mercoledì, maggio 10, 2006

Bisogna abrogare la legge 30?

Luciano Gallino: «Legge 30? Va riscritto tutto»
«La nuova legge sul lavoro, quella che dovrebbe sostituire la 30, dovrebbe avere un primo articolo scritto così: il lavoro dipendente è a tempo pieno e indeterminato. Con poche deroghe, al massimo 5 tipologie atipiche utilizzate in casi specifici e determinati».

Il professor Luciano Gallino, sociologo del lavoro all’Università di Torino, non salverebbe nulla della legge 30, «mal concepita e mal scritta, soprattutto nel decreto attuativo», ma talmente «opaca» e complessa, «destinata a tutto il mercato del lavoro ma sconosciuta ai più», da non aver scatenato le stesse rivolte scoppiate in Francia. «Al contrario il Cpe, il contratto di prima assunzione congegnato da Villepin, contiene un concetto semplice, riassumibile in 5 righe, che è stato individuato immediatamente dai diretti interessati, i giovani: un "ordigno a orologeria", il licenziamento incorporato, sempre pronto a esplodere e dunque altamente ansiogeno».

In Francia siamo a una semplice contestazione «tecnica», che potrebbe chiudersi con il ritiro del Cpe, o è la nascita di un nuovo movimento che potrebbe andare oltre?
Per il momento non vedo la nascita di un movimento che, come ad esempio nel ‘68, si poneva il fine di cambiare la società. Certo la partecipazione è largamente diffusa, perché il tema della precarietà è molto sentito in Francia, da tempo ci sono ricerche sociologiche importanti e un ampio dibattito pubblico. Il Code du Travail, l’insieme di leggi che regolamenta il lavoro, è un vero e proprio monumento, molto più conosciuto dal cittadino medio rispetto a quanto non avvenga in Italia con le leggi sul lavoro. Dunque quando si cambia qualcosa, si toccano corde molto sensibili, e già altre volte si sono scatenate mobilitazioni di massa. Certo, l’elemento interessante è che qui a muoversi per primi non sono stati i lavoratori precari, quanto piuttosto coloro che sono destinati a diventarlo: gli studenti. Solo successivamente si sono uniti gli occupati, che magari sono i padri e le madri di questi giovani e con loro condividono la medesima ansia: che ne sarà dell’avvenire di mio figlio dopo anni di studio?


Ma perché in Italia non c’è un movimento analogo contro la precarietà? Questi lavoratori trovano rappresentanza nei sindacati?
In Francia è stata approntata una legge ben definita e mirata: i giovani fino a 26 anni possono essere assunti per due anni, e licenziati in qualsiasi momento entro il biennio. Dunque anche una settimana dopo l’assunzione, o dopo un mese, o magari un giorno prima della scadenza. Credo ci sia stato un grave errore tecnico del legislatore, che ha inserito una vera e propria «bomba a orologeria» che genera ansia: non sapere quando scade il tuo contratto. Questo fattore «ansiogeno» è stato determinante in Francia, e credo lo sarebbe anche da noi. In Italia, al contrario, le riforme del lavoro, a partire dall’ormai decennale pacchetto Treu fino alla legge 30, sono più complesse e riguardano tante tipologie. La legge 30, ad esempio, comprendendo anche il decreto applicativo 276, ha oltre 70 articoli e decine di pagine, crea rapporti nuovi che molti non conoscono: è «opaca». Non c’è neppure bisogno di istituire la libertà di licenziamento: nella pubblica amministrazione ti faccio un cococò di 1 mese, in un’azienda privata un lavoro a progetto di 3. La scadenza è già scritta nel contratto e dunque il lavoratore sa già che alla fine sarà messo alla porta. Manca quell’elemento ansiogeno, anche se ovviamente non il senso di precarietà. Quanto ai sindacati, qui in Italia i precari sono messi meglio rispetto alla Francia: i tre sindacati confederali hanno strutture dedicate agli atipici, che negli anni hanno firmato molti contratti migliorativi, anche di stabilizzazione, e dunque c’è almeno un canale a cui rivolgersi.

Ma adesso cosa si può fare per migliorare il mercato del lavoro? La legge 30 dovrebbe essere abrogata?
Ritengo che sia una legge talmente mal congegnata e persino mal scritta, soprattutto nel decreto applicativo, che un semplice intervento «riparatore» non basterebbe a produrre risultati positivi. Basti pensare al contratto a progetto, da far mettere le mani ai capelli non solo a ogni singolo sindacalista, ma anche a qualsiasi giudice del lavoro che debba occuparsene: sotto il «progetto», essendo la sua definizione assolutamente generica, ci può entrare di tutto, dai 70 secondi di un lavoro al call center fino alla costruzione del Ponte di Messina. Questo è solo uno dei punti, perché poi ci sono tanti altri che andrebbero aboliti, dal cosiddetto staff leasing al «lavoro ripartito», da quello «intermittente» fino ai ticket e vaucher . Se si eliminano, come mi pare preveda anche il programma dell’Unione, le forme più palesemente negative, e si correggono radicalmente altre, mi sembra che allora tanto vale abrogarla. Intendiamoci, per produrre una nuova legislazione del lavoro, perché altrimenti rimarrebbe aperto un grande vuoto legislativo. La legge 30 dovrebbe essere sostituita da una normativa radicalmente alternativa, che abolisca gran parte dei rapporti atipici e introduca tutele e garanzie per un numero limitato di tipologie extra rapporto dipendente full time e a tempo indeterminato: direi che per le aziende e per le persone possono bastare 5 tipi, tra cui metterei il part time, il contratto a termine, uno ad alto contenuto formativo, e anche l’interinale, seppure rivisto e limitato nell’uso; non si può utilizzare per affittare squadre intere di operai quando fa comodo, dovrebbe essere riservato alle qualifiche alte.

A nostro parere ci sono almeno due punti «irrisolti» nel programma dell’Unione. Il primo è che vengono mantenuti i rapporti parasubordinati, i cococò e cocoprò. Il secondo: non viene limitata la possibilità di reiterare all’infinito i contratti a termine. Cosa ne pensa?
Nel programma dell’Unione la parte del lavoro mi sembra complessivamente ben fatta, perché al centro c’è un principio molto importante, che per me dovrebbe essere il primo articolo di una nuova legge sul lavoro: il dipendente è a tempo pieno e a durata indeterminata. Il lavoro «vero» è quello, poi si possono fare alcune deroghe, ma solo come eccezioni e per necessità specifiche. Il governo di centrodestra parla del 12% di precari sul totale degli occupati: ma è un dato che considera solo i dipendenti, mentre lascia fuori i parasubordinati, conteggiati tra gli autonomi. La percentuale reale dei precari, in Italia, è almeno al 24-25%, si tratta di circa 3 milioni e mezzo di persone che al momento non conoscono il proprio futuro, con circa 1-2 milioni di loro - i cococò e cocoprò - che stanno mettendo da parte pensioni pari al 30% del salario medio, se tutto va bene. I parasubordinati sono per la gran parte lavoratori dipendenti mascherati, e il contratto a progetto così com’è non va: al massimo si potrebbe pensare a un nuovo «contratto di cantiere», legato realmente alla costruzione di un’opera - un ponte o un sito web - che dura un determinato numero di anni. Il fatto che, soprattutto tra i giovani di formazione medio-alta, si facciano periodi in diverse realtà lavorative può essere un’opportunità professionale. Ma poi, dopo 5 o 8 contratti nella stessa azienda, o dopo 2 anni, insomma dopo un certo periodo definito, bisognerebbe maturare il diritto al posto a tempo indeterminato. Diversi studi svolti anche all’estero, dalla Francia alla Svizzera, mostrano che la precarietà è drammatica perché rappresenta una condanna: quanto più lungo è il periodo di precariato, tanto più alta è la probabilità che ti venga offerto un contratto precario. Ecco, bisognerebbe riuscire a rompere questo circolo vizioso.


Il Manifesto - Antonio Sciotto

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