lunedì, febbraio 27, 2006

Dieuaide e Vercellone sul reddito garantito

Dieuaide e Carlo Vercellone (alias Carlo Palermo) sostengono che



  • Mentre il lavoro diretto (organizzato nelle imprese) rappresenta sempre meno la fonte principale della creazione delle ricchezze, l'impiego diventa sempre più instabile e intermittente per milioni di persone precarie e/o senza lavoro. Cogestori insieme alle imprese del Welfare i sindacati sono i primi a fare la dolorosa esperienza di questa crisi di statuto della forza-lavoro: crisi che riveste molteplici aspetti (crisi di processi di produzione, crisi dei modi di distribuzione, crisi dell'istituzione impresa). La somma di questi diversi aspetti svela i limiti del lavoro salariato.
  • Facendo la critica pratica e radicale del lavoro salariato e delle sua rappresentazioni, il movimento dei disoccupati e dei precari può forzare la ripresa del discorso di Marx sulla forza-lavoro e a svilupparlo nell'ambito più esteso di una riflessione sulla modalità di socializzazione del lavoro alternative al salariato. Il movimento dei disoccupati francesi può essere letto come una prima tappa nella costruzione sociale e politica di un nuovo soggetto produttivo con l'iscrizione di una frazione crescente della popolazione attiva nelle reti della produzione e dello scambio non mercificate, dove tutto un complesso di persone sfugge alla norma del lavoro astratto propria del salariato. Il lavoro qui è organizzato sulla base di rapporti informali (scambi di informazioni o di conoscenze, aiuto reciproco) e all'interno di uno spazio in cui il carattere produttivo del lavoro dipende direttamente dalla qualità della cooperazione sociale: all'interno di queste reti la forza-lavoro è indissociabile dall'intelligenza collettiva delle persone impegnate e i saperi di ciascuno sono altrettante fonti specifiche di creazione di ricchezza
  • Per Marx il lavoro, sostanza del valore, non ha per se stesso alcun valore : il valore del lavoro non è che un'espressione irrazionale, una falsa apparenza veicolata dal lavoro salariato, la cui ragion d'essere è dissimulare ogni traccia di divisione della giornata di lavoro tra lavoro necessario e pluslavoro; il salario non è che un prezzo fittizio che dissimula il lavoro gratuito del salariato per il suo capitalista. Perciò non vi è in Marx una teoria monetaria del salario che spieghi questa mistificazione che consiste nel credere che il lavoro sia un valore in sè. Il movimento dei disoccupati francesi mette in discussione lo schema storico sul quale riposa lo statuto della forza lavoro come merce fittizia, e dall'altro incoraggia ad una riflessione sulle condizioni e le modalità monetarie di formazione dei redditi, a partire da una pratica che implica un allargamento del concetto di lavoro produttivo al di là degli ambiti ristretti rappresentati dai rapporti mercificati e salariali
  • La rivendicazione di un reddito garantito incondizionato prefigura l'esigenza di una socialità del lavoro immediata e mette in discussione il potere monetario del capitale di comandare e socializzare il lavoro salariato. Tale critica va oltre il problema di sapere se lo Stato è in grado oppure no di garantire giuridicamente e di soddisfare finanziariamente questa rivendicazione. Nell'epoca della globalizzazione, dove le monete nazionali si spoliticizzano sotto l'impatto della globalizzazione dei mercati finanziari, la rivendicazione di un reddito garantito esprime un progetto politico radicale di risocializzazione della moneta. Il pagamento dei redditi da lavoro non sarebbe più assoggettato alla più o meno grande disponibilità del capitale-denaro. Si rimette così in discussione delal fondamentale asimmetria tra coloro che possiedono l'iniziativa di creare moneta trasformandola in mezzo di finanziamento e coloro che non hanno accesso alla moneta se non vendendo la loro forza lavoro. In termini keynesiani questa rottura implica che la distribuzione sociale dei redditi che garantisce la riproduzione delal forza-lavoro sia sganciata dalle anticipazioni degli imprenditori rispetto al volume della produzione e quindi dell'impiego
  • Il reddito garantito si afferma come l'antitesi del salario; mentre il salario esalta direttamente la socializzazione del lavoro attraverso l'intermediario del denaro del capitale, la rivendicazione del reddito garantito esalta al contrario direttamente la socializzazione della moneta attraverso l'intermediario della quantità di lavoro che una società nel suo insieme può offrire in controparte. L'elemento determinante della creazione di valore non è il lavoro salariato, ma un tempo sociale del lavoro irriducibile al calcolo del lavoro immediato. E' per questo che dal punto di vista della valorizzazione capitalistica conta poco che il lavoro si socializzi nella forma del lavoro salariato o sotto altra forma, dal momento in cui produrre valori di scambio resta la norma dominante
  • La domanda decisiva è se all'interno dell norme coercitive imposte dal lavoro salariale, il tempo di lavoro trascorso nella produzione di merci sia più o meno produttivo. La rivendicazione del reddito garantito a tal proposito mette in evidenza l'estrema tensione esistente tra due schemi di valorizzazione del capitale: l'uno fondato sull'aggiustamento ex-post del livello di remunerazione e di effettivi assunti in funzione delle prestazioni di vendita realizzate dalle imprese sul mercato, l'altro precedente allo scambio, fondato sulla socializzazione dell'attività produttiva (mercificata e non) attraverso l'intermediario delle risorse (umane) valutate e consumate produttivamente in funzione dei bisogni e dei fini collettivi. Nel primo caso, dove i salariati sono pagati solo dopo aver lavorato, il credito e l'anticipazione in lavoro che essi eseguono non è la controparte di alcun investimento di capitali dal punto di vista della parte di produzione che ogni individuo può esigere con l'intermediario del proprio reddito; in questo schema i soldi direttamente anticipati non fanno che realizzare il prezzo del lavoro eseguito. La sua funzione è puramente circolatoria: mezzo di pagamento che ritorna ai capitalisti per mezzo della spesa. Nel secondo caso invece i redditi distribuiti garantiscono ad ognuno un livello determinato di potere d'acquisto indipendentemente dalle condizioni di produzione e di vendita con le quali i capitali si valorizzano. In questa concezione il denaro non è più direttamente anticipato, ma la sua spesa suppone al contrario una monetizzazione preventiva degli investimenti di capitali, di fronte al costo globale delle risorse produttive che la società è disposta ad anticipare in cambio. Si disegnano così i contorni di un sistema monetario la cui base poggia direttamente sulla società, intesa come spazio sociale produttivo. In tale ambito la formula di Kalecki per cui "i salariati spendono ciò che guadagnano, i capitalisti guadagnano ciò che spendono" sarebbe trasformata dal superamento dell'asimmetria tra classi di individui nell'accesso alla moneta. Essa potrebbe essere sostituita da una nuova formula per la quale la società nel suo insieme "guadagna ciò che spende"
  • Il movimento dei disoccupati francesi è forse l'espressione più compiuta della crisi della legge del valore dal momento che è apertamente negato il senso e la funzione regolatrice delle'esercito industriale di riserva all'interno della dinamica del capitale. Esso fa saltare in aria le separazioni attentamente istituite tra lavoro, disoccupazione e inattività. Queste seprazioni non hanno più consistenza di fronte ai costi finanziari della ridistribuzione che la desalarizzazione di una frangia sempre più numerosa della popolazione attiva rappresenta. Esse diventano inefficaci e persino inique in un contesto di generalizzazione della precarietà dove i lavoratori con contratti di formazione e a tempo determinato si vedono rifiutare l'accesso al regime di assistenza. Tali separazioni si dimostrano poi inadeguate per un mondo in cui la vita attiva è sempre più costituita da alternanze tra periodi più o meno lunghi di lavoro e di non-lavoro. Queste separazioni non svolgono alcuna funzione regolatrice, poichè rinviano ad un principio di gestione di una disoccupazione transitoria ed hanno la sola funzione di garantire il mantenimento di condizioni sociali di vita e sussistenza minimali.
  • Durante al gloriosa fase del trentennio keynesiano la forza lavoro era inserita in uno schema di divisione del lavoro con una programmazione che avveniva in un solo momento: ogni salariato riceveva un formazione iniziale al di fuori dell'impresa e dopo lavorava seguendo un progetto di carriera determinato in anticipo. All'interno di questo schema i diritti sociali si misuravano alla stregua del pieno impiego e dei premi di produttività realizzati da ciascuno in una logica di sforzo e di lotta contro il tempo. Conquistati in larga parte sul luogo di lavoro, questi diritti si inserivano in un ciclo di riproduzione della forza-lavoro totalmente subordinato ai bisogni del capitale. Oggi l'impiego e la copertura sociale associata tendono a rimanere privilegio di pochi: la disoccupazione non è più un rischio ma una situazione di fatto permanente dove la forza lavoro è resa obsoleta dal non-lavoro
  • Il capitale umano dei salariati si esaurusce tanto più rapidamente quanto resta inattivo e diventa improduttivo in assenza di qualifiche sufficienti che facciano sperare di trovare un impiego. Per rispondere a tale tendenza si mette l'accento sul ruolo dell'educazione dello Stato e all'intervento in formazione ed in ricerca e sviluppo. Di certo però il lavoro si arricchisce di nuove funzioni ed acquista sempre più una dimensione collettiva esigendo l'assunzione di nuovi saperi. La crisi del fordismo sancisce che la fonte dei guadagni di produttività rappresenta un carattere sempre più sociale, legata tra l'altro al peso crescente delle esternalità prodotte dalla circolazione dei saperi e delle attività non mercificate, che l'impresa gestisce al meglio e riporta all'interno della propria organizzazione gerarchica
  • In questo contesto lavorare va oltre l'acquisizione e la messa in opera di conoscenze nuove; esso significa anche produrre legame sociale, mobilizzazione di saperi, sia nella scuola che al di fuori di essa. Questa nuova natura del lavoro è incompatibile con le norme di valutazione e di costrizione al lavoro imposte dal rapporto salariale in quanto ci porta a riconoscere le dimensioni intellettuali e culturali che fondano la personalità dei salariati, intesi come forze sociali produttive. Se questi aspetti fossero socialmente riconosciuti e incidentalmente presi in conto nel calcolo del Pil apparirebbe chiaro che gran parte della forza lavoro stigmatizzata come non impiegabile farebbe pienamente parte dei meccanismo di produzione della ricchezza sociale, facendo saltare le frontiere tradizionali tra lavoro e non-lavoro.
  • Dunque le rivendicazioni dei disoccupati sono per l'espressione politica di una nuova centralità del lavoro sociale fondata sulla libera circolazione degli individui nell'esercizio della loro attività e per il diritto legittimo di ciascuno di essere pagato per la propria potenza creatrice, per la propria individualità sociale. Insomma si tratta di una rivendicazione del carattere sociale del valore d'uso della forza-lavoro, rivendicazione che volendosi riappropriare dello spazio sociale di produzione chiede il diritto alla mobilità professionale ed alla multiattività attraverso la formazione continua ed alla libera circolazione dei saperi e il diritto al reddito garantito attraverso la disgiunzione della massa salariale distribuita dal volume di manodopera impegnato e dal volume di ore lavorate.
  • Il reddito garantito in quest'ottica lungi al ridursi a questione di mera equità sociale, riposa su una frattura più consistente tra ruolo motore dei fattori collettivi da un lato e meccanismi di appropriazione del surplus da parte di un capitale la cui remunerazione si confonde sempre di più con una rendita. Il reddito garantito non può essere assimilato al semplice rimedio di una disoccupazione involontaria di tipo strutturale: mirando infatti alla messa in discussione dello statuto stesso della disoccupazione esso fa cadere la distinzione tra disoccupazione volontaria ed involontaria, legata alla rigidità del mercato del lavoro e/o al rifiuto degli individui di accettare di lavorare al salario corrente (cosa che nella realtà è sempre più prossimo ai minimi sociali) . L'istituzione di un reddito garantito permette di combattere contro precarietà dell'impiego (di cui la disoccupazione è solo una delle espressioni) e bassi salari, evitando la trappola della povertà del pieno impiego all'americana. Esso darebbe al rifiuto del lavoro precario una forza d'innovazione e di rottura simile a quella che dopo i conflitti sociali degli anni '70 aveva scatenato la crisi del modello fordista di organizzazione del lavoro
  • Ora, le rivendicazioni a favore dell'aumento dei minimi sociali, della non decrescita degli indennizzi di disoccupazione e l'allargamento del reddito minimo di inserimento tendono a svilupparsi sul terreno tradizionale della redistribuzione del reddito. Tali rivendicazioni vogliono però anche far discutere sulla critica dei modelli di workfare che volendo reintrodurre una discriminazione tra poveri buoni e cattivi, diventerebbe una macchina per l'accettazione dei bassi salari. A lungo termine la proposta di un reddito garantito costituisce l'asse strategico di un progetto di società fondato sull'autorganizzazione del lavoro sociale e sull'emancipazione dalla coazione monetaria al rapporto salariale, portando ad una revisione dei meccanismi che strutturano le norme di produzione e di distribuzione della ricchezza sociale.
  • La diagnosi per la quale la disoccupazione dipenderebbe solo dalla rigidità al ribasso dei salari reali e le politiche di disinflazione competitiva sono entrambe fallite nonostante un'inflazione controllata, la stabilità del tasso di cambio, un commercio con l'estero eccedente, la stagnazione dell'impiego e un processo di redistribuzione del reddito nazionale dai salari al profitto ed alle rendite. Le politiche neoliberali, nonostante un'efficacia transitoria come strumento per superare la crisi di rendimento degli anni '70, stanno portando con l'eccesiva compressione dei salari ad un livello insufficiente della domanda effettiva. Perciò si riparla di politica keynesiana del pieno impiego, ma a tale istanza si pongono le seguenti obiezioni.
  • La prima è che tali proposte sono cieche di fronte alla rottura tra crescita della produzione e crescita dell'impiego dal momento che le tecnologie informatiche flessibili permettono di aumentare la produzione senza aumentare il lavoro in ragione degli alti livelli di produttività che vi sono incorporati. Nella storia del capitalismo il progresso tecnologico ha sempre liberato lavoro ed ha sempre causato disoccupazione che però è sempre stata riassorbita dalla creazione di nuovi impieghi dipesa dalla creazione di nuovi prodotti e nuovi mercati per nuove produzioni. Tale dinamica di riassorbimento sembra esaurita di fronte all'esaurimento del ruolo motore del settore industriale mercantile e allo sviluppo forte di un progresso tecnico basato su rapporti immateriali (es. il linguaggio informatico) alquanto economo nella creazione di impieghi. Si dubita d'altra parte che una politica di riduzione dell'orario di lavoro possa compensare a breve termine gli effetti legati a tale rottura tra crescita e impieghi; inoltre solo una parte decrescente dei salariati (quella non precaria) può beneficiare della riduzione dell'orario di lavoro. Tale evoluzione giustifica l'istituzione di un reddito garantito che permetterebbe a segmenti precari di lavoro di superare l'opposizione tra mobilità e sicurezza
  • La seconda obiezione è che il problema di una garanzia generale di reddito che consenta una flessibilità di attività nell'arco dell'intera vita, costituisce un'esigenza legata non solo alle mutazioni del lavoro, ma anche all'analisi della trasformazione dei meccanismi keynesiani per i quali non può esserci crescita dell'attività e dell'impiego senza crescita della domanda. I fattori che nella crisi attuale deprimono la domanda non si riducono alla disconnessione tra dinamica della produttività e dinamica salariale: il fatto nuovo consiste nella natura delle nuove forme di consumo che riposano in larga parte su beni culturali ed informativi il cui consumo richiede tempo. Anzi, il consumo di questi beni anzichè essere distruzione di valori d'uso si potrebbe iscrivere nell'ambito sociopolitico di un lavoro sociale cooperativo e immediatamente produttivo. Consumare per scambiare, informarsi, creare e crescere e non per esistere sopravvivere e riprodursi: questa è la nuova norma del consumo che ridefinisce gli stessi rapporti tra produzione e consumo, giacchè se in questo caso consumare è produrre, allora l'impiego non può più essere concepito nella figura del lavoro salariato. Il tempo di consumo di beni immateriali non è un tempo perso per la valorizzazione, ma l'espressione e la condizione di un tempo di valore sovciale immediatamente produttivo di valore. In questa prospettiva esiste una organica complementarità tra le proposte di riduzione d'orario e di istituzione di un reddito garantito
  • La terza obiezione è che la politica keynesiana del pieno impiego non tiene conto di alcune riflessioni che lo stesso Keynes ha fatto sulla dinamica lunga del capitalismo. Keynes infatti in queste riflessioni annunciava che la disoccupazione tecnologica dovuta alla scoperta di di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera. Essa disoccupazione non è che una fase transitoria che annuncia il passaggio necessario da una regolazione dell'economia fondata sul principio di scarsità ad una regolazione fondata sul principio di abbondanza. La posta in gioco di questa transizione sta sia nella rimessa in discussione della legittimità storica della logica di accumulazione del capitale-denaro che nella crisi del lavoro salariato inteso come fondamento principale del legame sociale e dell'organizzazione del lavoro. Per Keynes il movimento storico dell'accumulazione avrebbe portato a privare il capitale del suo carattere di scarsità entro due generazioni. Tale tendenza si sarebbe concretizzata con l'eutanasia del rentier e di conseguenza la fine del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale
  • Questa riflessione prospettica non è in contraddizione con l'esigenza di una riforma che sostituirebbe alla rendita del capitale conferita dalla sua scarsità una rendita collettiva fondata su di una società d'abbondanza (dove sempre più vaste diventeranno le categorie di persone per le quali spariranno i problemi delle necessità economiche). Tale rendita assimilabile all'istituzione del reddito garantito sarebbe anche coerente col desiderio di Keynes di conciliare individualismo e socializzazione dell'economia, di tutelare la varietà della vita sia per ciò che riguarda il lavoro che il non lavoro. Keynes dice pure che in una società nella quale il tempo consacrato al lavoro fosse ridotto ad un'infima parte del tempo della vita l'individuo crescerebbe. La nuova società avrebbe per Keynes permesso di allargare all'insieme della popolazione il dono costituito da un reddito indipendente di cui unici beneficiari erano i ricchi redditieri, considerati un'avanguardia che esplora una terra promessa di cui i beneficiari futuri faranno però un uso completamente diverso. In questa società dell'abbondanza quando l'accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale e l'amore per il denaro come possesso sarà riconosciuto come passione morbosa un po' ripugnante e così tutte quelle pratiche economiche tese a sollecitare l'accumulazione del capitale
  • Il dibattito sul finanziamento del reddito garantito spesso si limita al problema delle modalità di riconversione delle differenti voci di spesa sociale del Welfare State, soprattutto quelli legati ai minimi sociali (sussidio per genitori soli, sussidio per adulti handicappati, sussidio minimo di anzianità, sussidio di solidarietà specifica) Su questa base numerosi sono coloro che traggono la conclusione che un reddito garantito sufficiente, il cui ammontare fosse uguale al livello di soglia di povertà ( circa 533 euro al mese e per singola persona), costituirebbe una misura economicamente inattuabile. Questo ragionamento non tiene conto del fatto che non colloca le condizioni del suo finanziamento nell'ambito della definizione di nuove norme di distribuzione della ricchezza sociale. In questa prospettiva possiamo superare l'ottica che concentra l'attenzione sull'unico problema del ridispiegamento delle spese di trasferimento, e provare ad identificare le fonti alternative di finanziamento.
  • Una questione fondamentale rispetto al dibattito sul reddito garantito ha a che fare con la natura di quest'ultimo, confrontata a quella di un reddito proveniente da patrimonio immobiliare o dalla detenzione di un capitale finanziario: per ogni classe di agenti, detentori di titoli di proprietà sul lavoro passato accumulato (o sulla terra) la stretta monetaria che lega il reddito all'impiego non esiste. Per questa categoria di agenti il lavoro non è un obbligo, ma deriva da una libera scelta. Tale osservazione evidenzia la contraddizione di alcune visioni che si oppongono al reddito garantito accampando considerazioni di ordine morale o economico; infatti la disconnessione del reddito dall'impiego non è che la distribuzione di un diritto attualmente limitato ad una fascia di popolazione privilegiata; la conseguenza di un allargamento non è tanto quella di produrre una massiccia disaffezione al lavoro in generale, ma facilitare la ricerca e la costruzione di nuove forme di lavoro scelto
  • Due sono i mezzi suscettibili di sostituire alla rendita di capitale una rendita sociale collettiva: a breve l'introduzione della tassa Tobin sui movimenti speculativi di capitale costituirebbe uno strumento di finanziamento efficace e facilmente applicabile da un punto di vista tecnico. Si tratterebbe di prelevare un imposta dello o,5% sugli scambi monetari mondiali. L'Onu ha ripreso tale proposta e le entrate avrebbero dovuto costituire un fondo sociale di solidarietà internazionale. Sotto la spinta del movimetno dei disoccupati la ripresa della Tobin-Tax potrebbe aumentare considerevolmente le entrate degli Stati, costituire uno dei risvolti della costruzione di un Europa sociale: permetterebbe di finanziare l'istituzione di un reddito garantito ed a livello europeo potrebbe anche dissociare il reddito garantito dal riferimento allo Stato-nazione e proiettarlo sul piano mondiale data l'interdipendenza dei sistemi produttivi
  • In una prospettiva più radicale di trasformazione dei rapporti sociali il finanziamento del reddito garantito in quanto istituzione di una rendita sociale collettiva potrebbe ispirarsi alle proposte formulate da Oskar Lange e attualmente da J.Meade nell'ambito della crisi attuale. Questi autori suggeriscono un principio di risocializzazione dell'economia originale a partire dalla proprietà dei mezzi sociali di produzione, alternativo alla nazionalizzazione socialista. Tali proposte si differenziano dall'idea del semplice sviluppo di un'azionariato di massa nella misura in cui i titoli di proprietà sono supposti essere inalienabili. Per Lange il capitale e il progresso della produttività sono un prodotto della cooperazione sociale; essi sono proprietà di tutti e giustificano a questo titolo a questo titolo il diritto di ciascuno dei membri della collettività ad un dividendo sociale. Allo stesso modo nel modello di economia utopica di Meade il 50% del capitale produttivo delle imprese appartiene alla comunità e il reddito garantito risulta dalla divisione del reddito scaturito dalla produzione delle imprese socializzate. Questo reddito sarebbe sarebbe per Meade il risultato dell'efficacia della produttività del paese, misurata dal profitto scaturito dalla comune approriazione del capitale produttivo.La distribuzione di un dividendo collettivo si giustifica sul riconoscimento del diritto di ogni cittadino ad una parte quota della produzione sociale, in virtù di due considerazioni principali: il capitale fisso è derivato da un lavoro sociale passato che non legittima in alcuna maniera la sua valorizzazione su una base individuale e privata; i valori d'uso compongono il capitale fisso ed i prodotti non possono essere consumati che collettivamente, con l'intermediazione del lavoro dell'insieme dei membri della società
  • Lange associava l'istituzione di una rendita sociale collettiva ad un salario sociale, fondato sull'esistenza dei guadagni di produttività irriducibili alla semplice addizione del contributo individuale dei diversi fattori di produzione. La pertinenza di tale proposta è ancora più forte oggi in quanto appunto al cooperazione sociale produttiva si sviluppa in luoghi ed istituzioni sempre più esterne ed autonome all'impresa e svolge una funzione crescente nella diffusione del sapere come principale fonte del valore. Tali trasformazioni rompono ogni legge di proporzionalità tra sforzo individuale e remunerazione. L'organizzazione sociale della produzione si presenta come nell'ipotesi marxiana del general intellect, sotto forma di un sistema integrato con un'interdipendenza generale in cui la stima della produttività con il calcolo marginale perde ogni pertinenza. Marx infatti diceva che non appena il lavoro informa immediata avrà cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del suo valore d'uso
  • Questo tipo di trasformazione rimette in discussione tutte le frontiere che nella teoria economica separano l'universo produttivo della sfera mercificata dall'universo improduttivo della sfera non mercificata. Il ruolo sempre più centrale del sapere come la crescente socialità della innovazione tecnologica, rendono caduche le categorie abitualmente utilizzate per caratterizzare lo statuto (produttivo o improduttivo) della forza-lavoro. Tali evoluzioni rendono obsolete la misura dell'effettiva durata della giornata lavorativa, sula base di una rigida separazione tra tempo di lavoro consacrato alla produzione e tempo di lavoro e/o di formazione. Il sapere e il non-lavoro in generale diventano in questo contesto la fonte di esternalità e di un progresso tecnico esogeno alle imprese. Continuare a riferirsi al concetto tradizionale di lavoro produttivo farebbe parte del medesimo anacronismo che dopo la prima rivoluzione industriale avrebbe voluto mantenere le vecchie categorie elaborate dai fisiocratici che consideravano come produttivo solo il lavoro nel settore primario: mantenere queste categorie avrebbe significato affermare che il lavoro dei salariati nell'industria manifatturiera era un lavoro improduttivo e parassitario. Perciò il riconoscimento del carattere collettivo dello sviluppo delle forze produttive richede una riforma radicale dei criteri di valutazione e delle norme di distribuzione della ricchezza nazionale
  • Il reddito garantito si caratterizza dunque come una categoria di analisi radicalmente nuova e completamente originale rispetto alla triade salario-profitto-rendita che regge la distribuzione del reddito all'interno di una economia di mercato. Esso non può essere ridotto ad una misura monetaria. La sua definizione deve integrare come componente indissociabile l'accesso universale, l'accesso ad un insieme di servizi e valori d'uso (salute, alloggio, educazione, formazione) che rappresentano un diiritto inalienabile ed insopprimibile alla cittadinanza, assicurando a ciascuno le condizioni materiali per una libera espansione della propria individualità. Comunque nella sua componente monetaria, combinazione di una rendita collettiva (dividendo sociale) e di un salario sociale, esso costituisce un reddito primario (prima della tassazione e di ogno redistribuzione) il cui ammontare è calcolato in funzione di un livello di reddito decente fissato come riferimento. Deve essere indicizzato sul prezzo e sui rendimenti sociali di produttività e può variare in proporzione della crescita o decrescita della produzione

Il saggio di Dieuaide e Vercellone è molto condivisibile: l'unica cosa che va detta è che la possibilità di attribuire reddito monetario sulla base di valutazioni immediatamente politiche che scavalchino il reddito anticipato dal capitale presuppone l'esistenza di un'autorità monetaria ad un piano comunque superiore a quello della circolazione internazionale del capitale finanziario. Ci vuole uno Stato mondiale signore di una moneta mondiale. Sino ad allora le autorità monetarie locali per finanziare il reddito di cittadinanza devono comunque utilizzare il prelievo fiscale, anche se si può pensare (con una certa cautela) ad un debito pubblico europeo

mercoledì, febbraio 22, 2006

Le perplessità di Angelo Zaccaria

Molto interessanti sono le perplessità di Angelo Zaccaria dei Cobas che parte dal fatto che le opzioni differenti all'interno della sinistra sono tutte deboli, dal momento che hanno grosse difficoltà ad intercettare il proprio soggetto sociale di riferimento. La tematica del diritto al reddito comunque è essenziale, anche se nei suoi sostenitori ci sono forzature (come sul fordismo come nuovo modo di produzione, mentre forse è più un nuovo modo di organizzazione) e ambiguità. Non si capisce infatti se il fondamento del reddito minimo sia la tesi postfordista o quella keynesiana dello stimolo della domanda interna; in questo secondo caso però anche i governi liberal e di centro-sinistra non stanno attuando politiche keynesiane, tant' è vero che non si stanno realizzando nè la riduzione dell'orario, nè il reddito di cittadinanza. Perciò questa seconda ipotesi è debole dal momento che gli interlocutori istituzionali non sono disposti ad ascoltare.
Quanto alla ricerca di un soggetto sociale extra- istituzionale e dunque alle argomentazioni postfordiste, queste cercano di evidenziare la natura ricompositiva della proposta del reddito minimo che renderebbe tutti più forti al momento di contrattare la vendita di forza-lavoro. Ma, obietta Zaccaria, se il soggetto possibile è frammentato per la lotta alla riduzione d'orario, perchè non dovrebbe esserlo con la proposta del reddito minimo? Spesso si presenta questa lotta con argomenti astratti e ad hoc, preparati a tavolino e che difficilmente preludono ad una battaglia sociale di massa allargata. Come si concilia la battaglia di lungo periodo contro l'etica del lavoro con la battaglia a breve per un reddito che consenta di campare e quindi con la costrizione al lavoro ? Anche Fumagalli quando vede nei Centri sociali i luoghi di incontro di diversificate esperienze lavorative propone alla fine soluzioni inadeguate.
Zaccaria nota inoltre che la proposta del reddito di cittadinanza così astrattamente intesa rischia di generare nuove autonomie del politico e nuove separazione tra soggetti sociali e soggetti politici. Nella lotta concreta si cerca di declinare versioni più comprensibili della lotta per il reddito universale, con la parola d'ordine del reddito o del salario minimo. Zaccaria nota anche che non basta la propaganda culturale per superare l'etica lavorista, il cui dominio è dovuto a condizioni materiali maturate in un lungo processo storico, fatto di convenienze coatte, di costrizioni e di rapporti di forza: negli ultimi anni si fa strada la convinzione che è meglio un cattivo lavoro che nessun lavoro per cui il ricatto dell'etica lavorista rimane un dato di fatto. Purtroppo il soggetto sociale antagonista è indebolito e non basta promettere un reddito per rafforzarlo, ma bisogna vedere da dove e come cominciare per fare leva e realizzare questo ed altri obiettivi.
Inoltre Zaccaria argomenta che la battaglia per il reddito di cittadinanza si deve combinare con la battaglia per la cittadinanza universale, altrimenti il rischio è che le lavorazioni rifiutate da chi percepisce il reddito minimo siano scaricate sugli immigrati.
Ancora è necessario per radicare socialmente queste battaglie inserirsi non solo nei luoghi di lavoro tradizionali ma anche nei luoghi di lavoro precari e flessibili (contratti a termine, stage, lavori socialmente utili, cooperative di appalto e sub-appalto, aziende che utilizzano lavoro precario etc) nei quali vi è un minimo di concentrazione della forza lavoro e di continuità del rapporto lavorativo. In questi luoghi vi è una domanda di tutela e salvaguardia di bisogni e diritti e una carenza di riferimenti politici e sindacali disposti ad offrire una sponda
Zaccaria sostiene anche che il lavoro salariato ancora per molto manterrà ancora un ruolo importante (altrimenti perchè le forze padronali insisterebbero per renderlo ancora più precario?) e sin quando l'organizzazione del lavoro sarà più o meno la stessa, una lotta sindacale sarà sempre possibile. Solo che i soggetti in gioco devono coltivare quella capacità di relazione che eviti la riproposizione di linguaggi stereotipati e non molto in grado di proiettarsi esternamente.
Per Zaccaria è ragionevole prevedere un percorso non-lineare , spurio e discontinuo, un percorso in cui ci sarà spazio per chi rivendicherà diritti e tutele per i posti di lavoro, per chi chiederà il posto di lavoro, per chi chiederà un reddito, il rinnovo di un contratto a termine, un corso di formazione retribuito etc. Tutte le lotte di questi anni non ponevano mai l'obiettivo del reddito in forma pura, indeterminata ed assoluta, ma lo articolavano in forma specifica e contraddittoria, condizionata dal contesto dato: i corsisti chiedevano la retribuzione dei corsi o la loro trasformazione in lavoro stabile, i disoccupati organizzati chiedevano lavoro o salario garantito, i lavoratori socialmente utili la trasformazione del loro ruolo in lavoratori a tempo indeterminato.
Se nel postfordismo il lavoro sarà sempre di meno, allora sarà più probabile che le lotte per il lavoro si trasformeranno in lotte per il reddito, ma se la situazione sarà più sfumata le battaglie per il lavoro manterranno uno spazio rilevante. Dunque è errato contrapporre i due tipi di battaglia in nome di un astratto rifiuto dell'etica lavorista dal momento che esiste fra essi un nesso dialettico di continuità; nè si può pensare che un soggetto della lotta per il reddito minimo non può nascere dal nulla, ma da una tradizione o da una condizione condivisa e concreta : gli Lsu diventano un soggetto collettivo conflittuale non a partire dalla generica condizione di cassintegrati o disoccupati di lunga durata, ma a partire dal fatto che l'inserimento nei progetti dei lavori socialmente utili ha dato loro la possibilità di conoscersi e costruire legami di identificazione e solidarietà collettiva, basati anche su identiche condizioni contrattuali e su un interlocutore unico: questo lo sa anche il governo che si guarda bene dall'aumentarne il numero perchè si troverebbe di fronte ad altri soggetti potenzialmente rivendicativi: perciò anche uno strumento di precarizzazione del lavoro nella Pubblica amministrazione può diventare il motore di un nuovo ciclo di lotte per il lavoro e per il reddito. Anche in Francia la lotta dei disoccupati nasce da soggetti unificati dall'essere destinatari di un sistema sia pur imperfetto di tutele, che cercano di difendere tale sistema da un attacco e che a partire da questa dimensione difensiva faceva partire anch'esso un nuovo ciclo espansivo di lotte. Come i Lavori socialmente utili sono stati una versione al ribasso dell'idea di reddito minimo garantito....
Zaccaria poi dice che anche limitarsi a proporre una miscellanea delle proposte oggi sul tappeto (reddito minimo, reddito di cittadinanza, riduzione d'orario, salario garantito) può trasformarsi in un altro specchio della nostra confusione, anche se tale fritto misto può essere una debole base di discussione per possibili forme d'azione comune (tra Cobas, Tute bianche, Centri sociali).
Bisogna infine iniziare una battaglia per garantire a tutti un reddito dignitoso per vivere, indipendentemente dalla prestazione di un'attivita lavorativa e assumere la necessità per coloro che l'attività lavorativa la prestano, di difenderne la stabilità e di costruire vertenze per innalzare la soglia di garanzie e tutele. Bisogna essere attenti all'apertura verso il resto della società, che può trasformarsi in mera relazione con spezzoni della politica e delle istituzioni, e si deve poi mantenere il rapporto tra lotte concrete e quadro complessivo di trasformazione.
In prospettiva il nodo fondamentale da sciogliere è quello relativo alla ricomposizione del nesso tra obiettivi, forme di azione e soggetti che agiscono

Le considerazioni che vanno fatte a tal proposito sono:
  1. Il reddito di cittadinanza non consiste in una sola proposta, ma in un ventaglio di proposte con diverse ispirazioni. Proprio per questo esso può costituire un filo rosso della trasformazione della società da società capitalistica a società con contenuti propriamente comunistici
  2. Il soggetto sociale di riferimento del reddito di cittadinanza e della riduzione d'orario deve essere il proletariato e più concretamente un'alleanza tra lavoratori attaccati dal processo di precarizzazione e disoccupati
  3. Il fatto che i governi liberali non stanno praticando una politica keynesiana non chiude il discorso relativo ad una riforma del mercato e dei tempi di lavoro e non-lavoro ispirata al principio della stabilità della domanda: ci sono lotte dei lavoratori garantiti e dei disoccupati in Francia, Italia, Germania; ci sono Stati come quelli scandinavi dove il Welfare funziona ancora; c'è la volontà di combattere il precariato e c'è la possibilità di una crisi Usa del debito privato e del mercato immobiliare che potrebbe mettere in discussione il modello statunitense dell'economia
  4. Il soggetto è frammentato sulla lotta per la riduzione d'orario perchè è difficile immaginare una proposta che unifichi un assetto già disarticolato e differenziato (la riduzione d'orario è una proposta specifica e determinata di organizzazione del lavoro), mentre il reddito di cittadinanza è una proposta di per sè semplice (l'erogazione di denaro) che unifica la società dal lato del consumo (dove il vantaggio di avere maggior potere d'acquisto in caso di bisogno è una preoccupazione sentita da occupati e disoccupati)
  5. Meglio un cattivo lavoro che nessun lavoro funziona solo perchè non c'è un reddito di cittadinanza e perchè comunque si fa strada la pratica del credito al consumo che permette di mantenere ancora certi livelli della domanda. Ma l'aumento del debito privato per quanto è una strada percorribile in presenza di una sempre maggiore precarizzazione del lavoro? Poi c'è sempre uno zoccolo duro di disoccupati che difficilmente rientrerà nel mercato del lavoro.
  6. Il fatto che c'è il rischio che le lavorazioni meno gratificanti siano scaricate sugli immigrati può essere anche un'opportunità per evitare che gli immigrati si lascino assorbire dall'economia criminale e comincino un percorso verso il miglioramente delle proprie condizioni. Inoltre a tal proposito il reddito di cittadinanza va abbinato ad una legge per il salario minimo.
  7. E' ben possibile come dice Zaccaria che la battaglia per il reddito di cittadinanza sarà un percorso spurio di rivendicazioni parziali, ma credo che sia utile non tanto negare la ancora grande importanza del lavoro salariato, quanto cominciare a ritagliare uno spazio in via di rafforzamento per il reddito non legato al rapporto salariato. La lotta per il lavoro e la lotta per il reddito non sono in contraddizione, proprio perchè l'avversario comune è la precarizzazione del lavoro (che riguarda sia i disoccupati che i lavoratori, dal momento che ai secondi toglie una serie di diritti mentre ai primi toglie la possibilità di soddisfare bisogni anche minimi rimanendo nella loro attuale condizione). La strada può essere una battaglia per la soddisfazione garantita di bisogni primari, a prescindere dalla propria situazione lavorativa: tale battaglia di per sè porterà ad un livello più alto la stessa battaglia per il lavoro.

Claus Offe sul reddito minimo

Claus Offe, filosofo e sociologo di ispirazione marxista e francofortese, così giustifica la sua proposta di reddito minimo:



  • Ciò che si deve assicurare tramite il principio liberale dello Stato di diritto era il libero godimento della vita e della proprietà. La sicurezza era garantita dalla non-azione dello Stato. All'opposto la sicurezza ed il benessere (Welfare) sociale sono garantiti solo dall'azione dello Stato, che deve garantire per legge il benessere per mezzo di rimesse in denaro, servizi, infrastrutture materiali e politiche di controllo nel campo sanitario, dell'istruzione, degli alloggi, della previdenza, dell'assistenza sociale, della protezione del lavoro e dell'assistenza alle famiglie. L'azione dello Stato si delinea come individuazione di obblighi positivi e diritti legali per determinate categorie di persone in relazioni a condizioni e situazioni contingenti per le quali sia riconosciuta la necessità del pubblico intervento. Un importante differenza tra Stato liberale e Welfare è che il principio dell'inazione è più operativamente preciso, mentre quello dell'azione comporta sempre il quesito sul quanto e come dell'intervento e dunque si espone alle critiche di ambiguità e di indeterminazione
  • Il ritiro del Welfare su posizioni liberali è impossibile in primo luogo perchè le cause dell'insuccesso economico sono complesse e non sono attribuibili ai soggetti individualmente intesi, in secondo luogo perchè non c'è più una fede religiosa dominante che conduca ad accettare in maniera rassegnata tale insuccesso ed in terzo luogo perchè l'insuccesso economico degli individui ha conseguenze sociali rilevanti che non possono essere trascurate, ma che bisogna prevenire. Le misure di sicurezza sociale sono stabili per lunghi periodi di tempo ed in alcuni paesi (Germania, paesi scandinavi) non sono oggetti di aspre controversie e sono spesso sostenute da partiti diversi. Ciò è dovuto al fatto che l'attivazione delle misure di Stato sociale poggiano su un certo numero di presupposti condivisi circa gli interventi legittimi, i disagi tollerabili etc.
  • Offe individua quattro fattori che concorrono contro la formazione del consenso attivo verso lo stato sociale: la diffusione dell'universalismo morale, scarsità di strumenti per ottenere individualmente quel che si richiede come diritto, autoinclusione potenziale nella categoria degli aventi diritto, conoscenza delle conseguenze sistemiche dell'azione sociale o dell'omissione della stessa.
  • Tuttavia ci sono fattori di crisi del modello produttivistico che vede il lavoro come strumento di integrazione e mediazione sociale: alcuni liberali pensano che bisognerebbe riattivare il mercato, altri che bisogna difendere lo Stato sociale, altri che pensano ad alternative quali il basic income. Questo si basa sulla cittadinanza e non sull'appartenenza ad una classe o ad un gruppo sociale, su attività utili extramercato e non sul lavoro salariato, sul bisogno e non sul merito, sull'autonomia del cittadino e non su una sicurezza eteroregolata
  • Le ragioni per mettere in questione il Welfare sono diverse: in primo luogo i costosi sistemi di sicurezza sociale richiedono una quantità consistente di interventi fiscali che presupporrebbero una crescita economica forte; in secondo luogo lo scollamento tra sviluppo ed occupazione rende più difficile l'assolvimento da parte del lavoro salariato del ruolo di legame sociale fondamentale; in terzo luogo la contrazione del Welfare conseguente alla forte disoccupazione, fa sì che coloro che fuoriescano dal mercato del lavoro siano progressivamente meno protetti; in quarto luogo una selezione dei destinatari dello Stato sociale porterebbe ad una perdita di consenso da parte della classe media che ha fruito dello Stato sociale pur non trovandosi in condizione di indigenza
  • La proposta di un basic income dovrebbe invece essere una sintesi degli aspetti più positivi dell'universalismo e della selettività: esso deve essere incondizionato a livello di sussistenza, finanziato dalle tasse, fondato sulla cittadinanza; inoltre l'opposizione della classe media deve essere superata attraverso la seguente regola procedurale: le revisioni di programma che ridurrebbero l'accesso al basic income o il suo livello non potrebbero passare se non con una maggioranza del 90% dei suoi contributori finali: se ad es. il 20% della popolazione volesse il basic income una revisione al ribasso diverrebbe effettiva solo se approvata dal 72% del corpo legislativo. Tale misura di protezione delle minoranze strutturali perderebbe di forza man mano che la minoranza aumentasse di numero: più questa si avvicina alla parità, più ci avvicineremmo alla regola della maggioranza semplice. Va inoltre incoraggiato e facilitato lo sviluppo del lavoro cooperativo diffuso al di là del lavoro formale e/o salariato, di modo che gli individui non solo sarebbero messi in grado di scegliere se uscire temporaneamente o per sempre dal lavoro formale, ma sarebbero liberi di accrescere da soli o in cooperazione con altri le proprie abilità, capacità normalmente sottoutilizzate in condizione di occupazione o di disoccupazione
  • Tuttavia la proposta del basic income incorre in limiti, rischi e problemi: in primo luogo non dobbiamo pensare ad essa come una panacea, ma come un intervento tra tanti che deve essere verificato nel tempo e che non fonda un nuovo ordine sociale, ma preserva e diffonde le idee della giustizia sociale in alternativa allo smantellamento del Welfare; in secondo luogo bisogna costruire una rete di alleanze tale da conquistare il consenso democratico e da difendere il provvedimento dai successivi tentativi di revisione in negativo; in terzo luogo bisogna aggirare l' "obiezione dello sfruttamento" utilizzando i disoccupati volontari in lavori socialmente utili ed evidenziando l'importanza dell'autosviluppo delle risorse umane in termini di cura per la salute e di aggiornamento culturale; in quarto luogo bisogna dare ad ognuno maggiori libertà nel combinare lavoro formale e/o salariato ed altre attività che si desiderano svolgere in modo da rendere socialmente preferibile nel lungo periodo il lavoro intermittente e discontinuo
  • Pur con questi possibili inconvenienti il basic income può diminuire il produttivismo e facilitare lo sviluppo di una coscienza ecologica, può favorire l'integrazione sociale di chi attualmente è escluso perchè non lavora, può favorire l'accrescimento del capitale umano facilitando la continua rigenerazione creativa delle abilità, può promuovere l'umanizzazione del lavoro disincentivando l'offerta di lavori troppo faticosi ed alienanti
  • In ultimo va detto, a coloro che pensano che il basic income causerebbe una fuga dal lavoro, che il basic income rimarrebbe molto inferiore al salario minimo e che l'autoformazione consentita dal reddito minimo garantirebbe una maggiore produttività del lavoro vivo, consentendo di perseguire comunque la piena occupazione

Le tesi di Offe sono interessanti soprattutto per quel che riguarda il processo che può portare la consenso sociale attorno al reddito di cittadinanza. Però non possiamo essere d'acoordo con Offe quando pensa a maggioranze qualificate per cancellare o ridurre l'ambito del reddito minimo una volta che questa fosse comunque instaurato. Tale strozzatura in uscita non renderebbe il reddito di cittadinanza più condivisibile ed attraente di quanto non fosse prima della sua adozione. Si può benissimo pensare che il reddito di cittadinanza possa essere un risultato di un processo costituente ed è a questo che le forze sociali che lo possono proporre debbono aspirare; in questo modo si garantirebbero anche quella maggiore tutela che è patrimonio comune a tutte le norme costituzionali. Fino ad allora però esso deve essere il frutto di una legge come le altre, il risultato di lotte sociali che vanno sempre riprodotte e che dunque devono nel loro insieme costruire il terreno di un'egemonia che possiamo definire pure di classe. Un processo costituente non si ottiene all'improvviso e tutto in una volta, ma è il risultato di un conflitto sociale senza sconti o scorciatoie dove la legge deve essere il risultato saldo di un'acquisizione di consenso che resista ad ogni risacca storica

lunedì, febbraio 20, 2006

Bascetta e Bronzini sul reddito minimo

Bascetta e Bronzini nella loro introduzione a
AA.VV. - La democrazia del reddito universale - Manifesto libri http://80.22.205.87/bwnet/FormTIT.asp?IDS=98752&OPAC=BNAP
asseriscono che






  • La teoria democratica ha collegato reddito di base e cittadinanza, dal momento che la libertà dal bisogno viene considerato il diritto ultimo ma più significativo di quelli che spettano ad ogni membro di una comunità statale. I doveri del singolo verso uno stato implicano la garanzia della sopravvivenza materiale, oltre ai diritti formali ed al principio democratico. Nel contesto del dibattito sulla società giusta Rawls colloca il minimo socialetra le istituzioni di sfondo della giustizia distributiva e dal momento che il mercato non è capace di soddisfare il criterio del bisogno, quest'ultimo va soddisfatto attraverso la riconfigurazione di sfere e strumenti alternativi a quelli economici. Tuttavia il compromesso rawlsiano presuppone ancora il carattere eccezionale della disoccupazione e perciò si basa ancora sulla stabilità per tutti del lavoro subordinato e prevede che l'entitrà dei trasferimenti ai gruppi meno avvantaggiati non possa superare quel limite oltre il quale si avrebbe un effetto depressivo sulla competitività economica e unpeggioramento per tutti delle aspettative di lungo periodo. Ma se si accetta il principio che la garanzia di un minimo sociale connessa al nucleo essenziale della cittadinanza ( lo ius vitae ) entri a far parte delle istituzioni di sfondo della società, la sua erogazione non potrebbe essere subordinata a considerazioni di efficienza che diverrebbero pertinenti solo a partire dal momento in cui la libertà dal bisogno è garantita per tutti : assicurato cioè il diritto all'esistenza, gli ulteriori trasferimenti per ragioni di eguaglianza siano valutati anche con il metro della competitività del sistema economico
  • Comunque nel corso degli ultimi decenni la riproposizione dell'idea di un reddito minimo si stacca da un piano astratto di riflessione per scaturire dai concreti processi economici che stanno mettendo in crisi l'architettura del Welfare, per cui ad es. in Dahrendorf il minimo sociale più che un applicazione eccezionale del principio di uguaglianza, diventa un rimedio necessario per evitare la disintegrazione sociale, dal momento che il mercato, non garantendo il diritto all'esistenza, lasciato a se stesso mette in pericolo la cittadinanza stessa.
  • Se nelle costituzioni post-weimariane il lavoro era considerato il collante tra la sfera politica dove si determina l'interesse generale e quella della rappresentanza di interessi strutturata per comporre nel rispetto dei principi costituzionali i continui conflitti che si generano nella realtà produttiva, allora la proposta del reddito minimo universale, volendo affrontare un problema che si sviluppa nel sistema del lavoro spostandolo nel sistema politico può essere considerato un alterazione del modello. Infatti la condizione del lavoratore viene parzialmente alleggerita, ma solo a condizione di ricondurla a quella del cittadino bisognoso: di qui la convinzione che tale proposta rappresenti più una fuga dalla costituzione del lavoro che un suo rilancio
  • Tuttavia tale preoccupazione deriva da una valutazione irrealistica della capacità del diritto del lavoro di mitigare le dinamiche di mercato dove la disoccupazione ormai si definisce strutturale e tale da non essere sensibilmente attenuata pur in presenza di crescita economica: dunque l'espansione dell'esercito industriale di riserva rappresenta una minaccia catastrofica per il sistema di diritti che ha garantito il mercato del lavoro. Al tempo stesso si esauriscono i paradigmi che hanno fondato l'attuale sistema di tutele
  • Infatti la prima fase del passaggio al post-fordismo è consistita nell'introduzione massiccia di tecnologia labour-saving che provvedeva alla drastica riduzione di organici ed allo smantellamento dei luoghi di contropotere operaio, In un secondo momento si è destrutturato lo stesso rapporto lavorativo, generalizzando i contratti atipici e decentrando e frammentando i luoghi di produzione e di conseguenza anche la forza lavoro; stabilità del posto di lavoro e tutele della professionalità vengono travolti dalla fluidità del capitale che separa radicalmente lavoratori altamente specializzati e lavoratori relegati a ruoli semi-servili, impedendo una ricomposizione attraverso la contrattazione collettiva.Nel frattempo si sviluppa un lavoro para-autonomo che perde ogni contatto con la regolamentazione collettiva dell'orario di lavoro e genera il paradosso di isole (dominate dall'obbligazione di risultato) dove vige un abnorme allungamento dell'orario di lavoro all'interno di un mare dove la giornata lavorativa sociale risulta in diminuzione.
  • Il giuslavorismo più avvertito ha suggerito una ridislocazione del diritto del lavoro assestandolo sulla tutela di prerogative minime comuni ad ogni attività produttiva, ma tale riduzione alla fine potrebbe assecondare quella diffusione già in atto di rapporti di lavoro semi-servili a cui lo stesso lavoro salariato rischia di sovrapporsi: condizioni di lavoro svantaggiose e coercitive vengono legalmente sancite per offrire una possibilità alla massa crescente di disoccupati: dalla differenziazione di diritti e livelli salariali per diverse aree geoeconomiche (che restaurano margini di profitto e forme di sfruttamento analoghe a quelle coloniali) al lavoro interinale (che priva il lavoratore di un luogo stabile di lavoro e di un' interlocuzione costante) ai salari d'ingresso ( che restaurano estensivamente forme di sfruttamento dell'apprendistato denunciate secoli fa da Grozio come servitus imperfecta e mascherate dall'alibi della formazione ).
  • In realtà il lavoro vivo ha perso valore e ruolo nella produzione della ricchezza e può riproporre una propria funzione competitiva solo attraverso una sua degradazione, solo esportandosi come una moneta svalutata (Marx diceva che l'operaio diventa invendibile come una moneta fuori corso). Ma nella pretesa di conseguire attraverso questo adeguamento una difesa dell'occupazione c'è una contraddizione insanabile dal momento che il lavoro ha rappresentato il legame sociale dominante nel momento in cui se ne contestava il carattere subordinato o lo si caratterizzava come fondamento della soggettività politica, mentre i processi oggi in atto percorrono una strada inversa, alla fine antitetica alla stessa cittadinanza
  • Mentre il capitalismo delle origini trasformava la sovrappopolazione relativa in esercito industriale di riserva, il capitalismo contemporaneo riconverte l'esercito industriale di riserva in sovrappopolazione relativa. Il lavoro è sotituibile per via tecnologica, trasferibile in altre zone del pianeta, riducibile a lavoro asservito. Il valore del tempo di lavoro è in declino nella produzione di merci, ma mantiene il monopolio come unità di misura. Il valore del lavoro è basso e quello del non-lavoro è nullo , perchè il tempo di lavoro resta l'unica misura vigente
  • Dunque oggi la difesa dei lavori non può più darsi esclusivamente nel contratto, ma deve coniugarsi con quella che deve saper retroagire al momento in cui si sceglie come e per quanto tempo lavorare per conto altrui. Qui ci deve essere un sostegno, una forza che possa seguire l'individuo in ogni spostamento successivo. Il reddito universale costituisce una misura necessaria di unificazione tra occupati, semi-occupati e disoccupati, che fornisce la leva per poter meglio contrattare condizioni, tempi e carichi di lavoro. Il basic income non è solo sostegno per i disoccupati, ma è un sostituto funzionale dei tipici diritti del lavoratore fordista ( stabilità del posto di lavoro, mantenimento della professionalità acquisita etc ) travolti dalla fluidità del capitale. Tale diritto, oltre a garantire una sicurezza individuale minima ed a contrastare la diffusione di lavori semi-servili, offrirebbe anche una possibilità a tutti di dosare tempo di cura, di studio o di formazione con il tempo di lavoro
  • E' nella sfera del non-lavoro che bisogna agire se si vuole aggredire il potere di ricatto esercitato sul lavoro: il reddito universale è quel principio che riconosce valore al non-lavoro e a quell'insieme di attività relazionali, autoformative che non ricadono nei confini del rapporto salariale. Nel conferire un valore sociale al non-lavoro, il reddito di cittadinanza restituisce anche un prezzo congruo alla prestazione lavorativa, che per quanto umile, sfruttata ed intermittente non potrebbe essere pagata al di sotto della soglia di reddito garantita dalla cittadinanza. Inoltre il reddito minimo trae legittimità anche da quella fuga dal lavoro salariato che è stata una forma di ribellione contro una concezione monolitica e totalizzante dell'impiego che era alimentata anche dal garantismo operaio (si pensi che Lord Beveridge asseriva che il meccanismo del collocamento avrebbe reso impossibile ad uno di lavorare solo alcuni giorni alla settimana). Alcuni giuslavoristi pensano a tal proposito che il diritto del lavoro inteso come luogo di armonizzazione del lavoro come bene mercatile (lavoro astratto) e il lavoro come forma di espressione dell'individualità (lavoro concreto) abbia fallito, dal momento che il movimento delle garanzie ha sempre fatto prevalere il primo sul secondo, per cui si deve pensare anche ad una possibilità di scelta autonoma di tempi e carichi di lavoro e di schemi contrattuali: ovviamente questa apertura alla soggettività presuppone una copertura sociale di base. Dunque il reddito di base non costituirebbe l'abbandono della sfera lavorativa alle leggi ordinarie del mercato, ma la premessa di un nuovo diritto del lavoro che sappia piegare la flessibilità ad una misura sociale ed a bisogni individuali e collettivi
  • Per quanto articolata, la discussione sul reddito di cittadinanza si muove spesso all'interno della discussione sulla società giusta, di una storia del pensiero puramente politico legato al Welfare, alle idee di inclusione sociale, di consenso, di solidarietà e giustizia, mettendo in ombra il rapporto che questo tema ha con le questioni dello sviluppo e dell'accumulazione capitalistica, con la questione della macchina economica del Welfare, visto non come compromesso tra istanze contrapposte ma come una politica economica coerente. Questa asimmetria tematica fa sì che il problema più scottante per questi teorici sia la questione della legittimità etica e della compatibilità economica di un prelievo forzoso sul reddito di chi lavora a vantaggio di chi non lavora. Pur essendo convinti della contrazione di volume del lavoro necessario, del fatto che non sia possibile una correzione occupazionale dei meccanismi di sviluppo, detti teorici vedono il reddito di cittadinanza esclusivamente come strumento della riproposizione del legame sociale al di là della condizione lavorativa, come il segno di una ritrovata autonomia del diritto e delle politiche sociali, come se l'erosione del lavoro salariato cancelli la cogenza dei processi produttivi. Così anche i più radicali finiscono con l'adottare una posizione umanistica dove la sfera della produzione trova un limite esterno in un ambito extraeconomico, un luogo utopico della socialità.
  • Tale atteggiamento si presta perciò a tutte le critiche che evidenziano la dualizzazione della società, il carattere non inclusivo ma escludente del reddito di cittadinanza, il fatto che esso alimenta una discussione schizofrenica oscillante tra morale e contabilità. Bisogna uscire dalla mera logica distributiva con cui il reddito minimo viene rappresentato, misurarsi non tanto con il vuoto della disoccupazione, ma con il pieno del modo postfordista di produzione della ricchezza. Se si considera il reddito di cittadinanza un mero strumento di redistribuzione, si nega il ruolo della cooperazione sociale nel momento in cui questa non si assimila al lavoro e così si accetta un presupposto fondamentale del lavorismo e cioè che fuori dalla dimensione del lavoro si agita solamente una miriade di interazioni casuali ed improduttive senza scopo e senza direzione
  • In Marx la cooperazione sociale rappresenta una forza senza alcuna contropartita giacchè il capitalista paga i singoli salariati, ma dispone gratuitamente della loro interazione. Questa forza collettiva è generata da una serie di operazioni di cui l'imprenditore è il regista, ma resta il fatto che esista una forza collettiva produttrice di ricchezza mai riconducibile alla singola prestazione lavorativa, e dunque non computata nella sua retribuzione. E' la preistoria del processo di socializzazione del lavoro e di costituzione dell'operaio collettivo, in contraddizione con il metro salariale che pretende di stabilirne individualmente la misura. Con il sistema delle macchine si aggiunge una nuova forza che include in sè lavoro e sapere sedimentati nel corso delle generazioni, è qui già la legittima paternità dell'imprenditore si fa più incerta e la singola prestazione lavorativa più insignificante fino al "Frammento sulle macchine" ed all'idea di general intellect con cui la potenza produttiva è trasferita su un sapere generale, frutto di sedimentazioni culturali e interazioni sociali complesse, il carattere parassitario del padrone diventa evidente e la fatica salariata dei singoli è ridotta a miserabile residuo.
  • Così il movimento procede in direzione inversa : alla concentrazione subentra il decentramento e l'impresa sfrutta una geografia storicamente data e diffusa delle risorse e delle opportunità. L'imprenditore non può più rivendicare a sè alcuna paternità sulla forza produttiva che scaturisce da questo insieme complesso di interazioni, sempre meno riconducibili alla cooperazione lavorativa salariata in quanto eccedenti la stessa totale socializzazione del lavoro messa in campo dal fordismo maturo. ma quanto più si esaurisce la forza propulsiva del comando, tanto più questo si fa ferreo ed esigente: non è più la cooperazione sociale che si genera nell'organizzazione del lavoro salariato, ma sono le interrelazioni sociali, i flussi informativi ed il sapere diffuso ad essere messi al lavoro, disciplinati ed appropriati come fattori di produzione. La cooperazione sociale quanto più si avvia a diventare il fattore produttivo determinante, tanto più include quell'insieme di attitudini, comportamenti relative all' ambito del non-lavoro : è all'ordine del giorno il divorzio tra cooperazione sociale e lavoro salariato.La storia di Internet è significativa a tal proposito: un potente sistema di cooperazione sociale produttore di ricchezza si è formato in larga parte al di fuori del sistema del lavoro salariato. L'enorme produttività che ha comportato il restringimento del lavoro salariato stabile ed a tempo pieno, che consente il supersfruttamento di pochi e l'autosfruttamento senza pietà di un enorme arcipelago di lavoro autonomo e precario, trae alimento dalla sfera del non-lavoro. Il tessuto dell'innovazione (che Levy per quanto riguarda le competenze e l'intelligenza collettiva dice dover essere regolamentato, misurato e contabilizzato) è ormai tanto esteso, complesso ed inafferrabile da rendere impraticabile qualsiasi sistema di riconoscimento proprietario
  • Tuttavia la cooperazione sociale, pure se autonoma dall'organizzazione aziendale del lavoro, resta senza misura che non sia il vecchio metro del lavoro salariato o l'autosfruttamento selvaggio del lavoro autonomo tiranneggiato dalla committenza. Dunque è ora che la cooperazione sociale fuori del lavoro salariato esiga una misura adeguata al suo peso e cioè una parte della ricchezza che essa contribuisce in maniera determinante a produrre. Si tratta della rivendicazione ad un diritto sulla ricchezza prodotta presente e futura, scardinando definitivamente l'orizzonte della società duale. Per la cooperazione sociale complessa e l'universo relazionale e comunicativo che la sottende non v'è misura o brevetto possibile, criterio di distinzione tra le singole parti e i diversi contributi che vi confluiscono.
  • Dunque il reddito di cittadinanza sembra essere il più adeguato criterio di redistribuzione della ricchezza nell'ambito di questa sfera, indipendente da ogni prestazione lavorativa individuale o dalla manifesta volontà di cercare e accettare un posto di lavoro o da specifiche prescrizioni comportamentali. In questo corrisponde adeguatamente ad una sfera di interazione sociale che miscela i singoli contributi e il loro valore, rende intermittenti e mutevoli le posizioni di volta in volta occupate nel processo di cooperazione, possibile e legittimo il continuo avvicendarsi di lavoro e non-lavoro. Perciò il reddito di cittadinanza non veste i panni dell'ammortizzatore sociale, ma come rivendicazione di diritti da parte di una forza sociale diffusa che contesta l'intera struttura dei rapporti di proprietà, rea di voler mantenere il predominio sulla sfera sociale della comunicazione e del sapere. E' possibile che si formi una soggettività plurale (l'intellettualità di massa) cosciente di una posizione cruciale in gradi di radunare le fila di un esclusione dispersa tra lavoro e non-lavoro. Tale soggetto è esposto ad ogni genere di frammentazione, ma esprime anche un modo d'esistenza che potrebbe assumere il reddito di cittadinanza come retribuzione egualitaria della cooperazione sociale, a partire dalla quale le avventure individuali possano liberamente svilupparsi
  • Alcuni dicono, come Guy Aznar, che i fautori del reddito universale sono sognatori riformisti che finiscono per civettare con i liberisti. Anche l'ultimo Gorz e Alain Bihr sottolineano il rischio che una politica sociale limitata alla garanzia di un minimo vitale, non aggredendo l'attuale struttura occupazionale in sè, finisca con il sancire il crescente dualismo del mercato del lavoro tra pochi garantiti e la massa crescente dei sub-lavoratori, ribadendo il paradosso per cui alcuni lavorano, mentre altri rimangono del tutto inattivi. Sotto tale profilo solo la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro sarebbe una risposta adeguata alla flessibilità indotta dal Capitale ripartendo su basi eque e condivise il risparmio che le nuove tecnologie consentono nell'impiego di manodopera. Bascetta e Bronzini a tal proposito obiettano che in realtà tale opzione valuta erroneamente la capacità regolativa del diritto del lavoro grazie alla quale si dovrebbe attraverso i classici canali della contrattazione collettiva redistribuire progressivamente i carichi di lavoro, evitare la contrazione ulteriore dell'occupazione ed addolcire i ritmi per tutti. In realtà con la frantumazione dei rapporti d'impiego sta venendo meno pure l'insieme di presupposti per calcolare la giornata di lavoro.
  • Inoltre perchè se si riconosce che il lavoro non è più la principale fonte di ricchezza, la stessa misura della ricchezza sociale intesa come tempo di lavoro viene ripristinata considerando tabù un diritto al reddito che non derivi dall'osservanza di un orario di lavoro ancorchè ridotto? C'è da aggiungere poi che la riduzione dell'orario interessa solo una fascia ristretta di lavoratori stabili impiegati nelle grandi aziende, giacchè nel settore privato la quota maggiore del lavoro è ormai sfuggita a qualsiasi meccanismo di controllo e di regolamentazione. E' arduo pensare oggi che per legge o attraverso una contrattazione collettiva si possa stabilire la quota di lavoro per ognuno: tale capacità di direzione e controllo dei processi produttivi è fuori dalla portata pratica delle forze che si oppongono all'egemonia del mercato. A tal proposito Offe ha evidenziato la scarsa fungibilità come bene del tempo di lavoro e la maggiore fungibilità del denaro: perchè una riduzione d'orario sia effettivamente interessante esso deve riguardare certe fasce orarie e certi periodi (senza contare il fatto che le esigenze d'orario dei lavoratori sono le più varie). E' la discrepanza tra preferenze individuali e strategie collettive che sta alla base del fatto che forme consolidate di azione collettiva non riescano a produrre riduzioni dell'orario lavorativo di portata sufficiente a migliorare la situazione critica dell'occupazione. Rifarsi come faceva Gorz alla capacità di programmazione interna delle imprese trascura il fatto che le imprese sono organizzazioni autoritarie che non possono costituire il modello di una società complessa. Una contesa sul tempo di lavoro sociale non può che contare nella fase attuale sulla sperimentazione politica, su conflitti di base nei luoghi di lavoro e su percorsi ancora da costruire
  • In realtà tra riduzione dell'orario di lavoro e reddito universale non c'è incompatibilità, ma implicazione giacchè chi esclude il secondo lascia il settore della subordinazione privo di quella rete di protezione di base che costituisce l'equivalente funzionale delle prerogative classiche del diritto al lavoro. Senza questa garanzia di libertà minima, è difficile pensare che anche i lavoratori garantiti si imbarchino in una lotta per la riduzione dell'orario di lavoro, dal momento che tale misura è stata sinora adottata solo in chiave difensiva con riduzione di salari e per evitare licenziamenti
  • Comunque sia Gorz che Bihr hanno almeno in parte rivisto le loro pregiudiziali, Gorz ammettendo che l'idea del reddito di base guadagna terreno in un contesto in cui il posto di lavoro stabile non è più la norma, Bihr dicendo che il reddito minimo sarebbe la parte di ricchezza sociale di cui l'individuo può appropriarsi in quanto membro della società per il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e dei suoi progetti esistenziali. Gorz, Bihr e Aznar però evidenziano altre difficoltà quali quella per cui il reddito minimo potrebbe rilanciare la logica dello Stato assistenziale proteggendo individui isolati e privi di spazi di comunicazione, omologati da una previsione legale generale ed astratta. In realtà le proposte sul reddito minimo tengono conto della crisi dello Stato sociale, dove già ci sono forme di reddito di cittadinanza mascherate come ammortizzatori sociali per i licenziamenti(prepensionamenti, casse integrazioni lunghissime, liquidazioni non calcolate sul lavoro erogato ma frutto di finzione) e più finanziariamente gravose (perchè agganciate ad un reddito ipotetico di un lavoro che non si svolge da anni) oltre che problematica rispetto al principio di eguaglianza (perchè i licenziati sì e quelli che non hanno mai lavorato no?)
  • Infatti se bisogna evitare quell'eterogenesi dei fini per cui il pubblico, inteso come rimedio alle patologie del mercato, si attua in forme burocratiche e reificanti, allora con il basic income ci si muove nella direzione giusta: Luigi Ferrajoli a tal proposito dice che l'assicurazione a tutti di minimi vitali consentirebbe, grazie all'astrazione da condizioni particolaristiche e da decisioni selettive, da un lato una radicale sburocratizzazione dello Stato sociale all'insegna della trasparenza e della legalità e dall'altro una formalizzazione efficace delle procedure di tutela dei servizi sociali. Un reddito di cittadinanza favorirebbe la rinuncia a costosi quanto inefficaci apparati di regolazione del mercato del lavoro, non comporterebbe incremento degli organici nei servizi pubblici. Il basic income non sarebbe neppure in contrasto con i lavori socialmente utili sempre che queste ultime non siano forme di lavoro coatto. L'ultimo Gorz ammette pure che il reddito di base è un momento necessario per la messa in opera di nuove modalità dell'agire e del vivere sociale costituendo cioè un contesto dove ognuno verrà attratto da più tipi di legami associativi che lo inseriranno in attività organizzate, costruendo così il complessivo legame sociale al di là del rapporto salariato. Bisogna insomma superare gli steccati e ripensare ad una strategia complessiva dove diverse istanze (la partecipazione di tutti alla ricchezza sociale, la difesa del lavoro in tutte le sue forme, il riconoscimento di attività socialmente utili e l'equa riduzione del tempo di lavoro eterodiretto) convergano tutte verso la messa in stato d'accusa della società postfordista

L'articolo di Bascetta e Bronzini si può sottoscrivere quasi per intero, con una sola osservazione: è troppo presto perchè il reddito di cittdinanza possa essere giustificato sulla base della tesi per cui bisogna remunerare il general intellect. Ma andiamo per gradi:

  1. Il reddito di cittadinanza viene giustificato a vario titolo (liberale, comunitarista o marxista). Questa è una sua forza in quanto consente di riconfigurarlo progressivamente da posizioni minimalistiche sino a posizioni più radicali man mano che quelli che riteniamo essere i suoi effetti positivi si articolano legittimando sempre più una sua estensione.
  2. A mio parere inizialmente (perchè sia approvato in un contesto limitato ed angusto come quello italiano) il reddito di cittadinanza deve essere quello un reddito minimo e più circoscritto di tipo liberale (così su di esso ci può essere una maggior convergenza di forze).
  3. Perciò la sua necessità deve essere quella del mantenimento di un certo livello della domanda aggregata che una disoccupazione strutturale come quella europea non può alla lunga permettere (soprattutto se negli Usa scoppierà la bolla del debito privato, prevista da Sylos Labini prima di morire). E la forza dei movimenti che si collegano alla richiesta del reddito di cittadinanza deve essere quella di chi vuole rappresentare la possibilità di frenare l'instabilità della domanda interna. Dunque non ci si deve presentare come quelli che producono ma non vengono riconosciuti, ma come quelli che potrebbero consumare e non possono farlo in un arco intertemporale lungo.
  4. La tesi del general intellect accenna a quella che potrà essere la legittimità del movimento proveniente dall'ambito del non-lavoro, ma attualmente deve risolvere il problema di unificare le diverse componenti di questa sorta di "mondo-della-vita" tenuto fuori dalla dimensione del lavoro salariato: la prima dimensione è quella residuale, ma ancora consistente a livello mondiale del contesto non- capitalistico in cui l'accumulazione del capitale si svolge (tematizzata da Rosa Luxemburg e poi in maniera più culturalista dai terzomondisti e poi da Immanuel Wallerstein) ; la seconda dimensione è quella delle relazioni continuamente producentisi tra i vari individui all'interno delle nostre società e che come dicono giustamente Bascetta e Bronzini effettivamente contribuiscono in maniera silente e determinante al processo di valorizzazione del lavoro salariato e del capitale; la terza dimensione è quella del general intellect marxiano che a mio parere è costituito dall'applicazione sistematica delle scienze alla produzione e sancisce in maniera definitiva il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo. Queste tre dimensioni sono attualmente in parte separate tra loro (mentre Negri e gli stessi Bascetta e Bronzini le considerano già tutte insieme) e la costituzione del soggetto antagonista è tutt'uno con il processo di integrazione tra queste diverse dimensioni: solo quando questa integrazione comincerà a funzionare socialmente, economicamente e politicamente ci potrà essere quel passaggio dal reddito minimo liberale e keynesiano al reddito di cittadinanza vero e proprio, cioè dalla dignità puramente umanistica del bisogno e mercantile del consumo alla rivendicazione di una raggiunta integrazione tra produzione e riproduzione sociale. Ma il reddito di base nelle sue diverse accrzioni potrà essere il filo rosso che unirà le fasi di questa lotta e di questo processo di fuoriuscita dal modo capitalistico di produzione

domenica, febbraio 05, 2006

Van Parijs e le giustificazioni egualitariste del reddito minimo

Van Pariijs analizza poi le giustificazioni egualitariste del reddito minimo e dice:

  • Anche se i bisogni sociali e la produttività sono differenziati, per egualitaristi quali Baker esiste nella società un surplus che va redistribuito egualitaristicamente sotto forma di basic income.
  • Per alcuni marxisti, essendo il comunismo dispiegato quel sistema dove le persone saranno ricompensate in base ai loro bisogni, il reddito minimo (portato ad un livello tale che non rimangano altre risorse per la ricompensa dei contributi alla produzione) è uno strumento che getta le basi per la realizzazione diretta del comunismo
  • Ma sia all'interno di relazioni capitalistiche che di relazioni socialiste, qualunque tentativo di realizzare il comunismo in questo senso condurrebbe inevitabilmente al disastro, giacchè gli incentivi a lavorare e risparmiare in entrambi i sistemi come ad investire (nel solo sistema capitalistico) ne uscirebbero drammaticamente compromessi
  • L'interpretazione più immediata di una parziale realizzazione è allora quella di introdurre inizialmente un livello di basic income abbastanza basso, per poi aumentarla al massimo una volta che si sia garantita la sussistenza per tutti attraverso un reddito condizionato dal lavoro e si sia mantenuto il potenziale produttivo almeno uguale per la generazione successiva. Più piccolo è il divario tra basic income e livello di sussistenza (cioè maggiori saranno i bisogni soddisfatti senza condizioni) più le persone saranno libere di scegliersi le attività non alienate La quota di reddito originata dal lavoro progressivamente con la crescita delle forze produttive scenderebbe a zero e così il comunismo verrebbe realizzato.
  • Tale criterio però per Van Parijs è indifendibile: infatti la massimizzazione del basic income quando avrà portato quest'ultimo al di sopra del livello di sussistenza porterà ad una mancata coincidenza tra distribuzione secondo i bisogni e libertà di ognuno di scegliere l'attività che si vuole svolgere (tra livello assoluto del basic income e livello proporzion ale al reddito derivante da lavoro). Supponiamo infatti che il livello del basic income venga elevato al massimo sostenibile : ogni ulteriore tassazione ridurrebbe questo livello per effetto della disincentivazione, ma il principio marxiano richiede che una tassazione ulteriore sia necessaria per massimizzare il livello relativo del basic income.
  • A questo argomento alcuni rispondono che il criterio marxiano non porta al massimo il benessere, ma espande al massimo possibile (dato il livello di sviluppo delle forze produttive) la libertà di affrancarsi dal lavoro alienato: proprio a causa dell'effetto disincentivante di una maggiore tassazione (o di un più basso reddito netto) la quantità di lavoro pagato che viene prestato secondo il criterio marxiano sarà minore di quanto sarebbe se il livello assoluto di basic income fosse elevato al massimo. Se ne potrebbe dedurre che più persone passeranno più tempo in attività non alienate e dunque il regno della piena libertà si realizzerà più compiutamente di quanto lo sarebbe con un più alto basic income
  • Per Van Parijs tuttavia questo argomento non regge dal momento che l'effetto finale sul volume della attività non alienate (che non si identificano immediatamente con attività non pagate ) è incerto . Può darsi che l'effetto principale di una maggiore tassazione sia soprattutto la crescita di lavoro informale poco produttivo, con un incremento generale del lavoro alienato. In secondo luogo la quantità di tempo libero di cui si gode è solo una dimensione della libertà, mentre un altra è la quantità di reddito che si può utilizzare in questo tempo libero. Quindi anche se il tempo libero cresce man mano che il criterio marxiano ci conduce oltre il livello massimo di basic income, questo non segna per forza un incremento complessivo della nostra libertà, perchè contemporaneamente diminuisce il reddito di tutti. In terzo luogo anche se la maggiore tassazione aumenta il volume delle attività non alienate da una parte, essa diminuisce dall'altra la libertà di impegnarsi in queste attività. Se le persone compiono più attività non alienate, non è perchè la loro libertà di impegnarvisi sia stata accresciuta, ma perchè la loro libertà di fare altre cose (cioè attività più lucrose) è stata ridotta.
  • Se esiste quindi un argomento marxiano a favore del basic income, esso deve fare appello ad una concezione della società giusta fondata su di una visione particolare di ciò che è bene nella vita. Se il criterio marxiano va giustificato non è perchè si preoccupi della libertà delle persone, ma in quanto sacrifica una parte della loro libertà in favore di attività non alienate. Tuttavia il diritto incondizionato ad un reddito di base sembra uno strumento inefficace nel servire un ideale come questo (che si definirà "perfezionista"), in quanto se si crede che il lavoro pagato, anche se accettato liberamente vada scoraggiato, mentre le attività non pagate vadano invece incoraggiate, si dovrà avere un'idea di quali dovrebbero essere queste attività non pagate (per esempio la realizzazione di sè piuttosto che giocare a biglie)
  • L'alternativa dunque sta nel rivisitare "il regno della libertà" nel modo più rigoroso, ma non più collegato al metodo marxiano cioè all'elevazione massima o della quota di basic income fino al reddito medio, oppure della quota di prodotto totale distribuita secondo i bisogni e non secondo il lavoro. La scelta è quella di saltare direttamente all'elevazione massima del basic income in termini assoluti (fatti salvi il livello di sussistenza e il potenziale produttivo) fino a quando esso rimane sotto il livello di sussistenza. Il basic income deve essere cioè elevato al massimo livello sostenibile per espandere quanto più possibile la quantità di mezzi economici disponibili per i bisogni dei più svantaggiati. Non è una posizione rigorosamente egualitaria, ma poichè pone l'attenzione sui meno fortunati, essa ha forti credenziali egualitarie e può giustificare un generoso basic income. Esso si concilia con numerosi argomenti a favore del basic income quali quello di Warren Johnson ( per cui il reddito garantito consentirebbe a chi trova la sua vita insoddisfacente di avere un minimo di risorse per muoversi in altre direzioni), di Gunnar Adler-Karlsson (per cui il basic income consentirebbe alla forza lavoro di non accettare insostenibili condizioni di lavoro) di Bill Jordan (per cui il reddito minimo darebbe ad ognuno l'opportunità di esercitare il diritto di non lavorare)
  • Altri pensatori marxisti hanno comunque diffidato del basic income, in quanto denunciando lo sfruttamento capitalistico ed intendendo lo sfruttamento come un trarre profitto dal lavoro altrui, essi considerano il basic income come una nuova forma di sfruttamento da parte dei beneficiari nel confronti dei lavoratori. Tuttavia obietta Van Parijs il massiccio contributo dei "beni sociali" alla ricchezza della società (risorse naturali, struttura legale, differenti capacità) mettono seri dubbi sul principio del diritto all'intero prodotto e quindi sulla rilevanza normativa dello sfruttamento concepito come violazione di questo principio. Tuttavia il pensiero marxista più recente ha prodotto un'interpretazione alternativa dello sfruttamento che è al tempo stesso immune da questi dubbi e più adatta a giustificare il basic income.
  • Si tratta in questo caso della spiegazione dello sfruttamento capitalistico in termini di rapporti di proprietà come disuguaglianza di benessere materiale prodotta dall'ineguaglianza di beni alienabili. Tale definizione permette di considerare come sfruttato anche chi scelga di non lavorare e di vivere dei modesti interessi che ricava da una proprietà al di sotto della media. Per Roemer la differenza iniziale nella distribuzione della ricchezza può considerarsi l'ingiustizia maggiore del sistema capitalistico a causa delle opportunità ineguali che produce. Un modo diretto di abolire lo sfruttamento capitalistico sarebbe quello di dare ad ognuno una quota uguale di beni sociali alienabili. A meno che non si riducano arbitrariamente le esigenze di giustizia ai soli beni produttivi (officine e titoli e non casa e denaro contante) questo fa pensare che qualunque cosa ereditata o donata in una società di questo genere dovrebbe essere assorbita dalle tasse e distribuite come basic income uguale per tutti.
  • Quest'idea converge con la concezione dell'eguaglianza di risorse esterne di Ronald Dworkin : fino a quando si fa astrazione dalla ineguaglianza delle risorse interne (talenti e capacità personali) , l'ideale egualitario vuole che le persone debbano ricevere solo rimesse in contanti uguali per tutti con cui poter acquisire beni reali, per cui ciò che va distribuito egualmente tra tutti non è solo ciò che abbiamo ricevuto dalla natura, ma tutto quello che è arrivato a noi dalle generazioni precedenti. Questa idea riprende l'intuizione del socialista autoritario E. Bellamy (per il quale bisognava dare un reddito sociale uguale per tutti a fronte delle conoscenze e dei macchinari che contribuiscono in maggior parte alla produzione rispetto al lavoro vivo e che sono un'eredità generale, che appartiene anche a chi non lavora) e quella di G.D.H. Cole per il quale i redditi vanno distribuiti in parte come ricompensa del lavoro prestato ed in parte come pagamento diretto dello Stato a ciascun cittadino come dividendo sociale e riconoscimento del diritto di ciascun cittadino a condividere in quanto consumatore l'eredità comune della capacità produttiva, capacità che consiste nel prodotto del lavoro attuale più l'eredità sociale di creatività e di competenze intrinseche allo stato di avanzamento e di istruzione raggiunto nella produzione. Oskar Lange riutilizza il termine "dividendo sociale" per definire la quota di profitto sociale netto nell'uso dei mezzi di produzione di proprietà collettiva, slegata dal contributo lavorativo di ogni singolo cittadino
  • Anche l'ipotesi che chiameremo di Roemer-Dworkin però per Van Parijs ha il limite di doversi fermare a metà: in quanto una volta che le preoccupazioni egalitarie sono estese dai beni alienabili a quelli inalienabili, dalle risorse esterne a quelle interne, diventa difficile vedere come si dovrebbe giustificare un basic income uguale per tutti piuttosto che un articolato sistema di tassazioni sulle capacità naturali e risarcimenti per gli handicap. Inoltre non ci si può aspettare che una tassa su lasciti e donazioni possa finanziare (quale che sia l'aliquota) un basic income maggiore del 15% del prodotto interno lordo pro-capite

Le considerazioni che si possono fare su queste tesi di Van Parijs sono le seguenti:

  1. Gli incentivi a lavorare ed a risparmiare per quanto diminuiti sarebbero compensati dall'aumento di produttività e dall'aumento della composizione organica del capitale. Nella società di transizione inoltre si tenderebbe ad una redistribuzione omogenea del lavoro socialmente necessario, più che alla retribuzione di fasce di popolazione con il solo reddito di cittadinanza. La necessità del basic income si rivela più nella fase ancora capitalistica dei rapporti di produzione e in chiave ideologica come cartina di tornasole sia dell' esistenza di un surplus che viene tesaurizzato come profitto e rendita, sia del progressivo allentamento del rapporto tra reddito e lavoro generato dal dominio del lavoro morto sul lavoro vivo e della necessità dunque di trasformazione dei rapporti di produzione
  2. La critica di Van Parijs (che è più una critica al rapporto comunistico tra capacità e bisogni) non tiene conto del fatto che i bisogni e la libertà dal lavoro si interdefiniscono reciprocamente per cui la libertà del lavoro viene compensata da una rimodulazione dei bisogni verso il basso (sempre in modo da non andare al di sotto del livello di sussistenza) in maniera tale da evitare la contraddizione tra la loro soddisfazione e la libertà. Van Parijs non pensa che in una società dove viene aumentato il tempo libero possono diminuire i bisogni feticistici legati ad es. all'acquisto di merci, mentre possono venire valorizzati i bisogni non mediati dal sistema delle merci e tarati più sulla messa in atto delle proprie potenzialità che non sul continuo acquisto di beni durevoli che non vengono però adeguatamente utilizzati e manutenuti (ad es. se si acquista un libro lo si legge e lo si studia, se si acquistano dei vestiti li si utilizza per un certo periodo di tempo prima di acquistarne degli altri, se si acquista un giocattolo lo si utilizza in tutte le sue potenzialità ludiche etc.)
  3. La crescita del lavoro informale e meno produttivo può ben essere in parte esorcizzata da altri provvedimenti (ad es. incentivando le imprese che assumono a salario minimo) ; inoltre questo presupporrebbe che il ricorso a lavori alienati non sia legato all'indigenza, ma questo è in molti casi poco probabile. Inoltre Van Parijs presuppone che la possibilità di spendita di tempo libero sia per forza vincolata da un'alta disponibilità di liquidi e dalla necessità di consumi, cosa che invece è maggiormente vera quando il tempo libero a disposizione è poco (tant'è che quando da adolescenti o da giovani avevamo più tempo libero, si passava un sacco di tempo divertendosi con poco o niente)
  4. La visione marxista non esplicita alcuna visione di società giusta perchè parte sempre da situazioni determinate a partire dalle quali si dispiegano possibilità determinate, per cui gli strumenti usati non risolvono completamente un problema, ma tendono ad accrescere le chances di azione che possano consentire una soluzione progressiva dei problemi stessi. I fini che di volta in volta ci si pone, oltre ad ispirarsi a criteri di eguaglianza e libertà, rappresentano possibilità concrete che vanno perseguite a partire dagli spazi che si aprono all'interno dei conflitti esistenti nelle diverse fasi storiche. Modelli di società giusta servono solo come argomenti di discussione tra le diverse soggettività sociali che consentano di elaborare concrete strategie di lotta e raggiungere obiettivi raggiungibili e condivisibili
  5. Le teorie di Rawls e Van Parijs sul ruolo dei beni sociali nella produzione e quelle di Bellamy. Cole e Lange sul dividendo sociale si possono collegare al frammento di Marx sulle macchine (sul general intellect) ed alla tesi di Negri e Hardt sulla progressiva coincidenza di produzione e riproduzione
  6. La tesi di Roemer è insufficiente perchè batte solo il tasto della redistribuzione di chances, mentre caratteristica del marxismo è l'attenzione alla mercificazione della forza lavoro che risulta essere il punto cruciale che spiega anche le storture redistributive esistenti nelle società capitalistiche avanzate
  7. Infine le compensazioni per le differenti dotazioni di risorse interne possono essere aggiunte come integrazione ad un sistema di sicurezza basato sul reddito minimo e sulla spesa sociale in campo sanitario e formativo. Il finanziamento più che una tassa sui lasciti lo potranno garantire altri tipi di imposte

sabato, febbraio 04, 2006

Van Parijs sulle giustificazioni efficientistiche del reddito minimo

Van Parijs analizza poi le giustificazioni efficientistiche del reddito minimo e dice:
  • Alcune giustificazioni efficientistiche (ad es. quella per cui il reddito minimo è lo strumento più efficiente per distribuire egualitaristicamente le risorse) sono riformulazioni di argomenti non efficientistici (come quello solidaristico o comunitaristico)
  • Inoltre seppure il basic income possa raggiungere obiettivi economicamente rilevanti, esso comporta comunque un costo addizionale e dunque è frutto dello storno di risorse che potrebbero essere impiegate altrimenti
  • Dunque ogni argomento economico presuppone necessariamente una teoria della società giusta, in base alla quale alcuni obiettivi sono più legittimi di altri

Van Parijs poi analizza quello che lui definisce un paradosso, cioè il fatto che i Verdi sono tra i partiti più entusiasti nel sostenere la plausibilità del reddito minimo. I Verdi sostengono che ciò che è meglio per lo sviluppo produttivo non è necessariamente meglio per la crescita del benessere, in quanto il calcolo del PIL ignora la componente ambientale. Se si tenesse presente questo fattore ciò a cui si dovrebbe mirare ai fini dell'efficienza non è il massimo dello sviluppo, ma un modo per frenare il processo di sviluppo così che si eviti la sofferenza derivante dalla disoccupazione di massa: più alto sarà il reddito minimo, più bassa sarà l'incentivazione al lavoro ed al risparmio e più bassa sarà la crescita tendenziale del PIL. Van Parijs obietta che per ottenere lo stesso risultato sono più funzionali misure circoscritte e specifiche che impediscano produzioni particolarmente dannose per l'ambiente. Inoltre la ragione addotta dai Verdi è opposta a quella suggerita da altre concezioni per le quali il reddito minimo è alla fine un aiuto allo sviluppo

L'unica considerazione da fare su questi argomenti è che (riprendendo le analisi di Myrdal e Tinbergen) non solo il reddito minimo ma qualsiasi strumento di politica economica deve essere valutato in rapporto al modello di socità giusta preso come paradigma, giacchè non esistono decisioni puramente economiche che non siano anche decisioni politiche

Ancora Van Parijs sulla giustificazione libertaria del reddito minimo

Per Van Parijs il basic income sarebbe uno degli strumenti di una sorta di via capitalista al socialismo.
Egli analizza prima la teoria libertaria che giustifica il basic income e cerca di migliorare la versione che si ispira a Nozick (per la quale chiunque abbia avuto il proprio reddito diminuito a causa di un'appropriazione privata di un bene comune, ha diritto ad un risarcimento che riporti il suo benessere al livello di cui avrebbe goduto nello stato di natura). Egli infatti dice che poichè il nostro diritto di usare le risorse naturali in comune è stato violato da privati accaparratori, possiamo pretendere molto più del minimo che ci serve per non stare peggio di quanto staremmo nello stato di natura. Abbiamo perciò diritto ad un'equa quota di tutto ciò che è stato prodotto con le risorse naturali che avremmo potuto utilizzare altrimenti. Il diritto a questa quota è senza dubbio indipendente sia dal reddito proveniente da altre fonti e sia dalla disponibilità al lavoro oltre a non essere discriminante riguardo alle caratteristiche personali. Il fatto che alcune persone non sono in grado di usare i beni comuni (a causa ad es. di un handicap fisico) non li priva assolutamente del diritto alla loro parte esattamente come il fatto che qualcuno non possa raccogliersi le sue mele da solo non significa che chiunque potrebbe rubarle. C'è però la difficoltà di stabilire in percentuale ed in valori assoluti l'entità del basic income a partire da questa giustificazione (ad es. devono tutti ricevere lo stesso ammontare nel corso della loro vita o chi vive di più deve ricevere di più ? Oppure quelli che appartengono ad una generazione meno numerosa devono ricevere di più procapite che non chi appartiene ad una generazione più numerosa?) : Van Parijs nota a questo proposito che sia pure si trovassero soluzioni teoriche a questi problemi, in questo modo (adottando cioè una teoria come quella di Paine che dà diritto in un momento successivo solo alle migliorie apportate alla terra e non la proprietà della terra stessa) si può legittimare solo una magra entrata che continuerebbe a diminuire in rapporto al reddito totale, man mano che le risorse naturali decrescono, mentre il capitale, la specializzazione e la popolazione crescono . Questa diminuzione potrebbe essere ragionevolmente arrestata convenendo che la diminuzione delle risorse naturali non dovrebbe ridurre i diritti delle persone, perchè ogni generazione dovrebbe aumentare il capitale per compensare il proprio concorso all'impoverirsi delle risorse naturali; in altre parole i fondi disponibili potrebbero essere determinati dal valore pieno delle risorse del pianeta come erano prima che l'umanità cominciasse a sfruttarle. Tuttavia , afferma Van Parijs, l'ammontare del basic income pure sarebbe magro. Invece un entrata più corposa sarebbe possibile se invece del solo ammontare del capitale, tutta la ricchezza prodotta dalle generazioni precedenti fosse considerabile come proprietà comune, ma questo comporterebbe un allontanamento dalla prospettiva libertaria perchè si contesterebbe la distinzione tra beni naturali ed artificiali.
Van Parijs poi si occupa del come si dovrebbe determinare la quota di prodotto totale attribuibile alle risorse naturali e cita Locke per il quale il lavoro umano contribuisce alla maggior parte del prodotto poichè ben poco può fare la terra senza il lavoro umano. Ma Van Parijs obietta che senza risorse naturali non si potrebbe produrre niente e dunque andrebbe redistribuito l'intero prodotto. Si può obiettare che il criterio di Locke è incoerente perchè se si applicasse a tutti i fattori di produzione si finirebbe per distribuire molto più del 100% del prodotto, ma anche criteri diversi andrebbero incontro a difficoltà (ad es. se si usassero valori competitivi ciò implicherebbe in presenza di condizioni uguali che il contributo relativo del lavoro umano sia minore se la gente vuole lavorare e maggiore nel caso opposto)
Van Parijs alla fine della sua analisi comunque conclude che una giustificazione libertaria può solo legittimare un forte diritto ad una sovvenzione piccola e dunque non è opportuna un'idea di società in cui le istituzioni rispettano e proteggono un insieme di diritti naturali ad essa preesistenti. Invece una società concepita come una realtà i cui membri godono di autentica libertà uguale per tutti (comprensiva dei mezzi materiali per vivere la propria vita come si desidera), allora la giustificazione di un basic income non insignificante non è più irrangiungibile

Le considerazioni che vengono in mente sono le seguenti:
  1. Le giustificazioni libertarie sono da un lato antiquate perchè si rifanno anacronisticamente ad un'epoca in cui la fonte della ricchezza era la terra; d'altro canto esse possono essere avveniristiche in un'epoca di crisi ecologica e di consumo esasperato delle risorse naturali e di mercificazione anche dei corredi genetici; sicuramente esse sono complicate in quanto presuppongono il calcolo economico applicato a tutta l'ecosfera e questo è forse de facto impossibile. Per quest'ultimo motivo (ma anche per il suo approccio astorico alla questione) ritengo che la giustificazione e la valutazione del basic income debba avere un fondamento diverso da quello libertario
  2. Non si riesce a capire perchè il basic income basato sul diritto originario all'uso dei beni comuni debba essere di valore molto basso. Non vedo dove Van Parijs argomenti a questo proposito (se non si presuppone che la produzione attuale sia basata molto più sul lavoro che non sulle risorse naturali, ma questo Van Parijs non lo fa...anzi critica a tal proposito la tesi di Locke)
  3. La tesi per cui l' apporto percentuale del lavoro sul prodotto complessivo sia più basso se la disponibilità a lavorare sia propria di un maggior numero di attori vale solo se si considera la quota di lavoro procapite (e non il lavoro complessivo) e/o si considera il prodotto totale come una costante. Sicuramente tale maggiore disponibilità non è comunque in relazione con la valutazione dell'incidenza del lavoro sul prodotto totale
  4. Van Parijs ha ragione nel dire che l'idea di società liberale (le istituzioni come tutori di diritti preesistenti) può solo legittimare un basic income di tipo residuale, mentre una società comunista (anche se Van Parijs non la definirebbe così) legittimerebbe un basic income che sarebbe uno strumento per la realizzazione della libertà reale di soddisfare i propri bisogni (storicamente e non naturalisticamente intesi). Tuttavia la fase attuale ci impone (dato il fallimento della transizione al socialismo marxianamente intesa) di considerare il basic income qualcosa di intermedio tra uno strumento liberale ed uno strumento comunista (non a caso lo stesso Van Parijs parla di transizione capitalista al socialismo). Lo stesso Van Parijs inoltre considera necessario il calcolo della sostenibilità economica del basic income: ciò vuol dire che il livello del basic income è il risultato di un conflitto sociale alla fine del quale si determini il valore del surplus sociale che può essere redistribuito. Per chi è comunista questo valore è molto alto, ma la forza attuale dell'avversario ci costringe ad appoggiarci anche sull'ideologia liberale per costruire il consenso attorno a questo strumento e dunque a stabilire prima del reddito di cittadinanza un reddito minimo di esistenza al di sotto del quale non sia possibile andare quale che sia il livello di produttività storicamente rilevabile