mercoledì, gennaio 24, 2007

capitalismo sì o no?

Ieri mi sono sorpresa nel sentire da un prof. universitario grande fan di Lacan che "in fine la finalità del capitalismo è pagare tutti quanti". Avrei voluto dirgli:"Magari! E chi si lamenterebbe più!!!" Che senso avrebbe allora ogni forma di critica o di resistenza, oppure così sciocchi sarebbero stati i lavoratori a scioperare o a lottare? Se in fondo l'essere pagati equivale a fare contenti se stessi e il capitalismo, mi dico:"ben venga, a saperlo:fino ad oggi non ho capito niente!" Il capitalismo vuole pagare. Peccato che io sono pagata, ma vado a lavorare tutti giorni e non posso essere pagata per ciò che invece avrei desiderato fare cioè ricerca, anzi direi ricerca pagata, studio remunerato, scegliete voi. Peccato, perchè avrei potuto farla senza subire un rapporto di dipendenza che non è mai decollato, nonostante tutto, perchè sono piuttosto "autonoma" (cos' mi è stato detto), e questo non va bene in un mondo di leccaculo, poi perchè non ho nessuna rendita al di fuori del mio stipendio per cui...Il capitalismo paga.Non vorrei che con questo si confondessero i termini dl reddito di cittadinanza, o sue varianti...

venerdì, gennaio 12, 2007

Interessante ricerca sul lavoro atipico

Il lavoro atipico: la nuova faccia dello sfruttamento

Quest'anno per le analisi sui lavoratori parasubordinati, Ires è affincata dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università La Sapienza. Due le indagini. La prima è una elaborazione dei sui dati Inps, la seconda una ricerca demoscopica su attese e condizioni di lavoro degli atipici.

Sono 1.475.111 i lavoratori parasubordinati attivi iscritti, nel 2005, all'Inps gestione separata. A questi vanno aggiunti 209.960 lavoratori con partita Iva individuale, sempre iscritti alla gestione separata dell'Inps.
Insomma, un esercito di 1.685.071 lavoratori precari. Il 90% di loro ha un unico committente e un reddito annuo non superiore a 10 mila Euro. Le donne guadagnano circa la metà degli uomini. L'età media è pari a 41,2 anni, ma le donne sono più giovani (37, 4 le donne e 44 anni gli uomini).

"Finalmente - sottolinea Filomena Trizio, segretaria nazionale NidiL Cgil - abbiamo a disposizione dati non approssimativi ed elaborati con la massima trasparenza grazie all'Osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia, nato dalla collaborazione di NidiL, IRES e Università La Sapienza".
"Attraverso le indagini commissionate da NIdiL - continua- è possibile leggere dall'interno questo mondo vario e, spesso, nell'ombra dell'atipico. L'indagine per interviste parla, racconta di un mondo dove la caratteristica dominante (80%) è la dipendenza economica dall'unico committente e in cui ci si "sente" (85%) lavoratore dipendente; accomunato, pur nei diversi livelli di professionalità, dal basso rendimento economico (1 su 2 guadagna meno di 1.000 Euro) specie fra le donne. Un mondo fatto di lavoratori privi di diritti elementari; un mondo che perde, con il passare del tempo, la fiducia in sè e nella possibilità di migliorare: forse anche per questo un mondo senza figli (82%).

"Sono confermati quei problemi, percezioni di se, tematiche rilevate attraverso il lavoro di anni: si conferma quindi anche il giudizio che, in questo mondo, si insedia la "moderna" forma di sfruttamento del lavoro. Da questo punto di vista parasubordinazione, precarietà e area del sommerso, pur con tutte le differenze, rappresentano oggi per il Sindacato l'emergenza lavorativa a cui dare risposte".

"Il superamento del dumping con il lavoro dipendente e la richiesta di stabilizzazione (insieme il 60%) - conclude Filonema Trizio- pongono, entrambe, il problema di superare l'abuso nel ricorso a queste forme di lavoro: per il futuro, eliminando l'attuale forte convenienza economica per i datori; per il presente riportando a lavoro dipendente ciò che autonomo non è (vedi per tutti i call center). Nel contempo la richiesta di maggiori tutele (30%) pone la necessità di rendere dignitosa e vivibile la parasubordinazione nella sua dimensione vera.La piena coincidenza di tali richieste con le priorità individuate e praticate da NIdiL e dalla Cgil nel suo insieme è ovviamente per noi ulteriore spinta a procedere nel percorso faticosamente avviato".

Sul sito http://www.nidil.cgil.it/ alla voce news si posssono scaricare i dati.

giovedì, gennaio 11, 2007

Recensione: "Aporie napoletane"

da: REF recensioni filosofiche

Aporie napoletane è il testo edito dalla Cronopio, con il quale la casa editrice tenta un rilancio del dibattito critico sulla città di Napoli, proseguendo, in questo modo, il percorso di riflessione teorico-politica sul capoluogo partenopeo iniziato negli anni Novanta con le pubblicazioni de La città porosa (1992) e Le lingue di Napoli (1994).

La finalità del testo è quella di contrapporre ai numerosi stereotipi, sia positivi che negativi, e al fatalismo oggi dominanti, ricerche rigorose e riflessioni filosofiche deleuzianamente “creative”, che spieghino le contraddizioni di Napoli sullo sfondo delle trasformazioni globali, onde individuare i sensi di possibili innovazioni.

Il testo si apre con il saggio prefazione di Maurizio Zanardi – Una piega del mondo – nel quale l’autore rielabora i temi di fondo che vi sono dibattuti. Di particolare importanza la sua contrapposizione tra le categorie di politica/politico, con le quali l’autore, sullo sfondo dell’odierna crisi delle democrazie rappresentative, intende denunciare la deriva oligarchica, personalistica e clientelare del sistema di potere partenopeo, contrapponendovi l’esigenza della ri-costruzione della sfera pubblica attraverso la concreta partecipazione delle forze che attualmente sono schiacciate dalle logiche di dominio ed esclusione del politico. In altri termini, collegandosi alla concezione deleuziana della filosofia, Zanardi propone una politica concepita come “agire collettivo che pensa a distanza dallo stato” (p. 14). Politica che deve caratterizzarsi per la partecipazione di quelle parti della città che, non avendo interessi costituiti da difendere, possono elevare gli antagonismi a conflitti politici, le lotte conservative a lotte per l’emancipazione. La distanza dallo Stato, precisa l’autore, non deve essere confusa con il disinteresse nei confronti delle istituzioni, ma deve essere concepita come un’autonoma azione collettiva, che va oltre lo schema verticistico della rappresentanza del politico, per affermare una pratica ed una teoria politica orizzontale che “si autorizza da sé” (p. 18).

Il saggio di Gianfranco Borrelli – Napoli oltre. Il senso possibile di possibili innovazioni – a fronte dei processi della globalizzazione, intende mostrare il passaggio critico in cui attualmente si dibatte il capoluogo partenopeo, sospeso tra possibilità di innovazione ed avanzamento della barbarie. La critica serrata del sistema di potere locale, tuttora vigente, si sostanzia nella decisa ed articolata decostruzione dello stereotipo che vede i napoletani come individui naturalmente sociali, solari e comunicativi. L’adozione del paradigma machiavelliano della città-organismo da un lato e di quello foucaultiano della microfisica dei poteri dall’altro, consente all’autore di individuare genealogicamente i molteplici antagonismi che, squarciando il tessuto della città nelle sue diverse parti, alimentano una rete di poteri, che si snoda sul doppio registro politico della democrazia rappresentativa e delle tecniche di conservazione, frammentazione ed assoggettamento. Attualmente, incalza Borrelli, Napoli oscilla tra una democrazia estetizzante – l’estetica del mercato e dei consumi –, e i poteri di emergenza, che progressivamente riducono lo spazio pubblico-politico della città e neutralizzano le soggettività conflittuali, depotenziandone la carica emancipativa negli antagonismi irriducibili e negli eccessi materiali. Ne emerge un’immagine della città caratterizzata da “soggettività votate ad un destino di spreco, di distruzione e di autodistruzione (p. 59).

Tuttavia, l’autore non si limita ad evidenziare le aporie, le deprivazioni e i limiti di Napoli, ma indica anche gli snodi che potrebbero consentire l’attivazione di processi di innovazione/soggettivazione che, riallacciandosi e riattivando la memoria degli scontri e delle lotte che hanno attraversato Napoli dal Seicento ad oggi, possano coinvolgere quelle parti della città escluse ed emarginate – che vanno dalla plebe agli under class, dagli immigrati ai precari passando per i disoccupati –, in modo da prospettare degli eventi di singolarità, capaci di innovare lo spazio pubblico-politico in direzione di una democrazia partecipativa, incentrata sui criteri della molecolarità e della riflessività.

Le aporie di Napoli vengono disvelate da Bruno Moroncini – Napoli e la mancanza della plebe – attraverso l’adozione della prospettiva lacaniana, incentrata sulle categorie di Reale, Immaginario, Simbolico. Il Reale, specifica l’autore, è ciò che rimane sempre identico a se stesso. Il Simbolico è il registro del cambiamento caratterizzato dalla presa di coscienza della mancanza del Reale. L’Immaginario, infine, è il registro delle totalizzazioni e delle chiusure. Napoli, prosegue lo studioso, si è sempre caratterizzata per la mancanza di soggettività volte al cambiamento: il Reale, la plebe – da non intendersi come categoria sociologica, ma come movimento centrifugo sfuggente alle relazioni di potere –, torna continuamente, nelle sue varie declinazioni, nella storia della città. Rispetto ad essa, la borghesia cittadina con l’Immaginario ha formulato una risposta di chiusura ora nei termini della teoria delle due città, ora in quelli della cultura popolare, ora, infine, in quelli di una presunta armonia perduta.

Di contro a tali processi, sostiene Moroncini, una nuova classe dirigente ed una nuova mente collettiva capaci di entrare in rottura con la cultura e le pratiche politiche tradizionali, devono infrangere il registro dell’Immaginario ed introdurre, attraverso il Simbolico, la mancanza nel Reale, in modo tale da favorire la formazione di nuove soggettività su cui fare leva per attivare i processi di trasformazione. In altri termini, secondo l’autore, i processi di soggettivazione devono partire dalla realtà della plebe per pervenire alla formazione della classe passando attraverso la massa. Classe che si deve caratterizzare per la sua piena autonomia da estrinsecarsi nel controllo dei processi produttivi. La neutralizzazione dei processi di soggettivazione, conclude Moroncini, alimenta il rischio di una città caratterizzata da un’attività sempre più frenetica che sfocia nel nichilismo: il vuoto.

Assumendo una prospettiva filosofica incentrata sull’heideggeriana ermeneutica dell’effettività, ne Il vuoto e l’abitare, Pierandrea Amato parte proprio dal vuoto per andare oltre il luogo codificato, decostruendo criticamente i saperi governamentali su Napoli: urbanistica, sociologia urbana, psicologia sociale, demografia. Saperi che, secondo l’autore, irreggimentano la città in determinate logiche di potere, ratificandone le dinamiche di inclusione/esclusione. A partire da tale prospettiva, il vuoto si configura come la possibilità di pensare e praticare il cambiamento. “La retorica urbana del vuoto – osserva Amato – che lo derubrica a luogo insicuro e malfamato va capovolta a favore del suo carattere fecondo. Indubbiamente, il vuoto urbano è pericoloso: ma solo per chi pensa la città, e i legami che alimenta, affidandosi alla sua figura consacrata ad opera del tempo” (p. 133). In altri termini, secondo Amato, il vuoto è dotato di una valenza intrinsecamente innovativa capace di corrodere la meta-fisica del centro storico “è, in definitiva, la traccia dell’abitare lì dove non c’è più spazio per abiatare. E’ il (non)luogo, dunque, della politica nel tempo della sua decostruzione” (p. 134).

La decostruzione dell’immagionario stereotipato sulla citta di Napoli passa anche attraverso la critica letteraria di Arturo Martone, che, in Oltre a resti di niente e sviscerato patire, l’impensato del reale, analizza i testi di E. Striano – Il resto di niente – e A. Ortese, Il cardillo addolorato. L’analisi strutturalistica dei due testi consente all’autore di formulare il concetto di impensato del reale, ossia di poter-essere, con il quale egli si riferisce al “deposito inesauribile di resti (resti della memoria, resti del sentire, resti del fare come del non-fare” (p. 200), da preservare per trasmettere alle generazioni future.

Nel saggio Napoli tra sviluppo e arretratezza, attraverso la rivisitazione di un classico della letteratura operistica sul Meridione – Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno d’Italia pubblicato – pubblicato nel 1973 da L. Ferrari e A. Serafini –, Giuseppe Antonio Di Marco giunge ala conclusione che la rinascita napoletana degli anni Novanta è stata solamente un cambiamento di facciata, in quanto a partire dai due decenni precedenti hanno preso corpo dei cambiamenti strutturali a livello nazionale ed internazionale – cambiamenti oggi riassumibili nelle categorie di globalizzazione e postfordismo –, che sembrano avere segnato il definitivo tramonto della soggettività operaia così come si era costituita nel corso del XX secolo, con la conseguente crisi di una soggettività conflittuale su cui fare leva per innescare i processi di trasformazione. “Se lo sbocco – osserva Di Marco – è quello di ‘dare rappresentazione politica, qualitativamente più che quantitativamente forte, dell’attuale marginalità del lavoro’, […], oppure se è quello di un progetto politico della moltitudine ‘per poter passare dalla sfera della possibilità a quella dell’esistenza’, […], comunque c’è bisogno di una soggettività completamente nuova. Ma su questo punto la teoria può, come sempre, seguire e non anticipare la prassi (p. 185).

E sono proprio l’attivazione pratica di nuovi processi di soggettivazione/memorizzazione e l’immaginazione/sperimentazione di nuove forme di lotte e di politica, forme declinate in senso partecipativo, gli snodi critici cruciali che emergono dalla lettura dei saggi di questo testo, al di là delle diverse e talora opposte prospettive filosofiche attraverso le quali è stato interrogato il “caso” Napoli.