad un gruppo di Black Bloc, che c'era una gran confusione e qualcuno tirava contro di loro le molotov, che non era possibile distinguere tra "buoni" e "cattivi": bugie smascherate nel corso del processo, come sottolineato dal giudice. I cattivi c'erano per davvero, ed erano i poliziotti che a bastonate aprirono una vasta ferita sulla fronte della pediatra triestina. Dal momento che quegli agenti, come in buona parte degli episodi legati al vertice, non sono stati identificati, Angela Latella ha deciso di condannare il Ministero dell'Interno. La cifra che verrà pagata a Marina Spaccini non è certo clamorosa - cinquemila euro tra invalidità, danni morali ed esistenziali - , ma il punto è evidentemente un altro. «Se risulta chiaramente che la Spaccini sia stata oggetto di un atto di violenza da parte di un appartenente alle forze di polizia - scrive il giudice - , non si può neppure porre in dubbio che non si sia trattato né di un'iniziativa isolata, di un qualche autonomo<br />eccesso da parte di qualche agente, né di un fatale inconveniente durante una legittima operazione di polizia volta e riportare l'ordine pubblico gravemente messo in pericolo». Perché l'intervento della polizia non fu «legittimo», è ormai abbastanza chiaro. Lo hanno confermato i testimoni e in un certo senso gli stessi poliziotti e funzionari, con le loro contraddizioni: «Gli aggressori erano diverse decine; l'ordine era di caricarli, disperderli ed arrestarli», hanno detto, interrogati. Ma poi risulta che furono arrestati solo due ragazzi (non feriti), la cui posizione fu in seguito peraltro archiviata. La pacifista era assistita dagli avvocati Alessandra Ballerini e Marco Vano. Il giudice ha sottolineato come fotografie e filmati portati in aula «siano stati illuminanti»: «Si vedono ammanettare persone vestite normalmente; più poliziotti colpire con i manganelli una persona a terra, inerme. La stessa Spaccini è una persona di cinquant'anni, di cui giustamente si sottolinea l'aspetto mite». E poi, le testimonianze come quella di una signora settantenne che parla di una «manifestazione assolutamente pacifica e allegra» e di aver quindi visto agenti «bastonare ferocemente persone con le mani alzate ed inermi come lei». Marina Spaccini ha accolto il giudizio con un sorriso: «Era semplicemente quello che attendevo da sei anni. Giustizia»."lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-72086766386031106732007-05-01T12:52:00.000+02:002007-05-01T12:59:55.636+02:00Piani di zona a NapoliAd una ricerca veloce sui piani di zona a Napoli si trova pochissimo, quasi niente e per giunta relativa a tre-quattro anni fa. Un definizione chiara di cosa sono i piano di zona l'ho trovata sul sito <a href="http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/home/documentazione/pdz.htm">sociale </a>della regione Emilia-Romagna<br />"Piani Sociali di Zona (PdZ) sono lo strumento fondamentale per definire e costruire il sistema integrato di interventi e servizi sociali così come delineato agli artt. 2 e 3 della L.R. 12 marzo 2003, n. 2 di recente approvazione, ovvero di un sistema che mette in relazione i vari soggetti operanti sul territorio, istituzionali e non, con l´obiettivo di sviluppare e qualificare i servizi sociali per renderli flessibili e adeguati ai bisogni della popolazione. In quest´ottica la scelta della Regione Emilia-Romagna è stata di prevedere PdZ di livello sovracomunale, coincidente con l´ambito dei distretti sanitari: i Comuni associati a livello del distretto programmano il sistema dell´offerta al cittadino in area sociale, e in collaborazione con le Az.Usl integrano la programmazione sociale con quella sanitaria per offrire risposte unitarie e coerenti al bisogno di salute e benessere dei cittadini di uno stesso territorio.Il processo di costruzione dei PdZ parte dal territorio e si sviluppa sia attraverso il lavoro dei Comitati di Distretto, per la parte politica, sia attraverso il lavoro di tavoli tecnici e tematici cui partecipano non solo le istituzioni (in particolare Regione, Province, Comuni, Aziende USL, alcune amministrazioni statali), ma anche le IPAB, il mondo della cooperazione sociale e del volontariato, le organizzazioni sindacali e varie forme di associazionismo."<br />E poi qui per quanto riguarda <a href="http://www.edscuola.it/archivio/handicap/zona.html">edscuola-handicap</a><br />Su questo sito l'aggiornamento è fino al 2005: <a href="http://www.welfare.anci.it/servizio.asp?action=piani">welfare</a> dei Comuni e delle Unioni<br /><br />la domanda è: che nesso c'è tra i piani di zona e l'applicabilità del reddito di cittadinanza?lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-21649257752365635152007-04-15T16:27:00.000+02:002007-04-15T16:33:40.351+02:00Dedicato agli amici di Crisiecompagni e a tutti gli altri....La paranza di Daniele Silvestri<br /><br />Mi sono innamorato di una stronza<br />Ci vuole una pazienza<br />Io però ne son rimasto senza<br />Era molto meglio pure una credenza<br />Un fritto dii paranza., paranza...paranza<br />La paranza e una danza<br />Che ebbe origine sull’isola di Ponza<br />Dove senza concorrenza<br />Seppe imporsi a tutta la cittadinanza<br />É una danza<br />Ma si pensa rappresenti l’abbandono di una stronza<br />Dal calvario alla partenza<br />Fino al grido conclusivo di esultanza<br />Uomini uomini c’è ancora una speranza<br />Prima che un gesto vi rovini l’esistenza<br />Prima che un giudice vi chiami per l’udienza<br />Vi suggerisco un cambio di residenza E poi ci vuole solo un poco di pazienza<br />Qualche mese e già nessuno nota più l’assenza<br />La panacea di tutti i mali è la distanza E poi ci si consola Con la paranza<br />La paranza e una danza<br />Che si balla nella latitanza<br />Con prudenza E eleganza<br />E con un lento movimento de panza<br />La paranza e una danza<br />Che si balla nella latitanza<br />Con prudenza E eleganza E con un lento movimento de panza<br />Cosi da Genova puoi scendere a Cosenza<br />Come da Brindisi salire su in Brianza Uno di Cogne andrà a Taormina in prima istanza<br />Uno di Trapani? Forse Provenza No no no non è possibile<br />Non è raccomandabile Fare ritorno al luogo originario di partenza<br />Ci sono regole precise in latitanza E per resistere c’è la paranza<br />La paranza È una danza che si balla nella latitanza<br />Con prudenza, E eleganza E con un lento movimento de panza<br />Dimmi che mi ami che mi ami E quando ti allontani Per prima cosa mi richiami<br />In ogni caso è molto meglio se rimani Se rimandi a domani Dimmi che ci tieni che ci tieni<br />E pure se non vieni<br />In ogni caso mi appartieni E che ti manco più dell’aria che respiri Più di prima Più di ieri<br />Dov’è dov’è Tutti si chiedono Dov’è dov’è Ma non mi trovano<br />Lo sai che c’è’ Che sto benissimo Fintanto che Sto a piede libero<br />E poi perchè Ritornare da lei<br />Quando per lei è sempre stato meglio senza di me<br />Non riusciranno a prendermi<br />Io resto qui<br />La paranza es un baile Que se baila con la latitanza Con prudencia y elegancia Y con un lento movimiento de panza La paranza es un baile Que se baila con la latitanza Con prudencia y elegancia Y con un lento movimiento de panza<br />E se io latito latito<br />Mica faccio un illecito<br />Se non sai dove abito Se non entro nel merito<br />Se non vado a discapito Dei miei stessi consimili<br />Siamo uomini liberi Siamo uomini liberi<br />Stiamo comodi comodi Sulle stuoie di vimini<br />Sulle spiagge di Rimini Sull’atollo di Bimini<br />Latitiamo da anni Con i soliti inganni Ma non latiti tanto quando capiti a pranzo<br />E se io latito latito....lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-17197253.post-84522424313358785572007-03-29T18:45:00.000+02:002007-03-29T18:55:38.611+02:00Ondina se ne va[...]Non ci sono domande nella mia vita.<br />Amo l'acqua, la sua densa trasparenza,<br />il verde nell'acqua e le mute creature<br />(muta saro' presto anch'io!),<br />e i miei capelli, tra quelle, nell'acqua ...<br />L'umida barriera tra me e me.[...]<br /><br />Non avevo bisogno di essere mantenuta,<br />non pretendevo dichiarazioni o promesse solenni,<br />solo aria,<br />aria notturna, aria costiera, aria di confine,<br />per poter ogni volta riprendere fiato<br />per nuove parole, nuovi baci,<br />per una confessione senza fine:<br />Si'. Si'.<br /><br />Dopo aver reso la mia confessione<br />ero condannata ad amare;<br />quando un bel giorno mi liberavo dell'amore<br />ero costretta a ritornare nell'acqua,<br />nell'elemento dove nessuno si prepara un nido,<br />si costruisce un tetto sotto le travi,<br />si rifugia sotto un telone.<br /><br />Non essere in nessun luogo, in nessun luogo restare.<br />Tuffarsi, riposare muoversi<br />senza spreco di forze...<br />[...]<br /><br /><em>Ingeborg Bachmann, Il Trentesimo anno</em>lunanerahttp://www.blogger.com/profile/11981461643656257419noreply@blogger.com0