martedì, luglio 03, 2007

note a Antonio Carlo "Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo"

Se l'ultimo l'ho trovato pienamente convincente, il penultimo saggio del Prof. Antonio Carlo ("Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo"), apparso nella Vostra rivista, mi ha suscitato qualche perplessità.
Condivido tutto il discorso sull'inattendibilità dei metodi ufficiali di rilevazione statistica della disoccupazione (e non solo). Mi permetto di aggiungere che negli Usa, questi, a seconda del vento, hanno subito negli ultimi decenni continui aggiornamenti, per nascondere appunto la realtà, fondandosi spesso sullo "scientifico" sistema delle telefonate per campioni, in base alle quali chi ha lavorato in un determinato periodo, ad esempio anche solo per una settimana, risulta tra la popolazione attiva occupata... Condivido anche tutto quanto è detto sulla diffusione del precariato, ecc.
Sono anche d'accordo che nel sistema capitalistico, sul lungo periodo, meno lavoratori sono in grado di produrre quanto in passato facevano in molti, come l'agricoltura docet.
Ciò non toglie, che questa prospettiva (sostenuta anche dal pluricitato Rifkin o dai sociologi tedeschi del gruppo Krisis, uno tra tutti Robert Kurz) non spiega, a mio avviso, adeguatamente il fenomeno attuale. E' la tecnologia che nell'ultimo quarto del secolo scorso e fino ad ora ha tolto lavoro? Ciò avrebbe dovuto comportare una serie di investimenti produttivi che il mondo capitalistico in genere non registra da decenni a questa parte, decenni nei quali, invece, quando c'è stata qualche momentanea ripresa, è stata determinata da un maggior sfruttamento del lavoro e dei vecchi macchinari.
Altrove il Prof. Carlo ha parlato della mancanza di investimenti produttivi (accumulazione), ma qui non lo fa e tutta l'argomentazione sulla disoccupazione sembra dipendere invece, se ho ben capito, dall'assunto che sono le macchine ad estromettere operai dal mondo del lavoro.
Più che investire nella produzione, in tecnologia strutture ecc, la tendenza, a mio avviso, ormai lontano dal boom post bellico è stata piuttosto quella di dislocare fabbriche all'estero, dove la manodopera costa poco, e/o di canalizzare flussi enormi di capitale verso il settore speculativo. Alla deindustrializzazione interna americana degli ultimi quarant'anni corrisponde un massiccio trasferimento all'estero della produzione (prima in Canada e poi in Europa, Asia...); per non parlare appunto della speculazione finanziaria e della politica finalizzata a costringere i possessori stranieri di dollari ad investire sul mercato americano.
Il postfordismo, la rivoluzione microelettronica, è un altro dei miti del nostro tempo che come il concetto di globalizzazione va adeguatamente precisato e ridimensionato. Solo che, mentre a proposito della globalizzazione il Prof. Carlo ha fatto delle puntualizzazioni efficaci, riguardo alle innovazioni tecnologiche mi pare che ne enfatizzi il ruolo nell'attuale fase storica.
Cordialmente
Alessandro Cocuzza