lunedì, luglio 06, 2009

MICROMEGA 4/2009

Il freddo inverno
della sinistra italiana


CONFRONTO TRA REVELLI, DAL LAGO, BRANCACCIO


Marco Revelli:



Se proprio devo fare outing, ammetto la mia colpa. Prima delle elezioni avevo dichiarato che questa volta non sarei andato a votare. Devo confessare che però, purtroppo, non ho mantenuto fede al mio proposito. Ho votato Rifondazione comunista, «facendomi pena!» – questa è l’espressione giusta – e tuttavia l’ho votata, con un voto di autentica disperazione, legato solo al desiderio (molto egoistico, me ne rendo conto) di non sentirmi troppo male con me stesso il giorno dopo di fronte ai risultati.

Considero comunque il mio voto un «errore» da un punto di vista strettamente politico. Perché credo che la stupidità in politica non debba godere dell’immunità. Che chi compie degli atti stupidi sia giusto che paghi. E quello che è stato posto in essere dalla sinistra, dalle diverse componenti della sinistra cosiddetta radicale negli ultimi mesi, nessuna esclusa, è sicuramente un comportamento segnato da profonda, grave dissennatezza politica.

Non voglio distribuire le responsabilità, che a mio avviso sono pari nelle diverse componenti. L’uscita dal parlamento a seguito delle elezioni politiche del 2008 poteva apparire come il risultato di una sorte ingenerosa, ma i mesi successivi, le vicende del congresso di Rifondazione, le scelte compiute dai gruppi dirigenti delle diverse anime di quella sinistra, hanno ampiamente giustificato la «sentenza di morte» emessa allora dall’elettorato (Sartori parlò di giusta cancellazione dei «nanetti», e sinceramente, col senno di poi, bisogna dire che non aveva torto).

Credo che non si possa ripartire dai gruppi dirigenti. Da «quei» gruppi dirigenti. I cocci non si possono rimettere insieme; con i cocci si può fare una buona esegesi delle fonti, se vogliamo, si può costruire una realtà museale, si può persino fare dell’estetica politica, ma non si rilancia un progetto. Con queste culture politiche, così come sono incarnate dai due gruppi dirigenti – parlo della sinistra radicale prevalente – non si può ripartire.

Diverso è il discorso sui due milioni di voti – espressione di una parte generosa e consistente della nostra società – che queste liste hanno comunque raccolto in occasione delle ultime elezioni europee. È da questi due milioni di voti che si dovrà ripartire, perché due milioni di orfani politici sono una realtà, un patrimonio che non deve essere disperso. Ma si dovrà ripartire, io credo, con linguaggi, riferimenti culturali, progetti, programmi e persone totalmente diversi.





Alessandro Dal Lago:



Anche io come Revelli avevo annunciato che non sarei andato a votare. Ovviamente la cosa non aveva importanza se non per me; tuttavia mi piaceva pensare che nel mio piccolo avrei contribuito a lanciare un messaggio. E devo dire che io ho tenuto fede al mio impegno. Aggiungo che non me ne sono pentito affatto.

Il messaggio che alcuni di noi volevano dare – e in questo sono assolutamente d’accordo con quanto ha appena detto Revelli – era diretto a gruppi dirigenti affetti – non solo da quest’anno, ma direi almeno dai tempi del governo Prodi – da stupidità politica oggettiva e recidiva. Il messaggio era chiaro: «andatevene». Un elettore qualunque, un cittadino qualunque di sinistra come io mi reputo, non ne può più di questi gruppi. E da questo punto di vista io sono abbastanza soddisfatto dell’esito delle elezioni. Naturalmente la mia è una soddisfazione amara, acre, anche perché non credo che il messaggio sarà accolto.

L’impressione che traggo da ciò che sto leggendo in questi giorni successivi alla tornata elettorale è che i vertici dei partitini continueranno tranquillamente con questi risibili giochetti politici, con queste aggregazioni fantasmatiche o divisioni totalmente insensate. E le responsabilità di tale situazione non possono essere addebitate a una sola persona o a un solo gruppo, ma vanno distribuite equamente.

Il ceto politico della sinistra radicale – ma sarebbe meglio definirla sinistra «sociale» – non mi pare abbia minimamente colto la gravità della fase e i messaggi che gli sono stati lanciati dal proprio elettorato.

Tuttavia non possiamo trascurare il fatto che due milioni di voti segnalano la persistenza di un bacino elettorale non piccolo in attesa di trovare una degna rappresentanza. È un dato rilevante anche perché io credo che questo bacino elettorale sia potenzialmente molto più ampio, se si considerano quelli che, come me, non sono andati a votare e i tanti che hanno scelto Di Pietro per una valutazione contingente e tattica legata a una sua maggiore visibilità in chiave antiberlusconiana. Sommando i voti raccolti dalle liste di sinistra, gli astenuti (che sono stati moltissimi sia alle elezioni del 2008 sia alle ultime europee) e i tanti elettori di sinistra che hanno scelto Di Pietro, si raggiunge una quota che secondo me si attesta attorno al 15 per cento dell’elettorato. Ed è una valutazione che ritengo molto, ma molto cauta, se si pensa che fino a poco tempo fa la sinistra sociale raccoglieva tranquillamente il 12 per cento dei voti e nel frattempo sono intervenuti mutamenti che potenzialmente ne accrescerebbero in modo rilevante la capacità di attrazione. Parliamo dunque di una fetta consistente di società, che se solo riuscisse a esprimere un progetto all’altezza riuscirebbe a incidere profondamente sugli equilibri politici del nostro paese.

Che cosa ci riserva il futuro? La mia impressione è che ci sia non solo un problema di classi dirigenti autistiche, chiuse nelle loro stanze e nei loro discorsi autoreferenziali, ma anche un problema più generale di struttura stessa della rappresentanza politica. Penso per esempio alle figure che periodicamente vengono presentate alle elezioni: non c’è nessun rapporto tra queste personalità e la società che dovrebbero rappresentare. Nessuno riesce mai a verificare il loro operato.

Io non sono contrario alle elezioni per motivi di principio: ovviamente la cosa ha un senso se è funzionale a un progetto politico. Ma la sinistra sociale non può rapportarsi al problema della rappresentanza in modo identico a quello degli altri partiti, se no viene meno la sua stessa ragion d’essere. Per dotare di maggiore concretezza il mio discorso posso citare l’esempio della stessa città in cui vivo, Genova, che è storicamente una città di sinistra. Beh, in questi anni io non mi sono mai accorto che Rifondazione o altre formazioni della sinistra esistessero, se non nei periodi elettorali o in qualche dibattito o polemica comunale. Ma tra un’elezione e l’altra nessuno chiama mai i cittadini a fare una discussione, a partecipare, a interloquire con i propri rappresentanti eccetera.

Ecco, io credo che il problema sia esattamente questo: la gente si è stufata di essere rappresentata da un personale politico del genere.





Emiliano Brancaccio:



Alle elezioni ho votato per la lista di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, e ho sottoscritto l’appello al voto per questa lista. Per esser sinceri fino in fondo, credo di averlo fatto con il sentimento di chi va verso una specie di «plotone d’esecuzione» politico. Infatti, dopo la discutibile scissione a opera di alcuni degli sconfitti di Chianciano, e con un partito che in questi anni è stato irresponsabilmente sradicato dal territorio e che di fatto ancora non dispone di un preciso progetto di costruzione del consenso, nutrivo dei dubbi sulla possibilità di raggiungere la soglia del 4 per cento. Ma il punto è che se anche la lista avesse raggiunto quella soglia, le cose in realtà non sarebbero cambiate moltissimo. Penso infatti che i problemi di fronte ai quali ci troviamo vengano da lontano e siano profondissimi. Anche per questo, se permettete, credo che per affrontare correttamente un discorso su quale futuro attenda la sinistra in Italia occorra sviluppare una breve analisi preliminare.

Il dato da cui penso sia necessario partire è che le ultime elezioni hanno confermato una tendenza già ben visibile da molti anni: i lavoratori subordinati – soprattutto i lavoratori con minori tutele che operano nel settore privato e con mansioni esecutive – hanno da tempo abbandonato i partiti socialisti e comunisti, cioè i partiti eredi più o meno legittimi della tradizione del movimento operaio, e hanno indirizzato sempre di più il loro voto verso le destre, specialmente verso le destre populiste. Questa tendenza è in atto in Europa e in Italia da circa un quarto di secolo, e non sembra minimamente arrestarsi. Anzi, secondo i dati di cui disponiamo, pare addirittura che stia rafforzandosi.

Ora, questi stessi lavoratori appaiono oggi particolarmente sensibili alle rivendicazioni legate alla difesa degli interessi territoriali e nazionali. Potremmo dire che nella loro visione il vecchio conflitto di classe svanisce, e viene soppiantato dal conflitto territoriale. Questo spostamento delle rivendicazioni dalla classe al territorio si compie in modo istintivo, ma non è né casuale né irrazionale. Questi lavoratori infatti percepiscono che l’apertura internazionale dei mercati e la conseguente maggiore circolazione mondiale dei capitali, delle merci e in parte anche dei lavoratori – in una parola la cosiddetta «globalizzazione capitalistica» – ha alimentato una guerra sempre più feroce tra i lavoratori. È una guerra mondiale tra poveri che deteriora le condizioni di lavoro, intensifica lo sfruttamento, comprime i salari e lo stato sociale, e crea quindi anche i presupposti per la crisi economica.

Ebbene, per difendersi da questa guerra i lavoratori evidentemente cercano risposte politiche. E bisogna ammettere che al momento essi trovano risposte soltanto a destra. Infatti, soprattutto a seguito della crisi, le destre (non soltanto le destre populiste e xenofobe, anche le destre tradizionalmente conservatrici) hanno accentuato i loro propositi di difesa dei capitali nazionali, si sono votate al protezionismo commerciale e hanno sempre di più insistito sul blocco dell’immigrazione quale valida risposta al conflitto tra i lavoratori che viene oggettivamente alimentato dalla globalizzazione.

Ora, è noto che una classica alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione consiste nel blocco dei movimenti di capitale. Vincolare questi movimenti significa infatti impedire ai capitali di scorrazzare liberamente da un capo all’altro del mondo a caccia dei massimi rendimenti, cioè delle maggiori possibilità di sfruttamento del lavoro. Significa quindi impedire ai capitali di mettere in sfrenata concorrenza i lavoratori a livello globale. Il problema è che oggi si parla di continuo di blocco dell’immigrazione ma non si spende nemmeno una parola sul blocco dei movimenti di capitale. E questo silenzio è uno dei numerosi sintomi della situazione di totale «imbambolamento» nel quale versano le sinistre.

Ma perché c’è questo silenzio? Come si spiega questo imbambolamento? Riguardo ai partiti socialisti europei, la risposta a mio avviso è che essi in questi anni non hanno semplicemente assecondato la globalizzazione capitalistica. In Europa i socialisti sono stati i principali fautori dell’apertura dei mercati. E hanno cercato di giustificare questo loro pieno sostegno alla globalizzazione sulla base di un totale travisamento dei fatti. Alcuni esponenti del socialismo europeo sono stati addirittura capaci di spacciare l’odierno internazionalismo del capitale (l’odierna apertura dei mercati) come una variante aggiornata del vecchio internazionalismo operaio (cioè del solidarismo internazionale che caratterizzava il movimento dei lavoratori). E invece bisognerebbe ricordare che i due movimenti sono in irriducibile conflitto, poiché se esiste l’internazionalismo del capitale allora la competizione globale tra lavoratori si intensifica e quindi l’internazionalismo operaio inevitabilmente deperisce e muore. Per quanto riguarda poi le sinistre comuniste, anticapitaliste e cosiddette «radicali», abbiamo troppo spesso assistito a comportamenti grotteschi, dettati da ignoranza e furbizia. Nel periodo di massimo splendore del movimento altermondialista, vi fu in effetti l’opportunità di lanciare una reale sfida per l’egemonia ai partiti socialisti, che all’epoca celebravano entusiasti le grandi virtù del liberismo. Accadde invece che ci si perse attorno a una serie di proposte folkloristiche e risibili, come ad esempio quella di contrastare la globalizzazione creando piccole comunità di autoproduzione e autoconsumo, magari nel nostro quartierino.

Ecco, secondo me in quella fase si sono perdute delle occasioni importanti. E in parte ciò è dipeso anche dal fatto che i gruppi dirigenti della sinistra «radicale» non hanno mostrato alcun interesse verso la possibilità di fare piazza pulita del folklore, per contendere realmente l’egemonia ai partiti socialisti. Invece sono apparsi più interessati a tenersi le mani libere per conquistare di tanto in tanto qualche contentino, qualche prebenda da quegli stessi partiti. Dunque, se i dirigenti della sinistra «radicale» se ne devono andare, un buon motivo per farlo è che hanno avuto delle occasioni storiche e le hanno malamente sprecate.





Revelli:



Dico subito che sono in radicale dissenso con quanto ha appena detto Brancaccio. In particolare sull’affermazione secondo la quale la chiusura dell’azione politica – e in particolare delle politiche economiche – entro i confini dello stato nazionale avrebbe potuto rappresentare la risposta vincente di una sinistra radicale rispetto alla resa delle sinistre socialiste e tradizionali alla globalizzazione e al liberismo.

Io non credo che si possa inseguire la destra sul terreno della rinazionalizzazione del confronto e del conflitto. Non è un caso che buona parte delle destre, anche quelle che sono state iperliberiste fino a ieri, riscoprano la dimensione nazionale. Certo, è una logica che forse paga dal punto di vista elettorale, ma è un dato di fatto che i neonazionalismi o i neoregionalismi abbiano tutti un segno di destra, siano ispirati da logiche di recinzione dell’identità, di costruzione più o meno artificiale di un «noi», di un’identità collettiva che si esprime nel rifiuto dei flussi provenienti dall’esterno, dell’«altro» in ogni suo aspetto, in primo luogo dei flussi di persone, di migranti, ma poi anche dei flussi di capitale. Non credo che si possa inseguire su quel terreno la destra perché ogni volta che si sono affermate logiche di recinzione nazionalistica, protezionistica, incentrate sull’identità nazionale, si è aperta la strada a soluzioni catastrofiche dal punto di vista politico: a dinamiche aggressive, belliciste, autoreferenziali, di cui il nazionalsocialismo è stata l’espressione estrema e più abominevole.

A me preoccupa moltissimo il segno con cui si stanno connotando le dinamiche politiche nella crisi; mi preoccupa moltissimo l’atteggiamento che una parte del mondo del lavoro sta assumendo nella ricerca di politiche di difesa. E che la questione della «difesa sociale» di quello che è stato il tradizionale insediamento di massa della sinistra, cioè del «mondo del lavoro», non sia una priorità assoluta. Una sfida per molti aspetti drammatica, e oggi in gran parte perduta. Rifiuto però nettamente l’idea che ciò possa passare attraverso una rinazionalizzazione del conflitto e della politica. Cioè attraverso un forzato e artificiale ritorno alle condizioni del secolo scorso, quello che a buona ragione poté effettivamente essere definito il «secolo del lavoro».

D’altra parte quando parliamo del mondo del lavoro, di comportamenti dei lavoratori, dobbiamo tener presente che anche in questo siamo anni luce distanti dal Novecento maturo, dal Novecento centrale. Non esiste più un mondo del lavoro omogeneo, unificato; le sue componenti sono estremamente frammentate, differenziate all’interno dello stesso mondo del lavoro subordinato, del lavoro dipendente, ma anche in rapporto alla galassia del lavoro autonomo. Così come sono diversificate le politiche di difesa che vengono selezionate e individuate. C’è una parte del mondo del lavoro che si difende dall’ipercompetitività della globalizzazione, dall’integrazione dei mercati del lavoro, dalla concorrenza del lavoro straniero con risposte di tipo leghista e di chiusura delle frontiere; ci sono altre parti del mondo del lavoro che si difendono cercando di rafforzare le garanzie tradizionali, gli ammortizzatori sociali, con pratiche neocorporative o micronegoziali, lasciando fuori ampi settori cresciuti all’esterno di quel sistema di welfare; ce ne sono altre che praticano il «si salvi chi può» individuale, moltiplicando gli straordinari, accettando condizioni indecenti, piegando la testa…

Siamo di fronte a un caleidoscopio all’interno del quale, d’altra parte, la qualifica di «lavoratore» non è più identificante. Se vogliamo, la crisi attuale ci mette di fronte a un mix costituito da una parte da bisogni postmaterialistici, così come sono stati definiti, e quindi da nuovi atteggiamenti nei confronti degli stili di consumo, dei beni «simbolici», delle pratiche di status, e dall’altra parte da un ritorno di bisogni crudamente materialistici, di reddito, di servizi essenziali, di protezione dall’impoverimento. Questi due elementi si intrecciano fortemente e determinano umori, sentimenti, atteggiamenti difficili da codificare, impossibili da ricondurre a un linguaggio politico razionale e coerente (come era abituata a fare la sinistra), e proprio per questo terribilmente pericolosi in politica, perché hanno tutti all’origine un elemento di invidia sociale, di rancore, di risentimento e di aggressività.

Ora, io credo che una sinistra adeguata a questo tempo debba imparare a misurarsi con questi nuovi veleni e costruire degli antidoti. Con umiltà. Sapendo che non ci sono ricette consolidate. Soluzioni già sperimentate. Che bisogno inventare, privilegiando l’ascolto di ciò che si muove nel sociale, prima di dare la stura ai proclami. È vero che la micropolitica dell’altermondialismo appare insufficiente rispetto alla dimensione dei problemi, ma la grande politica del neoprotezionismo non è la risposta adeguata.





Dal Lago:



Sì, anch’io non sono del tutto convinto dal discorso sul nazionalismo. Qualche settimana fa sono stati diffusi dati interessanti sul fatto che i salari italiani sono praticamente i più bassi d’Europa. È un dato che si riferisce a un ciclo lungo, che comincia probabilmente alla fine degli anni Novanta e continua fino a oggi. Questa tendenza si intreccia però con quello spostamento, a cui già si è fatto cenno, dai conflitti di classe a quelli territoriali, nonché a ciò che Revelli chiama i bisogni postmaterialisti. Io ho l’impressione che la destra vinca in tanti modi, ma soprattutto perché, rivolgendosi a questi segmenti differenziati di lavoratori, è stata capace di trasformare le rivendicazioni materiali in rivendicazioni simboliche.

Si è parlato molto dello sfondamento delle destre, e soprattutto della Lega, nei settori popolari e operai. Ma io vorrei sapere in che misura questi lavoratori trovano nelle destra la risposta a una condizione salariale che è fra le peggiori d’Europa. E parlo dei lavoratori dipendenti, figuriamoci se interpellassimo anche il vasto mondo del precariato… Questa contraddizione non è nuova nella storia. Penso ad esempio alla lotta politica nella Germania degli anni Venti e Trenta, quando prima dell’ascesa al potere di Hitler i comunisti e i nazisti si disputavano in gran parte uno stesso elettorato. Quindi siamo di fronte a un fenomeno pericoloso, ma che ha degli antecedenti storici. Io sono convinto che su questa contraddizione la sinistra radicale non è stata capace di intervenire e non solo per il carattere «micrologico» delle rivendicazioni altermondialiste, il vago solidarismo del consumo equo e solidale, le iniziative alla José Bové e tutte le cose simili, che alla fine hanno avuto – a mio avviso – un effetto di ottundimento generalizzato. Non è stata capace di intervenire su quella contraddizione perché ha fatto un discorso puramente ideologico, senza intercettare alcun tipo di istanza, né materiale né simbolica.

Un altro esempio che potrei fare da questo punto di vista è il problema del radicamento territoriale dei partiti. È assolutamente naturale e comprensibile che partiti come quello berlusconiano o lo stesso Pd non abbiano bisogno di radicarsi sul territorio e abbiano dunque abbandonato questo modello. Ma nel caso della sinistra radicale la cosa non ha assolutamente senso, perché non disponendo di mezzi economico-mediatici, la territorialità non può non essere uno degli elementi fondamentali dell’azione politica.

E questo è ciò che più è mancato alla sinistra radicale. È cominciato a mancare secondo me all’epoca di Bertinotti con i discorsi generici, puramente astratti, sul movimento no global eccetera; e continua a mancare con l’incapacità delle piccole élites locali e nazionali di questi partiti a intervenire sulla contraddizione fondamentale fra ordine materiale e ordine simbolico. Ritengo che qui vada individuato uno degli elementi essenziali dell’attuale crisi. Resta nondimeno il fatto che, come dicevo prima, c’è ancora una consistente fetta di elettorato disponibile a, come dire, non «nazionalizzarsi», a non «territorializzarsi» in senso leghista. Questo elettorato, questo settore sociale che si esprime anche attraverso le elezioni, continua a fare delle domande a cui nessuno risponde.









Brancaccio:



È positivo che Revelli abbia espresso il proprio dissenso in maniera netta. I grandi problemi di fronte ai quali ci troviamo hanno bisogno di prese di posizione chiare, e la mia posizione è alternativa rispetto a quelle da tempo sostenute da Revelli.

Io non condivido innanzitutto la sua analisi della frammentazione intervenuta nel mondo del lavoro. Non dimentichiamo che le divisioni che hanno investito il lavoro sono state determinate in misura rilevante da una serie di scelte politiche. Queste scelte hanno contribuito a determinare una profonda differenziazione nei salari, nelle condizioni di lavoro e nelle tutele. È una differenziazione che ha accentuato la guerra tra lavoratori di cui parlavamo prima: privati contro pubblici, precari contro stabili, giovani contro anziani, e adesso soprattutto nativi contro immigrati. E oggi vi è chi gioca e specula su queste fratture tra i lavoratori, alimentando ulteriormente il conflitto tra di essi. Del resto, sono proprio queste grandi differenze tra i lavoratori ad aver creato le condizioni per una sconfitta generale del lavoro sia nei processi di distribuzione del reddito, sia nella scelta dei metodi e dei ritmi produttivi, sia nel tipo di produzione che si voleva realizzare.

L’accenno ai bassi salari italiani che ha appena fatto Dal Lago è utile all’interno della nostra conversazione. È l’ulteriore dimostrazione che la globalizzazione capitalistica non favorisce la convergenza tra i paesi, come dicono i liberisti, ma produce divergenza a tutto tondo. A questo riguardo l’Italia è uno dei paesi che ha maggiormente arrancato in Europa, e che ha quindi subìto un pesante distanziamento in termini di redditi e di salari rispetto alle aree centrali dell’accumulazione capitalistica europea.

Dunque il punto di fondo è questo: se noi continuiamo a manifestare una certa pruderie, una certa inquietudine nei confronti della proposta di bloccare i capitali e di ridurre l’apertura dei mercati, rischiamo di cadere in un equivoco colossale. Mi spiego: io sostengo che un’epoca di rinnovata coesione e protagonismo del movimento dei lavoratori a livello globale, un’epoca di nuovo «internazionalismo operaio», potrà fiorire solo in seguito a un processo di rinnovata segmentazione e divisione dei mercati, partendo dai mercati finanziari per arrivare eventualmente anche ai mercati delle merci.

Quando si dice di temere una «deriva nazionalista» secondo me si cade in un equivoco, perché occorre riconoscere che sul piano storico il movimento dei lavoratori si sviluppa a livello internazionale proprio in relazione a dei processi di segmentazione e di irrigidimento dei mercati finanziari e delle merci, non certo grazie a una loro apertura. Quando si è verificato un processo di apertura globale dei mercati finanziari e delle merci, la competizione è diventata sfrenata e il movimento internazionale dei lavoratori ha ripiegato su se stesso, fino a implodere.

Questo è un punto molto importante, nel senso che o capiamo questo fatto ed esigiamo una presa di posizione precisa su questo problema, oppure continueremo a essere vittime di esponenti politici che attraverso una pletora di chiacchiere cercheranno di coprire le peggiori nefandezze. Tanto per fare un esempio, legato alla contingenza politica più spicciola, subito dopo le elezioni ho sentito l’ex segretario di Rifondazione Franco Giordano parlare di grandi scenari, grandi prospettive e così via, e immediatamente dopo chiedere a Linda Lanzillotta – una delle esponenti del centro-sinistra che più si è distinta per subalternità al pensiero unico liberista nonché fra i principali sostenitori della privatizzazione dei servizi pubblici – se vi fosse un po’ di spazio per Sinistra e libertà nelle future strategie del Partito democratico, senza nemmeno chiarire i termini di un eventuale accordo. Ecco, io credo che questo iato spaventoso tra dichiarazioni roboanti e pratica politica effettiva sia un altro sintomo della profonda crisi nella quale ci troviamo immersi. Se non facciamo muro, avanzando analisi e proposte politiche precise e alternative, secondo me non ne usciremo mai.





Revelli:



I termini del dissenso con Brancaccio si sono fatti espliciti. È un dissenso molto forte, molto netto, molto polarizzato. Io non credo assolutamente che la metamorfosi radicale dell’universo del lavoro a cui abbiamo assistito nell’ultimo quarto di secolo sia ascrivibile solo a scelte e a ragioni politiche. Ci sono delle dinamiche profonde, tecnologiche, organizzative, di «paradigma» vorrei dire, che hanno determinato tutto questo. Indubbiamente ci sono degli imprenditori politici che hanno quotato alla borsa del consenso i risultati di questo processo e hanno enfatizzato gli aspetti torbidi che esso implicava. Penso al fenomeno della xenofobia e al modo in cui la Lega utilizza la paura e la competizione fra lavoratori. Ma la politica non è l’unico fattore esplicativo di ciò che è accaduto nella società.

Dal 1980 a oggi io ho visto la mia città, Torino, mutare faccia dal punto di vista della sua composizione sociale per effetto di potentissimi processi tecnico-organizzativi. Ho visto la Fiat Mirafiori svuotarsi, passare da 60 mila operai (con 130 mila dipendenti complessivi di Fiat Auto) a 10 mila… Tutto questo non è solo il prodotto di scelte politiche, ma ha a che fare con le trasformazioni profonde nel corpo del capitale. Non credo quindi che sia «politicizzando» radicalmente la questione che noi ne veniamo a capo.

Così come continuo a essere convinto che la segmentazione su base nazionale dei mercati, come Brancaccio la propone, sia un’operazione devastante, in primo luogo per quanto riguarda la ricaduta di ciò sulle «culture politiche» implicate nell’operazione, e sugli atteggiamenti di massa, le dinamiche simboliche, le mentalità collettive che dovrebbero necessariamente essere mobilitate in quest’operazione di intervento massiccio sulle strutture economiche e finanziarie. Risegmentare mercati che si sono integrati significa costruire barriere, fratture, confini attraverso l’impiego di valori simbolici aggressivi, perché la rinazionalizzazione implica identità omogenee, coese, territorialmente radicate e obiettivamente fascistoidi. Vuol dire un impiego massiccio della logica «amico-nemico», l’invenzione di una qualche tradizione e di una qualche antitesi negativa, un’alterità attraverso cui simbolizzare un esterno che non c’è più, ma di cui c’è necessità se si vuole «recintare» il noi…

Il tentativo di ricondurre a logiche nazionali il primo processo di globalizzazione ha prodotto veleni a destra e a sinistra: ha prodotto il nazismo e la degenerazione della rivoluzione russa in nazionalbolscevismo. Sono assolutamente terrorizzato dall’esito che potrebbero avere tentativi di questo tipo oggi, con la potenza assunta dagli apparati di comunicazione.

Io credo che alla globalizzazione un merito possa essere riconosciuto. Non sono fra quelli che l’hanno criticata e contrastata in tutti i suoi aspetti: l’apertura dei confini asfittici delle dimensioni nazionali è stata a mio avviso un vantaggio per l’umanità. Pone ovviamente dei giganteschi problemi di governance, di gestione politica del processo, ma non possiamo rifiutare queste opportunità e queste prospettive in quanto tali.. La sinistra non è stata capace di nuotare in questo nuovo mare senza andare a ricercare ricette vecchie, ricette novecentesche. Cerchiamo di evitare che naufraghi l’intera, fragile, umanità presente e futura.





Dal Lago:



Da quando i fenomeni migratori (e le problematiche a essi connesse) hanno conquistato una certa importanza in questo paese, all’interno di una certa sinistra si è diffuso il concetto di «guerra fra poveri», che secondo me è fondamentalmente sbagliato. Cerco di spiegarmi: il conflitto a cui si fa riferimento con questa espressione è in larga parte un conflitto immaginario, non un conflitto reale. L’operaio che decide di votare Lega o Pdl è comunque uno che in un paese come l’Italia ha un salario basso: parliamo di un salario che oscilla fra i 700 e i 1.200 euro al mese ed è – come si è detto prima – fra i più bassi d’Europa. L’elemento di riterritorializzazione – che prenda la forma di una regionalizzazione oppure di una nazionalizzazione della sua identità – ha un valore di supplenza evidente; ma se poi torniamo a guardare all’aspetto eminentemente materiale, al lato degli «interessi», questa territorializzazione non porta alcun tipo di vantaggio.

Negli anni scorsi abbiamo tanto criticato un approccio esclusivamente economicista e materialista da parte della sinistra, ma tenendo fede a quell’approccio è facile rendersi conto che gli «interessi» non c’entrano con la paura nei confronti della moschea del quartiere o degli immigrati in generale, paura che poi si materializza in cose orripilanti come i respingimenti in mare, che altro non sono che «omicidi preventivi» di esseri umani.

Non esiste un conflitto tra segmenti diversi del mondo del lavoro, non esiste un conflitto reale, perché stiamo parlando di immigrati che per lo più hanno salari risibili e sono impiegati in settori del tutto diversi da quelli in cui sono impiegati gli italiani. Un italiano non accetterebbe mai il salario di 400 euro di un rumeno al quale magari quei soldi sembrano molti se comparati ai 150 euro che guadagna in Romania.

In queste forme di chiusura che sfociano nell’intolleranza e nella xenofobia io vedo piuttosto l’esito del disagio – a cui hanno contribuito tanto le scelte politiche del centro-destra quanto quelle del centro-sinistra – dovuto alla marginalizzazione del lavoro nella società contemporanea. Disagio che, filtrato da determinati processi di «simbolizzazione», si sfoga contro gli immigrati e i «diversi» in generale.

Ma se le cose stanno così oggi, non sono date così per sempre e sono quindi in qualche misura modificabili. Dove purtroppo io scorgo il fallimento decisivo della sinistra, chiamiamola così, «di classe» è nell’aver ignorato il problema con discorsi molto astratti oppure nell’aver assecondato spinte di tipo – lo dico tra molte virgolette – «neoxenofobe». La priorità che la sinistra sociale dovrebbe porsi è dunque quella di tornare a intervenire su tali questioni, riscoprendo la riflessione sugli interessi ma anche lavorando sui simboli.

Anche io condivido quanto detto da Brancaccio sullo iato incredibile fra dichiarazioni roboanti come quelle di Giordano seguite da richieste pigolanti di collaborazione rivolte al Pd, ma qui siamo di fronte a un più generale problema di qualità scadente di questo ceto politico. È gente che è rimasta indietro di vent’anni, che non è assolutamente in grado di capire la nuova situazione che si è venuta a creare e soprattutto che difende le proprie posizioni acquisite. Per esempio nelle tentazioni di ritorno all’Unione che nelle giornate postelettorali sono filtrate con evidenza da Sinistra e libertà io vedo semplicemente il disperato tentativo di questi microgruppi politici, di trovare comunque una collocazione, a tutti i costi.





Brancaccio:



La posizione di Revelli è sbagliata. Ed è una posizione, io dico, superata, nel senso che la traccia sviluppata da Revelli ha ispirato negli ultimi anni tutta una serie di ricerche teoriche e iniziative politiche che sono state al centro del dibattito e non mi pare che abbiano dato risultati particolarmente positivi.. C’è una generica propensione globalista da parte della sinistra cosiddetta radicale che è il frutto di uno spaventoso equivoco, equivoco in cui lo stesso Revelli mi pare cada pesantemente.

Nel momento in cui si accetta l’impianto interpretativo proposto da Revelli e sostenuto da numerosi, vecchi esponenti della sinistra radicale, il flusso di voti dei lavoratori e delle fasce popolari che si indirizza verso la destra – soprattutto quella populista e xenofoba – è destinato a diventare inarrestabile.

Ha ragione Dal Lago nel sostenere che esiste una dimensione «simbolica» che forze come la Lega riescono a proporre con estrema efficacia, ma, adottando una chiave interpretativa storico-materialista aggiornata, credo che questa scissione concettuale tra dimensione materiale e dimensione simbolica debba essere superata. Il conflitto simbolico infatti da solo non può sussistere. Esso prospera solo se esistono tendenze materiali potenti che lo sostengono. E queste tendenze ci sono. Da un punto di vista economico, la tesi che porta avanti Dal Lago è in fondo la tesi della «segmentazione del mercato del lavoro». È una interpretazione che tra gli economisti ha avuto un certo seguito negli anni passati. Secondo questa lettura gli immigrati non concorrono con i nativi perché si collocano in segmenti del mercato del lavoro diversi, non concorrenziali.

Purtroppo però dobbiamo rilevare che oggi il mercato del lavoro è sempre meno segmentato ed è sempre più fluido, e quindi i diversi lavoratori sono sempre più fungibili tra loro. Insomma, per usare un’espressione marxiana, il lavoro si fa «astratto». Questo significa che la competizione tra lavoratori nativi e immigrati si sta effettivamente realizzando, nel senso che l’apertura dei mercati – dei capitali e delle merci in primo luogo, ma anche l’accelerazione dei flussi migratori – sta determinando una convergenza verso il basso dei salari, delle condizioni lavorative e dello stato sociale. E sta anche determinando un conflitto per l’occupazione degli spazi metropolitani.

I dati purtroppo ci dicono questo. E allora insisto sul punto che ho introdotto nel mio primo intervento. Se noi vogliamo trovare una credibile alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione che la destra propone con tanto successo in questa fase, allora dobbiamo proporre un altro tipo di blocco, che sia innanzitutto blocco dei movimenti di capitale. In estrema sintesi, io dico: se vogliamo «liberare» i migranti, dobbiamo «arrestare» i capitali.

Se invece insistiamo su una concezione tutto sommato favorevole al globalismo, temendo che un approccio alternativo possa essere foriero di chissà quali pericoli nazionalisti e guerrafondai, secondo me ribaltiamo in modo del tutto erroneo i termini del problema: cioè non ci rendiamo conto che il blocco dei capitali è proprio la necessaria risposta di sinistra a un futuro di violenza nazionalista, fascista e guerrafondaia verso il quale stiamo drammaticamente scivolando.





Revelli:



Le divergenze che sono emerse nel nostro dialogo ci mostrano quanto siano profondi i problemi che abbiamo di fronte e quanto di fatto la sinistra, che ha ormai perso le proprie stelle polari, abbia necessità di essere completamente ripensata.

Dovendo però tirare le somme rispetto alla questione primaria sulla quale siamo stati chiamati a discutere – ovvero il futuro della sinistra radicale in Italia – vorrei solo proporre un paio di considerazioni. Quale sarà lo scenario nel quale ci si muoverà nei prossimi mesi, nei prossimi anni? Io credo che con le ultime elezioni sia stata sconfitta innanzitutto una tendenza che era alla base del recente processo di riorganizzazione del sistema politico italiano, ovvero la tendenza al bipartitismo. L’idea di un sistema politico strutturato su due grandi partiti egemonici è saltata completamente, sia sul versante del Pdl, sia sul versante del Pd, perché gli unici che si sono rafforzati sono coloro che stavano fuori da quello schema, cioè la Lega e Di Pietro.

L’altro elemento – collegato al precedente – che le recenti elezioni ci restituiscono è il fallimento del progetto di autosufficienza perseguito dal Partito democratico, l’archiviazione della sua «vocazione maggioritaria». Il Pd ha raggiunto a malapena la metà dei consensi che dovrebbe ottenere per poter avere una risicata maggioranza. Questo significa che nei prossimi mesi, nei prossimi anni ci muoveremo in un ambiente totalmente liquido dal punto di vista dei soggetti politici, perché i due partiti attorno ai quali doveva essere ridisegnata la nostra impalcatura istituzionale non hanno retto l’urto delle spinte centrifughe. Tutto ciò rende ancora più drammatiche le considerazioni che facevamo prima, sia per quanto concerne il conflitto tra segmenti del mondo del lavoro a cui faceva cenno Brancaccio, sia per quanto riguarda il timore di soluzioni neorazziste e neoautoritarie.

Credo che questo dovrebbe però richiamare a un senso di responsabilità chiunque oggi si muova nel nostro universo politico. Non abbiamo di fronte una primavera tranquilla; abbiamo di fronte, come diceva Weber all’inizio degli anni Venti, un freddo inverno, rigidissimo, in cui ognuno dovrà assumersi responsabilità pesanti.





Dal Lago:



Prima di concludere vorrei tornare in maniera molto rapida sulla questione del blocco dei capitali. In realtà questa strategia di un capitalismo «nazionale» il governo di destra italiano l’ha in qualche modo praticata, almeno a parole. Pensiamo alle vicende Alitalia e Fiat.

In ogni caso, tornando a quanto diceva Revelli sull’inverno assai lungo che abbiamo di fronte, cerco di sforzarmi di intravedere qualche elemento che possa non farci disperare del tutto. Sono d’accordo sul fatto che la situazione sia in movimento, soprattutto grazie all’evidente battuta d’arresto subita dal progetto di controllo bipartitico sulla geografia politica italiana. Aggiungo anche che la fluidità dell’assetto a cui siamo per adesso approdati è accresciuta dal carattere a mio parere occasionale e provvisorio – per quanto il ciclo possa non esaurirsi in tempi brevissimi – di fenomeni politici come quello che vede protagonista Antonio Di Pietro.

In realtà la situazione è molto più fluida e complicata di quanto non si pensi. La stessa affermazione della Lega – per quanto giudichi terrificante il fatto che un partito del genere si attesti al 28 per cento in Veneto e abbia consensi enormi in tante altre zone del Nord – non credo possa proiettare questa formazione in una dimensione nazionale come qualche osservatore ha affermato subito dopo le europee, commentando la penetrazione appenninica del partito di Bossi in Emilia e Toscana.

Che fare allora all’interno di un quadro dai contorni così incerti? Secondo me le cose essenziali per la sinistra sono due. In primo luogo occorre ripensare il rapporto tra elettorato e rappresentanza. Insisto su questo perché i meccanismi che si sono affermati negli ultimi dieci anni e che hanno accompagnato la partecipazione delle varie formazioni di sinistra ai governi si sono dimostrati fallimentari. Inoltre ritengo esista una questione di leadership politica, di qualità della leadership, di rapporto tra i leader e la propria base elettorale o sociale, che non può essere più aggirata. I personaggi che anche nei giorni successivi all’ultima, ennesima sconfitta elettorale abbiamo visto ricominciare coi soliti giochetti politicisti devono, secondo me, essere buttati fuori. Se ne devono tornare a casa, dal primo all’ultimo, tutti i leader nazionali. Non ci sono alternative.

La seconda questione che ritengo sia essenziale per una rifondazione della sinistra anche localmente rimanda alla necessità di allargarsi al contributo del mondo del lavoro, della società civile, degli intellettuali, di chi è impegnato nelle associazioni e nei movimenti territoriali. Attraverso questo coinvolgimento allargato è forse possibile ricominciare a ragionare in termini di interessi concreti e di appropriate rappresentazioni simboliche, magari dotandoci di strumenti analitici e riferimenti nuovi, senza perdersi in discorsi del tutto autoreferenziali. Ho trovato ad esempio penosi questi dibattiti sulla «falce e martello sì», «falce e martello no» ai quali è sembrato ridursi il confronto politico a sinistra negli ultimi mesi.. Sono chiacchiere che non hanno veramente più nessuna importanza, sono al di fuori di qualunque senso della realtà. Credo che il problema della rappresentanza e quello dell’identificazione delle motivazioni fondamentali dell’agire politico siano i due campi dai quali si deve ripartire.





Brancaccio:



Mi pare che almeno su un punto siamo tutti d’accordo, e cioè che sarà lungo e freddo l’inverno che ci attende. Prima però di affrontare la questione del futuro della sinistra italiana, devo rispondere a Dal Lago sul blocco dei capitali. Questo governo non sta agendo nella direzione del controllo dei capitali. Anzi, questo governo in realtà latita in un momento nel quale effettivamente le destre tradizionali europee si sono mosse a protezione dei capitali nazionali: il caso Fiat-Chrysler-Opel è indicativo proprio della latitanza del governo nazionale su questo versante, con rischi occupazionali elevatissimi dei quali ci accorgeremo a breve.

Aggiungo anche un altro chiaro esempio del fatto che al momento non c’è alcun blocco dei capitali. Poiché i mercati finanziari sono completamente globalizzati, i paesi relativamente deboli come il nostro sono tutt’ora esposti al rischio di un attacco speculativo sui titoli nazionali, cioè di una fuga di capitali all’estero. Si tratta di un attacco che questa volta potrebbe avere ripercussioni ancora più violente di quelle che si ebbero nel 1992 e che oltretutto decretarono una sconfitta pesantissima della sinistra sindacale e politica. Ovviamente, se venisse introdotto un meccanismo di blocco dei movimenti di capitali, il rischio di un attacco speculativo potrebbe essere scongiurato. Ma di blocchi al momento non si vede traccia, e quindi il pericolo è sempre in agguato.

Per quanto riguarda le prospettive di una ricostruzione politico-organizzativa della sinistra in Italia, dico con franchezza che non sono interessato a progetti politici che non si pongano come obiettivo chiave quello di invertire il flusso di voti che abbandona i partiti eredi (più o meno degni) della tradizione del movimento operaio e che si indirizza verso le destre populiste e xenofobe. La sinistra dovrebbe in primo luogo tentare di riconquistare la fiducia di quei lavoratori in condizioni di estremo disagio, che oggi in Italia, purtroppo, sono moltissimi, e che le hanno da tempo voltato le spalle. Se non lo fa allora è spacciata.





(a cura di Emilio Carnevali)

Il silenzio è d'oro

Sono tempi in cui sembra che parlare, parlare, parlare, non servi ad alcunchè...anzi non serva proprio a niente.Rimanere ad osservare, a scrutare le pieghe, a trovare nuovia argomenti forse è la cosa migliore. Qualcuno mi ha detto: sono i tempi del cecchino.Bisogna sapere attendere....Sono tempi di tardo Impero....

lunedì, giugno 30, 2008

Osservazione

Ho letto crisieconflitti più volte, svariati articoli , ma temo che
pecchi in qualcosa , troppo lontano dai temi di tutti i giorni, pardon
nn che per un operaio nn sia importante capire il mondo capitalista,
ma secondo me questa rivista dovrebbe integrare a quello che fa una
ulteriore denuncia sociale ed essere più attivista.

roccovalentino.frontuto

giovedì, maggio 01, 2008

Bifo a proposito di...

Nel suo recente libretto intitolato "De quoi Sarkozy est-il le nom?" Alain Badiou dice a proposito delle elezioni francesi qualcosa che possiamo ripetere per quelle italiane, cioè che esse sono state dominate dalla paura. Che la destra faccia della paura il suo argomento principale è cosa nota. La destra è paura del divenire e del dissolversi che il divenire porta in sé. Sicurezza è la parola chiave della destra perché è segno della paura: paura dell'inevitabile, cioè del venir meno, del confondersi, del dissolversi, del morire. Chi è saggio si libera dal bisogno di sicurezza perché la sicurezza non esiste, se non nel suo significato etimologico di
assenza di paura (sine cura), cioè come libertà dall'ansia sicuritaria.
L'ansia sicuritaria è il modo migliore per aumentare l'insicurezza e l'unica sicurezza consiste nel non aver paura del possibile, nel non temere
l'inevitabile.

La destra non è saggia, questo è noto, ma la sinistra vi pare lo sia? Da tempo la sinistra non ha altro argomento se non la paura della destra:paura di coloro che hanno paura, paura doppia che introietta il culto della sicurezza in nome della paura altrui. Gran parte di coloro che hanno votato per il partito democratico, lo hanno fatto perché avevano talmente paura della destra da votare un partito che disprezzavano, un partito subalterno al declinante impero americano, succube dell'ingerenza vaticana, sottomesso ai voleri confindustriali. E chi ha votato Sinistra arcobaleno, perché l'ha fatto, se non per paura? Nessuno più credeva nella
possibilità di un rovesciamento del neo-liberismo capitalista per via
parlamentare. Dopo il governo Prodi, dopo il protocollo Welfare, dopo gli
scaloni che diventano scalini, insomma, dopo il governo più autolesionista
della storia non c'era altra ragione di votare Sinistra Arcobaleno se non
la paura che potesse accadere esattamente quello che è accaduto: la
scomparsa.

Ma di cosa abbiamo paura effettivamente? Chi vota a destra ha paura della criminalità. Non serve a niente spiegargli che i delitti sono diminuiti negli ultimi anni e che nessuna politica della sicurezza ridurrà la violenza, fin quando la cultura dominante sarà fondata sul mix di repressione e ipersessualizzazione, e fin quando l'aggressività maschile sarà esaltata dalla competizione.
E la sinistra di cosa ha paura? di Alemanno e di Tremonti? Tremonti (come sa chi ha letto il suo libro Paura e speranza) esprime programmi molto più critici verso il liberismo di quelli realizzati dai governi di centro sinistra, e Alemanno non è più fascista di Cofferati, quando si tratta di manganelli.
Quanto alla paura di Berlusconi, è paura retroattiva, perché quello che Berlusconi poteva fare l'ha già fatto. Si è impadronito dell'intero sistema comunicativo, lo ha trasformato in una macchina schiaccia-cervelli, ha prodotto una mutazione psico-culturale definitiva per un paio di generazioni. E nessuno ha mai cercato di impedirglielo, meno che mai i governi di centro-sinistra che hanno ignorato la questione fondamentale: la questione della libertà di pensiero, che i fascismi passati cancellavano con la censura, e il nuovo potere cancella con il rumore
bianco. Berlusconi ha vinto tutto quello che si poteva vincere. Craxi gli ha fatto da tappetino negli anni '80, D'Alema gli ha fatto da tappetino negli anni '90, Prodi e Veltroni gli hanno fatto da tappetino negli anni 2000. Che altro volete che faccia il pover'uomo? I Moretti, i Di Pietro, i Travaglio continueranno a piagnucolare, ma il rancore retroattivo non servirà a cambiare l'irreversibile.

Sono dunque i simboli che ci fanno paura? Ci dispiace che la gente gridi "Duce Duce"?
Lasciamo da parte i simboli e guardiamo alla sostanza: il governo Berlusconi del 2008 per i salariati sarà migliore del governo Prodi. Sarà meno subalterno agli ordini della Banca europea e meno tremante agli imperativi della Confindustria. Qualcuno dice che la destra italiana è pericolosa. Per quel che ne so io il primo Ministro degli Esteri che ha violato l'articolo 11 mandando gli aerei italiani a bombardare un paese sovrano con l'uranio impoverito, provocando morte e malattia non solo ai
bombardati ma anche a centinaia di soldati italiani, si chiama Massimo D'Alema, e nella geografia politica ufficiale starebbe a sinistra. E allora di cosa abbiamo paura?

Il motivo profondo della paura non è stupido. Non lo vediamo perché operiamo quella che la psicoanalisi chiama "rimozione". Cerchiamo di non vedere la causa vera della nostra paura, che è il progressivo dispiegarsi di una catastrofe che sta ormai investendo la civiltà terrestre. Cerchiamo di non vedere gli effetti che il capitalismo liberista ha depositato nel cuore e nella mente dell'umanità, nella superfice fisica del pianeta, nella consistenza velenosa dell'aria. Abbiamo paura dell'impotenza della politica, dell'incapacità collettiva di arrestare o anche solo rallentare l'accumularsi della devastazione psico-fisica.

Cerco di tirare delle conclusioni del mio ragionamento: quel che è successo
in Italia ha poca importanza. Non accadrà nulla di catastrofico. La
catastrofe non viene da quelli che hanno vinto le elezioni, ha cause più
profonde e dimensione molto più ampie. Di questo dobbiamo occuparci, non
del farsesco ritorno delle camicie nere. E per questo non serve a niente
recriminare, nè rimpiangere governi di sinistra che nulla fecero per
ostacolare la violenza del capitale. Non serve a niente neppure racimolare
quel che resta di un passato non molto glorioso per prepararsi alle
prossime scadenze elettorali. Quelli che pensano alle elezioni del 2013 mi
fanno ridere. Non tanto perché nel 2013 potrei non esserci, ma perché è
probabile che non ci sia più il mondo. Per lo meno il mondo come lo abbiamo
conosciuto nel corso dell'epoca moderna.

Pensiamo alla prossima generazione. Cresce nel rumore bianco dell'ipermedia, mentre le strutture scolastiche della trasmissione di sapere stanno crollando, non solo perché sono private di risorse, ma soprattutto perché la mente docente non è più in grado di comunicare con la mente discente, per un problema di difformità tecnica, per incompatibilità dei formati. Affettivamente incapaci di fare comunità, culturalmente privi di difese critiche, tagliati fuori da ogni memoria storica, la nuova generazione è già oggi preda di un sistema basato sull'ipersfruttamento, la
precarietà, la violenza autolesionista. Negli ultimi dieci anni il cancro ai polmoni si è moltiplicato per tre volte nella popolazione delle grandi città. Polveri sottili e scorie tossiche come peste invisibile diffonderanno la malattia nella maggioranza della popolazione. La fame che negli ultimi cinquant'anni recedeva ora ha ripreso ad espandersi perché i Suv possano continuare ad inquinare.

Un tempo dicevamo che la classe operaia combatteva una battaglia per i suoi interessi, ma che dall'esito di questa battaglia dipendeva il futuro di tutta l'umanità. Era vero. La classe operaia ha perso e con quella sconfitta è imploso il futuro di progresso dell'intera umanità.
Ricompattare l'esercito disperso del lavoro è un compito al quale non possiamo sottrarci, perché forse ci aspetta nel futuro una nuova stagione di lotta operaia. Ma non possiamo pensare che si ripresentino gli scenari novecenteschi del socialismo, perché il discrimine oggi è più radicale: da una parte c'è la libertà umana, dall'altra l'automatismo catastrofico dell'economia capitalista.
E' possibile affrontare questa problematica con gli strumenti della
democrazia rappresentativa, e le mitologie della sinistra storica? Credo di
no.
Ci sono altri strumenti che permettano di comprendere e di trasformare? Per il momento non mi pare che ci siano. Il primo compito è costruirli, non salvare qualcosa del passato.

domenica, marzo 30, 2008

IL CAPITALISMO HA I GIORNI CONTATI

Il capitalismo ha i giorni contati. Con l’avvento delle nuove “economie straccione” dei paesi emergenti (p. es. Cina, India), i capitali delle nazioni industrializzate sono dirette verso questi paesi, convogliando una quantità abnorme di investimenti nel nome del profitto. Ciò finisce per aprire ancora di più la forbice della disuguaglianza tra classi sociali più ricche e classi sociali più povere, spazzando di fatto la classe media o quello che ne resta.
In nome di questo capitalismo selvaggio stiamo assistendo, quali spettatori, ad un arricchimento ulteriore delle classi dirigenti ed industriali, sempre più marcato.
Da quindici anni a questa parte, un gran numero di imprese transnazionali chiudono (o nella ipotesi più benevola, riducono), gli impianti che si trovano nei paesi occidentali, per trasferirli (nel linguaggio più crudo), in questi paesi in fase di espansione. Un classico esempio è quello in cui noi consumatori acquistiamo prodotti fabbricati in questi paesi, aumentando conseguentemente la disoccupazione in occidente.
In teoria si dovrebbe creare sviluppo in questi paesi e dovrebbe migliorare il tenore di vita delle popolazioni, però purtroppo non è cosi.
Le domande che sorgono spontanee sono: quanto durerà tutto questo? Se le popolazioni arriveranno tra 20 anni al massimo, ad equipararsi alle nostre abitudini di consumo (avendo un PIL, disoccupazione e IPC come le nostre società), saranno anche esse sature? Che succederà dopo? A chi si destineranno i nuovi prodotti, oppure, ci sarà un bacino di utenze atto a ricevere o consumare questi prodotti?
Dovremmo cambiare sistema economico, senza ombra di dubbio. Già lo prevedeva Marx, nei suoi scritti.
I dati della povertà in aumento sono molto preoccupanti, soprattutto in quelle nazioni pioniere del capitalismo. Per la disoccupazione altrettanto si è in crisi, per non parlare dell’incremento dei lavori atipici o a tempo determinato.
Ormai siamo diventati pedine di questo sistema-scacchiere e ci daranno scacco matto!
Il problema cruciale è: Quale sistema adottare in alternativa al capitalismo?, quali saranno le regole di funzionamento di questo nuovo sistema?.
Come ha scritto lo storico Hobsbawn in un giornale recentemente: “I paesi industrializzati si vedono a trattare con questi paesi emergenti in condizioni di parità. Perciò il nuovo equilibrio riguarderà i rapporti tra le antiche potenze e quelle emergenti”.
Per concludere credo anch’io come Hobsbawn, che dovremo tornare all’illuminismo, iniziare a credere nel progresso umano, con la ragione, la trasmissione del potere e l’azione collettiva.
Battaglia Salvatore Bruno

13 aprile: perché mi astengo

Chi mi conosce sa quanto disprezzi la democrazia liberale, democrazia di classe o borghese, e però non sono mai stato astensionista per principio, votare si può sia pure per motivi molto strumentali. In passato a volte l’ho fatto, sia pure con lo spirito e l’ironia di una nota canzone di Giorgio Gaber sulla democrazia, ma il 13 e il 14 aprile prossimo non voterò neanche scheda bianca e invito tutti a fare altrettanto e in maniera particolare i lettori della nostra rivista “Crisi e conflitti”.
Una premessa generale: c’è un solo voto inutile o disperso, come disse Vittorio Foa nel 1976, quello dato contro i propri interessi e le proprie idee e siccome credo che nessun partito in Italia oggi sia di sinistra (né antagonista né riformista), votare per i partiti che prendono per i fondelli i lavoratori mi pare assurdo e masochista: non voto per farmi castrare. Si dirà che Foa oggi vota per il PD, ma io parlo del Foa del 1976, oggi Vittorio Foa parla come un vecchio e onesto liberale ottocentesco, nel ’76 era per me un maestro e adesso non lo è più. Questo è tutto.
Ovviamente il mio disprezzo, totale, verso i partiti che si dicono eredi di una tradizione riformista va documentato.
A) La sinistra Arcobaleno
Bertinotti ne è il leader, parla con la R moscia, porta occhialini penduli e cravatte di Marinella, un “parvenu” anche esteriormente, che teorizza essere in Parlamento “la Chiesa della democrazia” (l’ho sentito io stesso in televisione): asserzione questa che sa molto più di “sinistra clericale” che non di sinistra antagonista. Evidentemente intere biblioteche scritte sulla crisi della democrazia rappresentativa negli ultimi 35 anni gli sono ignote, come gli è ignoto il fatto che le istituzioni le fanno gli uomini e gli uomini in questione (i nostri parlamentari) sono sommersi da documentatissime analisi che testimoniano i loro privilegi e il loro malcostume, unito ad una oceanica ignoranza a partire dalla storia patria (vedasi le famose interviste delle Iene sulla “cultura” dei nostri parlamentari).
Ragionando più politicamente il Sig. Bertinotti è stato sostenitore del primo Governo Prodi, che ha lasciato perché non contava assolutamente niente; in seguito, nel 2006, la sinistra antagonista è tornata al Governo e ha continuato a non contare niente , ma questa volta il Governo l’ha fatto cadere Mastella. Per non passare per coloro che chiedono tutto e subito hanno accettato il principio del niente mai e del calarsi le brache sempre. Così nel 2006 hanno accettato un regalo di 9 miliardi di euro ai padroni senza che gli operai ottenessero nulla, hanno combattuto contro lo scalone pensionistico di Berlusconi (60 anni per pensionarsi) ed hanno ottenuto che, sia pure gradualmente, lo scalone venisse elevato a 61 anni: un risultato trionfale. Che io possa prendere in considerazione l’idea di votare per questa gente anche per i più strumentali motivi, mi pare fuori dalla realtà. Bertinotti, dunque, vada con il suo look (occhialini, R moscia e cravatte di Marinella) nei salotti di Montezemolo dove non c’è dubbio che verrebbe bene accolto
B) Il Partito Democratico
Diceva De Gasperi che la DC era un partito di centro che guardava a sinistra, il PD è senza dubbio un partito di centro , ma guarda a destra. La campagna di Veltroni è un modello di rincorsa verso l’elettorato di destra quello di Calderoli e Storace. La Repubblica del 27 febbraio 2008 (pag. 7) pubblica una dichiarazione del suo candidato (è noto che quel giornale sostiene Veltroni) in base alla quale se la castrazione chimica fosse scientificamente valida per combattere la pedofilia sarebbe accettabile; accettabile da Veltroni non da Casini che di lì a poco esprimerà il suo scandalo per un Veltroni che insegue Calderoli, paladino della castrazione, siamo evidentemente davanti ad un nuovo tipo di riformismo, il riformismo “castrante”. Questo signore ignora evidentemente che tutti i sistemi giudiziari anche i più efficienti hanno un tasso non indifferente di errori, ed è questo l’argomento fondamentale contro le pene mutilanti e la pena di morte. A tal proposito il noto giallista inglese Yollop durante la campagna che portò, circa trent’anni or sono, all’abolizione della pena di morte in Inghilterra, colpì l’opinione pubblica del suo paese dimostrando che in cinque casi dei quali nessuno dubitava , la pena di morte era stata applicata ad innocenti; si noti che a quell’epoca la pena di morte era applicata con il contagocce per cui cinque casi di innocenti sono tantissimi. Che accadrà se la castrazione verrà applicata ad un innocente? Gli trapianteremo le “guarnizioni” togliendole ad un cane? Non mi sembra giusto, neanche per il cane. Questo Paese ha avuto tra i suoi vanti l’illuminismo giuridico: uno Stato italiano preunitario ha abolito la pena di morte nel 1783 (Gran Ducato di Toscana) l’Italia unita l’ha abolita nel 1889: Veltroni con queste proposte non si mette sotto i piedi solo la storia del movimento operaio ma anche (qui il ma anche è d’obbligo) quella migliore della nostra borghesia.
Quando insegui Storace questo ti succede.
Nel campo economico Veltroni propone di lottare contro le disuguaglianze riducendo tutte le aliquote Irpef di un punto l’anno per tre anni. Facciamo un po’ di conti: un lavoratore con 20 mila euro lordi l’anno di reddito, avrà un incremento dopo tre anni del 3% pari a 600,00 euro; un signore che guadagna 150 mila euro otterrà anch’egli un incremento del 3% pari a € 4.500,00, le disuguaglianze in realtà cresceranno. Per ridurle bisognerebbe operare sgravi fiscali inversamente proporzionali al reddito e cioè dare di più a chi ha meno, ma questo sarebbe una insopportabile “forma di comunismo” per Veltroni, terrorizzato dall’idea non dico di somigliare a Lenin ma di somigliare vagamente a Roosvelt o a Keynes. Costoro amano definirsi riformisti per motivi che sinceramente mi sfuggono.

La verità è assai semplice oggi, in Italia, non esiste nessun partito di sinistra, anche cautamente riformista, votare per costoro significa solo farsi prendere per i fondelli; naturalmente l’astensionismo non risolve il problema, ma pone la premessa minima per risolverlo e cioè l’acuirsi della crisi di consenso ad una democrazia rappresentativa che non rappresenta più nessuno (se non gli interessi forti fatti passare per interessi nazionali): per andare avanti bisogna sgombrare il campo dai cadaveri e questi partiti e questa democrazia mi sembrano appunto dei cadaveri, in avanzato stato di decomposizione.
Antonio Carlo

venerdì, marzo 28, 2008

il ' 68

il ‘68
Molte cose si dicono, per meglio dire, si sprecano sul ’68. Certo che abbiamo avuto lo Statuto dei Lavoratori e la Legge sul divorzio, come pure la Legge quadro sulla Sanità.
Senza sopravanzare un giudizio positivo su questo periodo, che abbiano influito le lotte operaie è certamente vero, che si è trattato delle condizioni particolari dello sviluppo del capitalismo uscito dalla seconda guerra mondiale, pure è vero. L’opposizione tra chi forza il giudizio sul primo o sul secondo elemento è una questione ancora in discussione. Non tanto per il periodo storico preso in sé; anche se ha rianimato le attuali argomentazioni elettorali dei berlusconiani, tuttavia è ormai argomento degli storici. Interessano invece le implicazioni che sul piano dell’organizzazione operaia sono attinenti all’attuale situazione, specie se consideriamo il movimentiamo che anima molte organizzazioni senza che si metta al centro l’organizzazione degli operai in partito.
Il fatto che con lo Statuto gli operai non si sono liberati dallo sfruttamento, e che specie gli strati bassi che non lavoravano nelle fabbriche statali hanno pagato il più duro prezzo del Boom economico, è anch’essa una verità. Anzi, che quest’ultimi hanno rappresentato l’ultimo atto di distruzione del capitale nell’economia di sussistenza che trovavano nell’agricoltura, sradicandoli dai loro paesi e dalle loro famiglie per agglomerarli nelle grandi città industriali del mondo intero, per farli diventare gli antesignani della Legge 30, del pacchetto Treu, delle agenzie interinali e della repressione politica nelle fabbriche, ecc ecc., ci esime dal fare un’apologia e sostenere la tesi di un ’68 tutto operaio.
Oltre a tutti i diritti conseguiti coerentemente con lo sviluppo di una società capitalisticamente democratica, il ’68 segna anche l’aggancio della pensione al salario, ottenuta solo a seguito degli scioperi dell’autunno ‘69.
Ma, col ’68 si conclude un periodo e si compie anche il definitivo passaggio della guida dell’INPS nelle mani di Confindustria e Sindacati.
Se quest’ultimo approdo storico ci fa dire che si tratta di un esproprio di cui dobbiamo tener presente per come i sindacati odierni contrattano sulle pensioni, gli operai però possono ben dire che niente gli è stato regalato.
Anzi, se diamo uno sguardo a ritroso nella Storia sul problema della Previdenza Sociale, questo giudizio è più che confermato, perché non troviamo mai in primo luogo lo Stato, anche se le prime pensioni risalgono al 1812 per i dipendenti statali della Francia, e al 1873 per quelli dell’Inghilterra.
Per gli operai invece troviamo le Società Operaie di Mutuo Soccorso, la cui prima riunione ebbe luogo a Torino il 20 ottobre 1850, e il primo congresso si tenne ad Asti nel 1853.
Trenta società operaie, di cui quattro femminili, discussero delle questioni della vecchiaia, dell'invalidità, dell'assistenza alle vedove ed orfani degli operai.
Al sesto congresso discussero anche le questioni riguardante l'orario di lavoro. Fu il primo tentativo di parte operaia di usare queste associazioni per lo sciopero contro i padroni. Ma, avvocati e professionisti d'ispirazione democratico - liberale, accolti come soci onorari, si opposero con successo a questa tendenza degli operai. Vinsero questi borghesi paternalisti, sia per il ruolo di direzione che avevano assunto, sia soprattutto perché possedevano la “cultura”.
Al fine di scongiurarne il sovversivismo operaio permeato dalle prime idee socialiste, fu messo in atto da intellettuali dello stampo del Depretis il primo tentativo, non riuscito, di regolarizzare per legge tali associazioni.
L’avvocato Agostino Depretis, quasi sempre membro delle commissioni permanenti e sostenitore dei fini esclusivamente assistenziali, al congresso di Voghera del 1857, si fece promotore insieme ad altri della richiesta di regolamentazione legislativa da inviare al governo. Nel 1859 era già governatore di Brescia, e nel 1876 ebbe l’incarico di formare il suo primo governo, incarico che alternò a quello di ministro per diventare di nuovo capo del governo nel 1881.
Nonostante tutto, l'evoluzione dello scontro tra le classi impresso dalla pericolosità di un movimento operaio indipendente che rifletteva la nascita a Milano del Partito Operaio nel 1882, e le rivendicazioni, seppur annacquate, che seguirono con la nascita del PSI nel 1892, posero alla classe dei padroni e quindi allo Stato, la questione non più rinviabile della Previdenza Sociale.
Ma lo Stato il 15 aprile del 1886 si limiterà a riconoscerà per legge le Società di Mutuo Soccorso solo per fini assistenziali.
Il riconoscimento statale e l'unificazione delle società mutualistiche che seguirà, lungi dal rappresentare il buonismo del Re e del Parlamento, era solo lo specchio legislativo delle rivendicazioni e della pericolosità del movimento operaio. Benché annunciato teoricamente col Manifesto del 1848 e con la parte pratica avuta nelle insurrezioni contro i residui della vecchia società feudale, gli operai già avevano fatto presagire lo spettro della Comune di Parigi del 1871.
Infatti, l'INPS è fondato nel 1933, ma esso assorbì le competenze della Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali fondata nel 1919, la quale a sua volta subentrò alla Cassa Nazionale di Previdenza per l'Invalidità e la Vecchiaia degli Operai, fondata nel 1898. A ritroso vediamo soltanto i primi movimenti operai, ed in quest’arco di tempo si è realizzata la rivoluzione operaia del ’17 in Russia.
Tutto questo dimostra che la borghesia, con tutto il denaro che possiede quale mezzo per comprare chiunque, non potrà mai comprare l’intera classe degli operai, e il suo carattere sociale è fatto solo di paura per la miseria che genera, perché sa che gli operai non si lasceranno ridurre in una massa di diseredati, amorfa e senza futuro.
Elp 18-3-2008

il ' 68

il professor Giulio Tremonti

Nei dibattiti televisivi per la compagna elettorale è solito usare l’argomento che la sinistra è fatta sempre degli stessi uomini, lui sarebbe il nuovo, eh eh eh ehe .

A metà degli anni settanta diventa docente di Diritto Tributario nell’Università di Padova, Macerata e Parma, e subito comincia a fare attività professionale in una società di consulenza e di intermediazione finanziaria, la Sem, nel cui consiglio di amministrazione entrerà il 12 giugno 1985.
Attraverso il meccanismo delle scatole cinesi, dalla Sem si giunge alla Eurogest, società che per prima, seguendo i finanzieri USA, introdusse la collocazione pubblica dei certificati di partecipazione a iniziative immobiliari: vengono definiti titoli atipici perché sono una specie di obbligazione che non garantiscono il rimborso del capitale investito. In quegli anni, oltre ad ottenere commissioni dal Vaticano, l’Eurogest, tramite una sua consociata, la Interpharos advisors, iniziò a fare affari anche sulla piazza di Mosca.
Negli anni ottanta Tremonti inizia a interessarsi di politica e collabora al Corriere della Sera per dieci anni, dal ’84.
Di famiglia liberale, si avvicina alle idee socialiste ed è candidato nel partito di Bettino Craxi alle politiche del 1987, ma già dal 1979 era consigliere dei Ministri delle Finanze, incarico che manterrà fino al 1990.
Lo sfaldamento della prima repubblica e la distruzione dei due maggiori partiti, la DC e il PSI, per mano della Magistratura, perché accusati e condannati per corruzione, vede Tremonti alleato di Mariotto Segni con quale viene eletto di nuovo deputato nel 1994. All’esaurimento di questo cartello elettorale – il Patto Segni- per via dell’avvento del maggioritario, Tremonti passa a Forza Italia e diventa Ministro dell’Economia e delle Finanze del primo governo Berlusconi, incarico che terrà fino al 2005.
Per anni è stato molto critico nei confronti dei condoni utilizzati dai vari governi della prima Repubblica: “ In sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge” ( dal Corriere della Sera, 25 settembre 1991).
Quando fu ministro, Tremonti varò i condoni, ricevendo anche una denuncia da parte della Unione Europea nel 2002.
Nel 2004 dovette dimettersi. I conti della finanziaria risultavano truccati. Mancavano due miliardi di euro tra il preventivo delle entrate e la riduzione reali delle spese. Alle critiche della sua stessa maggioranza rispose che si trattava di escamotage contabile.
Nel 2005 sarà richiamato d'urgenza per stilare la Finanziaria 2006.
Fonte http://www.wikimedia.it/ e Internet

Da economista di Berlusconi, a parte le fantasiose proposte di vendere le spiagge ai privati per 100 anni, o introdurre la pornotax del 25%, la proposta di stampare biglietti di carta da un euro anzicchè far circolare la moneta metallica, come vedremo, riconferma il suo ruolo di manipolatore economico. Certamente pensava alla differenza che esiste tra la carta stampata e il valore che indubbiamente contiene la moneta metallica.
Ma era un artifizio che fu rifiutato dagli organismi economici, perché quel valore stampato sulla carta avrebbe alterato il parametro di Mastricht del 3% tra deficit pubblico e Prodotto Interno Lordo.
Un artifizio che a Napoli avrebbe guadagnato l’appellativo di “Bancunaro” – erano faccendieri senza lavoro che dal dopoguerra, fino agli anni settanta, allietavano le feste di paese con baracconi dove venivano messi in palio pacchi in cui c’erano regali al di sopra del valore del biglietto di partecipazione, ma che nessuno mai vinceva – .

Assieme a Berlusconi, che ha scoperto la nuova professione di Fachiro per risolvere i problemi dei lavoratori al grido di “Alzati Ali-Italia!”, formano una inossidabile coppia. Ma deve essere ricordato anche come l’inventore del meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef.
Studiato quand’era consulente del governo Craxi, sulle pagine del Sole 24 Ore dell'84, fu definito una mostruosità giuridica, perché assegna alla Chiesa cattolica anche donazioni non espresse. Infatti, il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille", ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse, il Vaticano si accaparra quasi il 90 per cento del totale.
Al momento il nuovismo di Tremonti non trova opposizione, perché la cosiddetta sinistra non ha il coraggio di confessarlo apertamente.
Difatti al protezionismo dichiarato di Tremonti che vede realisticamente il mercato pieno di merci cinesi, alle quali vuole porre limiti doganali, qual è la differenza che oppone la sinistra quando predica la ricerca scientifica per introdurre nelle merci più valore aggiunto? La differenza è che Tremonti, pragmatico com’è, vede il suo paese minacciato, mentre la sinistra che è più dialettica, vede il mercato mondiale e la possibilità di infrangerne la concorrenza con nuovi prodotti ad alta tecnologia, che possono funzionare come un monopolio con il quale drenare più ricchezza nello scambio con gli altri paesi.
Se questa è la differenza che li distingue nella politica verso i capitalisti concorrenti, resta un punto fermo tra loro: per gli operai deve esserci più produttività e salari sempre meno corrispondenti alla ricchezza che producono, ed una società che nel suo complesso va sempre più in basso.
È questo il destino cui vogliono indurre gli operai. Ma, una folta schiera di loro hanno più che compreso che le merci, pur rappresentando il terreno della concorrenza, all’opposto, possono anche rappresentare il terreno della loro solidarietà internazionale. Perché sono fatte dalle stesse persone: gli operai.
Allora per Tremonti finirà il bel tempo in cui poter fare battutine cui nessuno può rispondergli.
Elp 26-3- 2008

Il prof. Giulio Tremonti

jil professor Giulio Tremonti

Nei dibattiti televisivi per la compagna elettorale è solito usare l’argomento che la sinistra è fatta sempre degli stessi uomini, lui sarebbe il nuovo, eh eh eh ehe .

A metà degli anni settanta diventa docente di Diritto Tributario nell’Università di Padova, Macerata e Parma, e subito comincia a fare attività professionale in una società di consulenza e di intermediazione finanziaria, la Sem, nel cui consiglio di amministrazione entrerà il 12 giugno 1985.
Attraverso il meccanismo delle scatole cinesi, dalla Sem si giunge alla Eurogest, società che per prima, seguendo i finanzieri USA, introdusse la collocazione pubblica dei certificati di partecipazione a iniziative immobiliari: vengono definiti titoli atipici perché sono una specie di obbligazione che non garantiscono il rimborso del capitale investito. In quegli anni, oltre ad ottenere commissioni dal Vaticano, l’Eurogest, tramite una sua consociata, la Interpharos advisors, iniziò a fare affari anche sulla piazza di Mosca.
Negli anni ottanta Tremonti inizia a interessarsi di politica e collabora al Corriere della Sera per dieci anni, dal ’84.
Di famiglia liberale, si avvicina alle idee socialiste ed è candidato nel partito di Bettino Craxi alle politiche del 1987, ma già dal 1979 era consigliere dei Ministri delle Finanze, incarico che manterrà fino al 1990.
Lo sfaldamento della prima repubblica e la distruzione dei due maggiori partiti, la DC e il PSI, per mano della Magistratura, perché accusati e condannati per corruzione, vede Tremonti alleato di Mariotto Segni con quale viene eletto di nuovo deputato nel 1994. All’esaurimento di questo cartello elettorale – il Patto Segni- per via dell’avvento del maggioritario, Tremonti passa a Forza Italia e diventa Ministro dell’Economia e delle Finanze del primo governo Berlusconi, incarico che terrà fino al 2005.
Per anni è stato molto critico nei confronti dei condoni utilizzati dai vari governi della prima Repubblica: “ In sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge” ( dal Corriere della Sera, 25 settembre 1991).
Quando fu ministro, Tremonti varò i condoni, ricevendo anche una denuncia da parte della Unione Europea nel 2002.
Nel 2004 dovette dimettersi. I conti della finanziaria risultavano truccati. Mancavano due miliardi di euro tra il preventivo delle entrate e la riduzione reali delle spese. Alle critiche della sua stessa maggioranza rispose che si trattava di escamotage contabile.
Nel 2005 sarà richiamato d'urgenza per stilare la Finanziaria 2006.
Fonte http://www.wikimedia.it/ e Internet

Da economista di Berlusconi, a parte le fantasiose proposte di vendere le spiagge ai privati per 100 anni, o introdurre la pornotax del 25%, la proposta di stampare biglietti di carta da un euro anzicchè far circolare la moneta metallica, come vedremo, riconferma il suo ruolo di manipolatore economico. Certamente pensava alla differenza che esiste tra la carta stampata e il valore che indubbiamente contiene la moneta metallica.
Ma era un artifizio che fu rifiutato dagli organismi economici, perché quel valore stampato sulla carta avrebbe alterato il parametro di Mastricht del 3% tra deficit pubblico e Prodotto Interno Lordo.
Un artifizio che a Napoli avrebbe guadagnato l’appellativo di “Bancunaro” – erano faccendieri senza lavoro che dal dopoguerra, fino agli anni settanta, allietavano le feste di paese con baracconi dove venivano messi in palio pacchi in cui c’erano regali al di sopra del valore del biglietto di partecipazione, ma che nessuno mai vinceva – .

Assieme a Berlusconi, che ha scoperto la nuova professione di Fachiro per risolvere i problemi dei lavoratori al grido di “Alzati Ali-Italia!”, formano una inossidabile coppia. Ma deve essere ricordato anche come l’inventore del meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef.
Studiato quand’era consulente del governo Craxi, sulle pagine del Sole 24 Ore dell'84, fu definito una mostruosità giuridica, perché assegna alla Chiesa cattolica anche donazioni non espresse. Infatti, il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille", ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse, il Vaticano si accaparra quasi il 90 per cento del totale.
Al momento il nuovismo di Tremonti non trova opposizione, perché la cosiddetta sinistra non ha il coraggio di confessarlo apertamente.
Difatti al protezionismo dichiarato di Tremonti che vede realisticamente il mercato pieno di merci cinesi, alle quali vuole porre limiti doganali, qual è la differenza che oppone la sinistra quando predica la ricerca scientifica per introdurre nelle merci più valore aggiunto? La differenza è che Tremonti, pragmatico com’è, vede il suo paese minacciato, mentre la sinistra che è più dialettica, vede il mercato mondiale e la possibilità di infrangerne la concorrenza con nuovi prodotti ad alta tecnologia, che possono funzionare come un monopolio con il quale drenare più ricchezza nello scambio con gli altri paesi.
Se questa è la differenza che li distingue nella politica verso i capitalisti concorrenti, resta un punto fermo tra loro: per gli operai deve esserci più produttività e salari sempre meno corrispondenti alla ricchezza che producono, ed una società che nel suo complesso va sempre più in basso.
È questo il destino cui vogliono indurre gli operai. Ma, una folta schiera di loro hanno più che compreso che le merci, pur rappresentando il terreno della concorrenza, all’opposto, possono anche rappresentare il terreno della loro solidarietà internazionale. Perché sono fatte dalle stesse persone: gli operai.
Allora per Tremonti finirà il bel tempo in cui poter fare battutine cui nessuno può rispondergli.
Elp 26-3- 2008

vita da operai

Questioni d’inizio anno 2008: La vita degli operai.

L’anno che si è chiuso e quello che comincia ad incamminarsi verso primavera è stato costellato da innumerevoli casi di incidenti mortali sul lavoro. Ciò che è avvenuto alle acciaierie Thyssen, ha scoperchiato le responsabilità del mondo delle imprese. Le morti sul lavoro sono uscite dalla considerazione pubblicistica della marginalità delle piccole imprese. Con la Thyssen, ma anche con l’ILVA di Taranto, si è riaperta la questione del lavoro Killer, la media nazionale delle morti è passata da tre degli anni passati a quattro al giorno, la gravità sociale del fenomeno ha sommerso l’intero ambiente politico. E ciò conferma quanto da tempo abbiamo sostenuto sulla questione amianto: prima ti fanno sgobbare fino a rimetterci la vita, e solo dopo arriva qualche legge che tenta di arginare per ricondurre il fenomeno nelle compatibilità fisiologiche del sistema.
Nonostante questo, gli operai tornano al centro della scena.
Addirittura il segr. del PdCI Diliberto rinuncia alla sua candidatura nella lista Arcobaleno per far posto a Ciro Argentino, delegato sindacale della Thyssen. Un altro operaio è candidato nel PD di Veltroni, perché ha sposato in pieno la tesi che può esserci un accordo tra i produttori. Così ha definito Veltroni gli operai che mettono braccia e intelligenza, la quale, tranne brevi periodi storici, non è mai stata pagata, e i capitalisti che impiegano il loro capitale.
Ci può essere un accordo simile? Tranne ovviamente gli accordi di tipo sindacale, e non mi riferisco a quelli che firmano le attuali organizzazioni sindacali, perché niente posso aggiungere alla già matura critica che i lavoratori gli fanno, ma considero l’ipotesi di accordi migliori, ed anche in questo caso la risposta è NO! Non ci può essere un accordo tra il capitale e il lavoro.
L’ esempio di cui mi servirò per dimostrare l’infodatezza di questo accordo è tratto dalla discussione che K. Marx sostenne a Londra nel 1865, in una serie di conferenze dell’Internazionale Operaia da un anno appena fondata, il cui contenuto è stato pubblicato col titolo “Salario, Prezzo e Profitto”.
In quell’occasione Marx trattò vari argomenti:
1 - Dimostrò che l’aumento o la diminuzione del salario non intacca la legge del valore. In determinate condizioni di stabilità tra capitale e lavoro la merce prodotta ha sempre lo stesso valore. Per cui, la diminuzione o l’aumento del salario significano soltanto il relativo aumento o diminuzione del profitto, e non già la scomparsa di esso quale incarnazione della classe capitalistica e del suo “circolo infernale” dei prezzi e dei salari.
2- Precisato questo punto, come un principio da cui non si può deviare, passò ad esaminare la dinamica economico - sociale del capitale, i cui due elementi essenziali sono la concorrenza e la concentrazione.
3- Dalle conclusioni su questo secondo punto che illustrerò di seguito, Marx passò ad esaminare tutte le possibili azioni che gli operai potevano portare avanti sul terreno sindacale. Non le giudicò né insensate né irrealistiche. Anzi, dimostrò che esse erano una necessità da cui gli operai non potevano sfuggire, e che tutte le resistenze dei capitalisti, giustificate secondo la tesi che l’aumento dei salari faceva aumentare i prezzi, era infondata, e mirava a sfiancare gli operai nella loro lotta facendola apparire una cosa inutile. Ma avvertì che questo tipo di lotta non combatteva le cause della miseria degli operai, ma gli effetti di queste cause, e mise in guardia gli operai dalla inefficienza e dal modo con cui si portava avanti questa lotta, cioè mise in guardia gli operai sul modo irrazionale di come i sindacati organizzavano e gestivano la forza che essi mettevano in campo contro i padroni.

L’operaio che avrà la pazienza e saprà sottomettersi a questo ulteriore sacrificio dello studio di questo piccolo libro, costaterà quanto siano attuali i giudizi e quanto siano preziose le indicazioni che Marx offrì alla lotta per l’emancipazione dallo sfruttamento.
Anche se una parte del contenuto di questo libro trova largo uso nella cosiddetta “politica dei redditi”, che con parole più roboanti quali “giustizia sociale” o “redistribuzione sociale della ricchezza”, viene presentata dai sinistri come ultima spiaggia, l’ulteriore sviluppo dell’analisi di Marx, di cui il punto 2 è la premessa, ci fa capire non solo che la politica dei redditi è un imbroglio dei padroni, benché si presenti con un lato positivo, ma scopriremo addirittura che in determinate condizioni si arriva alla sua stessa impossibilità.
Le condizioni attuali lo dimostrano a sufficienza. Alla insopportabile condizione economica dei lavoratori che in quest’anno fuoriesce dall’inferno della loro vita, la borghesia risponde accorgendosi della loro miseria. Non perché produttori espropriati della ricchezza che producono, per la quale si dovrebbe stabilire in via del tutto pacifica un aumento dei salari, ma perchè la loro miseria deprime i consumi e quindi la produzione industriale e la crescita economica della società. Quindi l’unica risposta che i capitalisti, con tutto il loro apparato borghese di politici e sindacalisti sanno offrire, è sempre di aumentare i loro profitti, perchè questo significa quando di pretende un nuovo aumento di produttività come unica possibilità di aumentare i salari, che come sappiamo sarà del tutto effimero.

Ci può essere quindi un accordo tra gli operai e i padroni secondo quanto abbiamo specificato prima?
In quelle discussioni dell’Internazionale Marx giunse alla considerazione finale: ” La lotta fra capitale e lavoro e i suoi risultati”- pag. 105 libro citato, Editori Riuniti, va edizione, 1955-: […]. Con lo sviluppo della produttività del lavoro, l’accumulazione di capitale è molto accelerata,… Si potrebbe dunque concludere… che questa accumulazione… debba far traboccare la bilancia a favore dell’operaio, in quanto crea una domanda crescente di lavoro. […]. Ma parallelamente all’accumulazione progressiva del capitale ha luogo una modificazione crescente della composizione del capitale. Quella parte del capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione di ogni genere, aumenta più rapidamente di quell’altra parte del capitale che viene investita in salari, cioè per comprare lavoro. […].
Se inizialmente il rapporto tra questi due elementi del capitale era uno a uno, con il progresso dell’industria esso diventa cinque a uno, e via di seguito.
- Infatti, ndr - Se di un capitale globale di seicento, si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie prime, ecc., e trecento in salari, basta raddoppiare il capitale globale per creare una domanda di seicento operai invece di 300.
Ma se dello stesso capitale di 600, cinquecento parti sono investite in macchinari, materie prime, ecc., e soltanto 100 in salari, questo capitale globale deve salire da 600 a 3600 per creare una domanda di 600 operai invece che di 300. Con il progresso dell’industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l’accumulazione del capitale. Essa aumenterà indubbiamente, ma in proporzioni continuamente decrescente rispetto all’aumento del capitale. […]. Queste poche indicazioni basteranno per mostrare che proprio lo sviluppo dell’industria moderna deve far pendere la bilancia sempre più a favore del capitalista, contro l’operaio, e che per conseguenza la tendenza generale della produzione capitalistica non è all’aumento del livello medio dei salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più basso.
Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, ciò significa forse che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e disperati a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto.[…].
Credo di aver dimostrato che le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l’aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità di lottare contro il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come merce. […]. Nello stesso tempo la classe operaia, …non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. […], che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dalle oscillazioni del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera, ed è nello stesso tempo gravido delle condizioni materiali e delle forme sociali necessarie per una trasformazione e ricostruzione economica della società. Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un salario giusto per un giusto lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera la parola d’ordine rivoluzionaria: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”. […].

Ma perché lo sviluppo dell’industria fa pendere la bilancia a favore dei capitalisti e contro gli operai?
L’esercito industriale di riserva
K. Marx
da - Il Capitale, vol. I Editori Riuniti 1997 pag. 688 / 701.
e - Il Capitale, Newton Compton Editori 1976, pag. 853 / 852 -

[…]. L’accumulazione del capitale, che all’inizio appariva come una sua estensione quantitativa, si realizza, come abbiamo visto, attraverso un costante cambiamento qualitativo della sua composizione, in un costante aumento della sua parte…costante - fissa - a spese di quella variabile - salari -. […]. L’accumulazione capitalistica…produce in continuazione, ed esattamente in rapporto alla propria energia e alla propria entità, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente alle esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua ossia supplementare. […]. Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione, ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa a sua volta la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico.
Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione del capitale il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]….per godere di un libero gioco, per avere mano libera… […].
L’esercito industriale di riserva, …. è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e della offerta del lavoro. […]. Quelli che vengono resi liberi, non sono soltanto gli operai soppiantati direttamente dalle macchine, ma in egual misura anche i loro sostituti regolari e il contingente addizionale, che viene di solito assorbito regolarmente quando l’impresa si estende sulla vecchia base - della composizione del capitale, cioè della ripartizione tra capitale fisso e capitale variabile n.dr. -. […].
Che assuma questi o altri operai, l’effetto sulla domanda generale del lavoro sarà uguale a zero, fintantoché questo capitale sarà esattamente sufficiente a liberare il mercato di quello stesso numero di operai che le macchine vi hanno gettato.
Se esso ne occuperà un numero minore, la massa degli operai in soprannumero crescerà; se ne occuperà un numero maggiore, la domanda generale del lavoro crescerà soltanto dell’eccedenza degli operai occupati su quelli “messi in libertà”.[…].
Il che significa quindi che il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che l’aumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro. […].
Quindi, non appena gli operai penetrano il mistero e si rendono conto come possa avvenire che, nella stessa misura che lavorano di più, …. perfino la loro funzione di valorizzazione del capitale diventa più precaria per essi; non appena scoprono che il grado d’intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della popolazione relativa; non appena quindi cercano mediante Trade Unions, ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe, - il capitale, e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della “eterna” e per così dire “sacra” legge della domanda e della offerta.
Ogni solidarietà fra operai occupati e quelli disoccupati turba infatti l’azione “pura” di quella legge. Non appena,…circostanze avverse impediscono la creazione dell’esercito industriale di riserva e insieme impediscono la dipendenza assoluta della classe operaia dalla classe dei capitalisti, il capitale si ribella…contro la “sacra” legge della domanda e della offerta e cerca di raddrizzarla con mezzi coercitivi. […].

La risposta degli operai:
Se gli scioperi hanno più che dimostrato una tendenziale forza d’urto, per come sono portati avanti dalle centrali sindacali, si dimostrano invece del tutto svilite. Per questo è necessario che agli scioperi deve seguire una Coalizione degli Operai. Per le questioni finora toccate molto alla larga per dimostrare quanto è illusorio, ma anche quanto sia banditesco proporre in politica degli operai che si fanno portavoce di simili sciocchezze, il processo di unità operaia, pur vertendo sui caratteri di difesa, non può prescindere dalla necessità di incamminarsi verso la realizzazione più piena e sempre più fondata di un Partito politico indipendente degli operai.
Perché ai due operai della Thyssen voglio porre la seguente domanda: se invece di questioni legate ai salari e alla distribuzione sociale della ricchezza, che è bene sempre precisare che sono gli operai stessi a produrla, dovremmo discutere, ad esempio, dei materiali che si usano nella produzione, come pure dei processi chimici e tecnologici, che sappiamo hanno prodotto e produrranno nel prossimo futuro la morte per gli operai, che per l’Europa si aggira su 200 mila nuovi casi mortali, come il solo caso amianto dimostra, che spazio avrebbero le loro illusioni benché mosse da nobile intento?
Affinché la vita degli operai fuoriesca dalla casualità, è necessario che siano essi stessi padroni del ciclo produttivo. Un materiale che è nocivo per la salute o non si mette in produzione, oppure, se è necessario, lo si adopera con le migliori precauzioni possibili, e ciò nella società capitalistica, per il profitto che vi deve dominare, può avvenire sempre fino ad un certo punto. Perché la necessità è sempre il regno della schiavitù, e soltanto con il potere degli operai può accadere che sia relegata nelle cose inservibili, man mano che cresce il loro potere di indurre anche la scienza verso programmi dal contenuto sociale, anzicchè dal lato della utilità e profittabilità privata.
Da questo punto di vista è quanto mai risibile l’entrata di questi nuovi apostoli operai nell’arena famelica della politica borghese.
Perché se uno si domanda quali sono i mezzi coercitivi di cui Marx parla per raddrizzare la legge capitalistica della domanda e dell’offerta del lavoro, scoprirebbe che essi sono il protezionismo economico fino al fascismo interno e l’imperialismo esterno che stiamo vedendo in Palestina, in Iraq, in Afghanistan, in Cecenia. A questi mezzi pratici non si può opporre né l’egemonia basata sulle chiacchiere, né l’opinione pubblica pacifista, che, benchè sarà chiamata a svolgere un ruolo, esso lo potrà avere soltanto in presenza di una rottura rivoluzionaria in un punto del mercato mondiale. Ed è in quest’ottica che deve essere indirizzato il lavoro della formazione del Partito politico indipendente degli operai.
Elp. 15/16 – 3 - 2008

lunedì, dicembre 31, 2007

Amianto dalla Cina

Da Elpica

Trovato amianto nei thermos cinesi. La notizia divulgata dal TG 1 de 13 luglio scorso, arriva dalla direzione generale per “l'Armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori” presso il ministero dello sviluppo economico. I Nas e le ASL competenti ne ha sequestrato un notevole quantitativo.
Indubbiamente è la concorrenza che costringe a tenere sotto pressione i prodotti cinesi, ma il motivo ufficiale è che i thermos contengono delle pasticche di Amianto, la cui funzione di attutire la differenza della temperatura interna/esterna evita che il contenitore di vetro si rompa, conferendo così alla merce un valore d’uso senza il quale non vi sarebbe valore di scambio. La motivazione ufficiale, con tanto di servizio televisivo, ha dato ai lavoratori la “certezza” che militari e sanitari fanno osservare la legge, cosa che invece è stata mille volte disattesa nei cantieri e nelle fabbriche; in questo caso è la n° 257 del 1992 che ha bandito l’uso e la commercializzazione dei prodotti che contengono amianto.
Numerose sono le volte che abbiamo scritto sulla questione, sia per l’aspetto della controinformazione sulla verità della pericolosità di questo materiale, la quale risale al ben lontano 1935, quando gli studi epidemiologici negli USA ne confermavano la relazione con il tumore della pleura – il mesotelioma -, sia soprattutto per organizzare movimenti di operai contro l’amianto.
Le cronache delle sentenze che gli operai stanno riuscendo a strappare, in quest’ultimo periodo, se da un lato non riuscirà mai a far giustizia della loro morte prematura, di sicuro dimostrano una capacità di critica alle organizzazioni politiche e sindacali, che, per quanto sia risultata limitata, ha dato un preciso segnale alla necessità di non delegare a nessuno i propri interessi, specie ora che non c’è la necessità per il capitalismo di confondere le ristrutturazioni degli esuberi con la salute degli operai.
La notizia che viene dai prodotti cinesi, se da un lato può far comprendere cosa sia lo sviluppo capitalistico e le sofferenze che gli operai cinesi saranno costretti a patire, ripropone nel nostro paese la domanda: perché l’amianto è stato bandito per legge dello Stato?
La risposta di chi interpreta il marxismo secondo lo schema della riproduzione semplice, quindi delle contraddizioni che insorgono tra gli operai e il capitalista o tra questi e il costo delle materie prime, non può rispondere a questa domanda, gli basta ribadire che l’amianto è stato sostituito perché non più economico. Per cui lo Stato è ridotto ad esecutore politico di un interesse particolare, quello dell’industria dell’amianto. Così gli interessi collettivi della classe dei capitalisti, nonostante che si facciano concorrenza tra loro spariscono, e non possono assumere nessun significato, poiché, ciò che nella concezione precedente si è annullato è stato proprio il meccanismo della produzione e riproduzione allargata del capitale, che per il suo carattere sociale non può esistere senza lo Stato, e lo Stato non ha ragione di esistere senza rapporti sociali in perenne contraddizione tra l’interesse privato e ricchezza sociale.
L’impostazione, nella versione economicista, che vuole spiegare la sostituzione dell’amianto dai processi produttivi perché sarebbe diventato più costoso nei confronti dei materiali che l’hanno sostituito, non regge. Perché, se ciò fosse vero, il materiale sostitutivo dell’amianto si imporrebbe sul mercato in modo spontaneo, cioè senza l’intervento dello Stato.
Ci sono dati, anche se risalgono al 2003, che confermano, a dispetto della tesi economicista, che l’amianto è tuttora prodotto e utilizzato. Infatti, tra i principali paesi produttori extraeuropei, insieme a Russia e Cina, che hanno sfornato rispettivamente 700.000 e 450.000 tonnellate, c'è il Canada, che con le sue 335.000 tonnellate prodotte ha mobilitato la sua diplomazia per far pressione all’Europa per ripristinare l’uso dell’amianto, e con ciò stesso sconfessando anche l’altra tesi a sostegno dell’economista, cioè che i costi di trasporto contribuirebbero a fare dell’amianto un materiale più costoso di quelli sostitutivi.
Fu nel 1998, a sei anni di distanza dalla legge italiana e su proposta dei Paesi Bassi, che la maggioranza dei paesi della Comunità Europea (dodici su quindici) si pronunciò a favore della proibizione totale dell’uso dell’amianto. Gli stati membri che votarono contro furono: Grecia, primo produttore europeo d’amianto, Spagna e Portogallo grandi utilizzatori di questo materiale.
Ritornando alle notizie che ci vengono dai thermos cinesi, gli industriali di quel paese sarebbero degli stupidi, perchè utilizzerebbero un materiale più costoso, altamente nocivo, e premessa di futuri contrasti con gli operai.
La notizia però più importante è quella che riguarda i profitti derivanti dalla produzione dell’amianto, che a nove anni di distanza della legge 257 pur ci sono ancora, anche se in oscillazione per i timori che generano i riconoscimenti delle patologie, ci è offerta dall’articolo del Sole-24 Ore dell’11 dicembre 2001:
“ In scivolata sull’amianto
Zurigo. Proseguono i cambi al vertice di Abb, che lanciano ombre sul futuro del colosso di engineering. Peter Voser, sarà, dal secondo trimestre 2002, il nuovo responsabile finanziario del gruppo svizzero-svedese ed entrerà a far parte della commissione esecutiva della holding. Voser, che ricopre attualmente la stessa carica nella Shell Worldwide Oil Products, rimpiazzerà Renato Fassbind. Il cambio arriva a poche settimane dalle dimissioni a sorpresa del presidente “storico” Percy Barnevik, l’artefice della nascita del colosso europeo dalla fusione tra la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri nell’88. Ma a far scivolare le quotazioni di Abb, che, dopo aver perso oltre il 10%, hanno chiuso a Zurigo a 17,30 franchi (- 8,22%), sono stati anche i timori legati all’amianto. Le preoccupazioni sono state innescate dalla caduta a picco dei rivali americani della Halliburton, che hanno perso il 40% venerdì e ieri un altro 15% sull’onda dei rischi finanziari legati alle richieste di risarcimenti correlati all’utilizzo dell’amianto.”
Come si può notare, le cifre sull’andamento dei profitti azionari legati all’amianto, anche se mostrano una diminuzione a causa dei risarcimenti che gli operai richiedono, dimostrano che l’amianto è un materiale ancora in uso perché ancora economicamente insostituibile.
I padroni sono costretti ad abbandonarlo non “Quando il costo dell’amianto diventa troppo alto, sarebbe un fatto che come sempre si impone in modo spontaneo all’interno della concorrenza tra i capitalisti, il che non solleverebbe grossi problemi alla critica, se non quella di criticare a posteriori una merce, e quindi un valore d’uso per il modo storico in cui è stato prodotto.
Invece i padroni italiani hanno abbandonato l’amianto solo dopo aver mietuto tante vittime e malattie da risarcire, ma soprattutto solo dopo aver trovato di fronte gli operai con una volontà d'azione.
E, questi padroni sono stati costretti dallo Stato, perché troppi risarcimenti doveva pagare. Per gli industriali fu una costrizione vantaggiosa, perché con la scusa dell’amianto lo Stato gli regalò migliaia di miliardi per le ristrutturazioni.
Se in altri paesi si continua non solo ad estrarlo, ma addirittura a lavorarlo, non sarà l’umanità dei padroni o del loro Stato a vietarne la lavorazione, né tantomeno la fantomatica esistenza di un materiale sostitutivo più economico, ma la situazione della lotta che gli operai e i lavoratori possono condurre su questa questione.
Elp 30 luglio 2007