lunedì, dicembre 31, 2007

Amianto dalla Cina

Da Elpica

Trovato amianto nei thermos cinesi. La notizia divulgata dal TG 1 de 13 luglio scorso, arriva dalla direzione generale per “l'Armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori” presso il ministero dello sviluppo economico. I Nas e le ASL competenti ne ha sequestrato un notevole quantitativo.
Indubbiamente è la concorrenza che costringe a tenere sotto pressione i prodotti cinesi, ma il motivo ufficiale è che i thermos contengono delle pasticche di Amianto, la cui funzione di attutire la differenza della temperatura interna/esterna evita che il contenitore di vetro si rompa, conferendo così alla merce un valore d’uso senza il quale non vi sarebbe valore di scambio. La motivazione ufficiale, con tanto di servizio televisivo, ha dato ai lavoratori la “certezza” che militari e sanitari fanno osservare la legge, cosa che invece è stata mille volte disattesa nei cantieri e nelle fabbriche; in questo caso è la n° 257 del 1992 che ha bandito l’uso e la commercializzazione dei prodotti che contengono amianto.
Numerose sono le volte che abbiamo scritto sulla questione, sia per l’aspetto della controinformazione sulla verità della pericolosità di questo materiale, la quale risale al ben lontano 1935, quando gli studi epidemiologici negli USA ne confermavano la relazione con il tumore della pleura – il mesotelioma -, sia soprattutto per organizzare movimenti di operai contro l’amianto.
Le cronache delle sentenze che gli operai stanno riuscendo a strappare, in quest’ultimo periodo, se da un lato non riuscirà mai a far giustizia della loro morte prematura, di sicuro dimostrano una capacità di critica alle organizzazioni politiche e sindacali, che, per quanto sia risultata limitata, ha dato un preciso segnale alla necessità di non delegare a nessuno i propri interessi, specie ora che non c’è la necessità per il capitalismo di confondere le ristrutturazioni degli esuberi con la salute degli operai.
La notizia che viene dai prodotti cinesi, se da un lato può far comprendere cosa sia lo sviluppo capitalistico e le sofferenze che gli operai cinesi saranno costretti a patire, ripropone nel nostro paese la domanda: perché l’amianto è stato bandito per legge dello Stato?
La risposta di chi interpreta il marxismo secondo lo schema della riproduzione semplice, quindi delle contraddizioni che insorgono tra gli operai e il capitalista o tra questi e il costo delle materie prime, non può rispondere a questa domanda, gli basta ribadire che l’amianto è stato sostituito perché non più economico. Per cui lo Stato è ridotto ad esecutore politico di un interesse particolare, quello dell’industria dell’amianto. Così gli interessi collettivi della classe dei capitalisti, nonostante che si facciano concorrenza tra loro spariscono, e non possono assumere nessun significato, poiché, ciò che nella concezione precedente si è annullato è stato proprio il meccanismo della produzione e riproduzione allargata del capitale, che per il suo carattere sociale non può esistere senza lo Stato, e lo Stato non ha ragione di esistere senza rapporti sociali in perenne contraddizione tra l’interesse privato e ricchezza sociale.
L’impostazione, nella versione economicista, che vuole spiegare la sostituzione dell’amianto dai processi produttivi perché sarebbe diventato più costoso nei confronti dei materiali che l’hanno sostituito, non regge. Perché, se ciò fosse vero, il materiale sostitutivo dell’amianto si imporrebbe sul mercato in modo spontaneo, cioè senza l’intervento dello Stato.
Ci sono dati, anche se risalgono al 2003, che confermano, a dispetto della tesi economicista, che l’amianto è tuttora prodotto e utilizzato. Infatti, tra i principali paesi produttori extraeuropei, insieme a Russia e Cina, che hanno sfornato rispettivamente 700.000 e 450.000 tonnellate, c'è il Canada, che con le sue 335.000 tonnellate prodotte ha mobilitato la sua diplomazia per far pressione all’Europa per ripristinare l’uso dell’amianto, e con ciò stesso sconfessando anche l’altra tesi a sostegno dell’economista, cioè che i costi di trasporto contribuirebbero a fare dell’amianto un materiale più costoso di quelli sostitutivi.
Fu nel 1998, a sei anni di distanza dalla legge italiana e su proposta dei Paesi Bassi, che la maggioranza dei paesi della Comunità Europea (dodici su quindici) si pronunciò a favore della proibizione totale dell’uso dell’amianto. Gli stati membri che votarono contro furono: Grecia, primo produttore europeo d’amianto, Spagna e Portogallo grandi utilizzatori di questo materiale.
Ritornando alle notizie che ci vengono dai thermos cinesi, gli industriali di quel paese sarebbero degli stupidi, perchè utilizzerebbero un materiale più costoso, altamente nocivo, e premessa di futuri contrasti con gli operai.
La notizia però più importante è quella che riguarda i profitti derivanti dalla produzione dell’amianto, che a nove anni di distanza della legge 257 pur ci sono ancora, anche se in oscillazione per i timori che generano i riconoscimenti delle patologie, ci è offerta dall’articolo del Sole-24 Ore dell’11 dicembre 2001:
“ In scivolata sull’amianto
Zurigo. Proseguono i cambi al vertice di Abb, che lanciano ombre sul futuro del colosso di engineering. Peter Voser, sarà, dal secondo trimestre 2002, il nuovo responsabile finanziario del gruppo svizzero-svedese ed entrerà a far parte della commissione esecutiva della holding. Voser, che ricopre attualmente la stessa carica nella Shell Worldwide Oil Products, rimpiazzerà Renato Fassbind. Il cambio arriva a poche settimane dalle dimissioni a sorpresa del presidente “storico” Percy Barnevik, l’artefice della nascita del colosso europeo dalla fusione tra la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri nell’88. Ma a far scivolare le quotazioni di Abb, che, dopo aver perso oltre il 10%, hanno chiuso a Zurigo a 17,30 franchi (- 8,22%), sono stati anche i timori legati all’amianto. Le preoccupazioni sono state innescate dalla caduta a picco dei rivali americani della Halliburton, che hanno perso il 40% venerdì e ieri un altro 15% sull’onda dei rischi finanziari legati alle richieste di risarcimenti correlati all’utilizzo dell’amianto.”
Come si può notare, le cifre sull’andamento dei profitti azionari legati all’amianto, anche se mostrano una diminuzione a causa dei risarcimenti che gli operai richiedono, dimostrano che l’amianto è un materiale ancora in uso perché ancora economicamente insostituibile.
I padroni sono costretti ad abbandonarlo non “Quando il costo dell’amianto diventa troppo alto, sarebbe un fatto che come sempre si impone in modo spontaneo all’interno della concorrenza tra i capitalisti, il che non solleverebbe grossi problemi alla critica, se non quella di criticare a posteriori una merce, e quindi un valore d’uso per il modo storico in cui è stato prodotto.
Invece i padroni italiani hanno abbandonato l’amianto solo dopo aver mietuto tante vittime e malattie da risarcire, ma soprattutto solo dopo aver trovato di fronte gli operai con una volontà d'azione.
E, questi padroni sono stati costretti dallo Stato, perché troppi risarcimenti doveva pagare. Per gli industriali fu una costrizione vantaggiosa, perché con la scusa dell’amianto lo Stato gli regalò migliaia di miliardi per le ristrutturazioni.
Se in altri paesi si continua non solo ad estrarlo, ma addirittura a lavorarlo, non sarà l’umanità dei padroni o del loro Stato a vietarne la lavorazione, né tantomeno la fantomatica esistenza di un materiale sostitutivo più economico, ma la situazione della lotta che gli operai e i lavoratori possono condurre su questa questione.
Elp 30 luglio 2007

Alcune riflessioni sulla lettera aperta inviata dai compagni della Rete dei Comunisti.

Da Elpica

La sinistra \arcobaleno nasce subalterna …….perchè era già subalterna.
Chi crede che non lo era deve fare i conti con alcuni problemi: ha di frontea sè una storia di compromessi politici e cedimenti sindacali, una montagna di falsificazioni teoriche e di abiure storiche che necessitano delle risposte. In esse si vedrà che non c’è nessuna Montagna né tantomeno dei Montagnardi che lottano contro i Girondini, e che il topolino che partorisce non è altro che un nuovo Danton.
Ripercorrere la breve storia della nascita del PRC sarebbe un defatigante impegno che penso sia meglio evitare. Perché, più di ogni altra ricerca che evidenzierebbe geneticamente le premesse teoriche ed il blocco sociale di cui era espressione, le conclusioni cui è giunto insieme ai verdi e alla sinistra dei DS sono per i lavoratori e i tanti militanti il più bell’insegnamento. Anche se si è fregiato dell’appellativo "comunista, su cui ancora qualcuno si oppone alla sua scomparsa, ciò che si formato ed ora si coalizza in questa cosa rossa è il comunismo borghese.
Anche se ricacciato nella sua storica collocazione e per questo un pò recalcitrante ma pur senza smentire la sua vocazione governista, esso rimane quello che è: partito di riserva del capitale collocato a sinistra, per tenere a freno le contraddizioni che spingono i lavoratori alla coscienza e alla organizzazione rivoluzionaria, per sabotarne la necessaria possibilità di rovesciare gli attuali rapporti di produzione e di scambio. In sostanza rimane quello che fu il vecchio riformismo, balbuziente con la proprietà privata, romanticista verso le capacità demiurgiche dello Stato borghese.
Se la critica dovesse fermarsi a quanto dice Giulio, per il quale: "la gravità della situazione e la sua deriva continua richiede una rinuncia a dogmi e velleità integraliste per affrontare in maniera propositiva, concreta e ampia (perché ampia è la platea che ne è colpita) i problemi della precarietà del lavoro, del reddito, della casa, dell'istruzione, dei diritti civili", sarebbe priva di significato.
Perché alla fine non è chiaro di che cosa si tratterebbe; se fare una nuova organizzazione politica un po’ più di sinistra o qualcos’altro di non meglio precisato. Se teniamo però conto che le questioni accennate rappresentano gran parte del programma del sindacalismo alternativo, la faccenda si ingarbuglia alquanto, riportandola proprio al punto da cui hanno iniziato Cossutta e Bertinotti, con il primo, mosso dalla simbologia ideologica che riportava la memoria allo Stato Sociale con un corposo retroterra elettorale, ed il secondo mosso dalla velleità di riscossa dei salari senza colpire i profitti, ma salvando, con quindici anno di anticipo, il maggior sindacato dalla crisi di rappresentanza che ora lo investe più in profondità.
Se con la condivisione di una parte della lettera aperta promossa dai compagni delle Rete dei Comunisti, si può giungere a ripetere un film già visto, credo che le questioni vadano scritte in modo più stringato e senza lasciare nessuno alla libera interpretazione.
La critica può invece significare tutto, se, rivolta agli attuali rapporti di produzione e di scambio giunge, per la sua coerenza, a collocare una folta schiera di militanti nella posizione inconciliabile con il capitalismo. In caso diverso non dovrebbe esserci niente di cui scandalizzarsi. Infatti, se finanche la borghesia è interessata a risolvere i suoi mali senza metterne in discussione i rapporti di produzione e la dinamica economico-sociale su cui regge il suo potere, perché dispiacersi per i tanti panni sbiancati che sono in circolazione?
Penso che un dibattito che non tenga conto di questa ultima affermazione èsubalterno esso stesso ai panegirici che ci propina la politica borghese. Anzi, per chi è convinto della necessità storica di rovesciare l’attuale piramide sociale, una presa di posizione del genere, che può sembrare in sé indifferente se non anche rozza e priva di dialettica, è la sola che ci permette di iniziare un cammino autonomo e indipendente, senza stracciarsi le vesti per quanti non lo fanno.
Ed è a partire da qui che anche le battaglie di cui parla Giulio, ammesso che possano trovare soluzione negli attuali rapporti sociali sempre più lacerati dalla crisi economica e dalla sete di profitto, possono essere combattute sul loro connaturato terreno anticapitalistico, oppure come fisiologici aggiustamenti del sistema.
Su questa nuova aggregazione politica pesa soprattutto la necessità che venga lasciato per sempre, anche se ora lo fa solo nominalmente, ogni riferimento al comunismo teorico. Perchè, come espressione della liberazione degli operai dallo sfruttamento capitalistico, li compromette continuamente col capitale nei confronti del quale si sono legittimati come forza governativa. Infatti, al pensiero di liberazione degli operai, non basta più nemmeno commemorare la Russia del ’17 senza dire che ciò ha significato anche capitalismo di stato.
In secondo luogo sta la riforma elettorale col suo sbarramento percentuale che renderà impossibile la rappresentanza parlamentare che non prenda voti sufficienti.
Ma c'è dell'altro ancora nella nascita di questa cosa rossa, che è tutto a suo discapito. Certo è che loro pensano alla propria esistenza e si assemblano, ma sarà sempre più problematica la loro vita futura. Una della cause, oltre all’incedere della crisi capitalistica con i suoi inconciliabili risvolti sociali, è proprio il ricongiungimento dei loro differenti approcci alla realtà.
Infatti, se il riformismo, storicamente posizionato dentro i rapporti borghesi di produzione e di scambio, ha potuto essere anche espressione dell’utopica distribuzione equa del reddito facendo pure un po’ la voce grossa sul salario nelle condizioni di sviluppo del capitale, ora che si unisce con i verdi che sono alla rincorsa di un equilibrio tra questi primi e fondamentali rapporti con la natura, per loro, come anche per gli ecologisti, saranno tempi duri e banco di prova per le più belle ed inconcludenti proposte universalistiche con le quali credono di poter mettere d’accordo il lavoro con l’ambiente, senza eliminare l’appropriazione privata del plusvalore.
Sarà un caso, oppure è proprio il capitale, che, giunto all’apice del suo sviluppo rimette il comunismo nella sua espressione umana? Staremo a vedere.
Intanto i comunisti senza partito rappresentano un anacronismo se non anche un po’ di folclore, fanno tanto male a se stessi e al comunismo da essere un fatto inaccettabile.
Se c’è un ultimo insegnamento che dobbiamo ricavare è quello di finirla col metodo di dire cose che non si intendono o lasciare intendere cose che non si dicono.
L’indipendenza politica e il programma comunista sono tracciati nel Manifesto del 1848.
Elp 10- 12- 2007

La repressione contro gli operai ad un punto di svolta: perché…..

Da Epica

Dalle manifestazioni dei Consigli di Fabbrica dei primi anni ’90, che fecero indietreggiare l’attacco contro le pensioni, salvando una parte consistente degli operai e dei lavoratori allora in forza, sono trascorsi quindici anni. Anni in cui operai più giovani hanno rimpiazzato, in numero oltrechè minore, gli operai andati in pensione, ma ad un tasso di produttività maggiore di quello che si poteva ottenere con lo stesso numero.
Il sistema pensionistico pensato dal Sg. Dini - è bene ricordare che fu il capo di un governo per la cui maggioranza il PRC dovette elaborare la prima scissione. Un drappello di parlamentari amici di Garavini, ex Segrt. Reg. Fiom-Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta alla Fiat nel 1980, appoggiò il governo in nome dello spauracchio di Berlusconi.-, le cui invariate e sostanziali proiezioni sociali, insieme all’accordo del ’93, alla legge Treu e alla legge 30 in materia di mercato del lavoro, fanno sempre più sentire le loro ricadute negative sulle generazioni più giovani dei lavoratori.
Quindici anni di lotte, anche dure, in cui gli operai hanno fronteggiato i padroni fabbrica per fabbrica, ed i lavoratori impoveriti il governo nelle piazze, ma hanno anche sperimentato sulla propria pelle due sostanziali questioni, mentre oggi un’altra si affaccia sempre più potente.
La prima è il risultato di queste lotte, nonostante i sacrifici consumate in esse. In generale, non è esagerato affermare che risultati veri e propri non ne abbiamo portato a casa nessuno, e che, anche quel poco che si è riuscito a strappare è stato sempre quello predeterminato dalla concertazione pubblicamente dichiarata, o stabilita nel segreto delle loro riunioni.
La seconda questione è rappresentata da come la repressione si è scatenata contro i vari livelli delle lotte, sia dalle aziende in prima persona, sia dalle centrali sindacali contro i suoi stessi militanti per la loro opposizione agli accordi con la confindustria, o tra il sindacato e le singole aziende.
Prima di passare alla terza questione, che a mio parere è imperniata attorno alla necessaria possibilità di generalizzare le lotte, credo sia utile ragionare attorno a questi due primi aspetti.
La repressione delle lotte è avvenuta come tradizionalmente ci hanno abituati a constatare sia i padroni che il riformismo negli anni addietro: da una parte l’azienda con le sue provocazioni interne ed esterne alla fabbrica, dall’altro le organizzazioni politico-sindacali che isolavano con vari provvedimenti disciplinari, o con campagne mediatiche, le avanguardie dalla massa in movimento.
Ne citerò alcune di queste lotte e della repressione che subirono, perchè a mio parere esemplari, non solo per il momento in cui si svolsero, dato che poco tempo prima la classe operaia veniva data a furor di popolo e dallo stuolo dominante degli intellettuali per scomparsa, integrata o addirittura dormiente, ma anche per il fatto che in quelle lotte già si intravedevano problematiche più fresche su cui oggi è più accesa la discussione.
In merito al rapporto tra gli operai, il sindacato e la contrattazione, c’è da ricordare i 16 operai della Piaggio di Pontedera, di cui alcuni anche RSU, espulsi e sospesi a fine luglio 2004 dal loro stesso sindacato, la Fiom di Pisa.
La lettera che segue, di cui a monito dei lettori riporto la notizia che non fu pubblicata né da Liberazione e né da Il Manifesto, con la quale gli operai contestavano la repressione subita, tranne che per la collocazione organizzativa implicita alla continuazione della battaglia, cioè dentro o fuori i maggiori sindacati, nella sostanza contiene punti identici a molte situazioni di lotta e di contestazioni operaie.
Solo per rimanere in ambito Fiat, basta ricordare le contestazioni del 2006 alla Fiat di Pomigliano contro il contratto cui seguì il licenziamento di alcuni militanti dello Slai-Cobas, e quella contro i provvedimenti burocratici congiunti contro delegati RSU a Mirafiori che lasciarono il Sin.Cobas; le motivazioni sono sempre le stesse e la lettera che riporto le coglie pienamente.

“L'espulsione di undici tra delegati e lavoratori e la sospensione di altri cinque è un fatto senza precedenti nella storia della CGIL, ed è necessario che tutti possano conoscere i fatti che stanno dietro una simile decisione. Veniamo accusati di aver pubblicamente e sistematicamente contestato, con interventi in assemblea, volantini, promozione di agitazioni, nientemeno che la linea sindacale della Segreteria provinciale di Pisa della FIOM.
Perchè l'abbiamo contestata? Chi conosce la storia sindacale alla Piaggio negli ultimi anni sa bene che dal '95 una serie di accordi tra OO. SS. provinciali e Azienda ha introdotto alla Piaggio forti aumenti dei ritmi di lavoro, oltre 2000 licenziamenti, uso abnorme del lavoro stagionale, flessibilità e sabati lavorativi, senza aumenti salariali. In particolare, il metodo dei tempi di lavoro TMC2, ben noto perchè alla base della rivolta di Melfi, è stato introdotto alla Piaggio da un accordo aziendale del 1995. La sua applicazione, anche di fronte alla resistenza operaia,è stata possibile solo grazie al sostegno delle OO.SS. provinciali, in particolare dalla FIOM.
Questo ha portato dal '95 a oggi a una serie di accordi, che hanno autorizzato la stagionalizzazione della produzione, con l'uso massiccio del lavoro precario e dei sabati lavorativi e hanno acconsentito ai licenziamenti generati dai forti aumenti di produttività conseguenti agli aumenti dei ritmi di lavoro.
Nell'ultimo anno, con l'arrivo alla Piaggio di Colaninno, la disponibilità della FIOM provinciale ad ulteriori concessioni all'azienda si è tradotta nella sigla di un accordo integrativo che riduce al minimo gli aumenti salariali, assenti in Piaggio da nove anni, condizionandoli interamente agli obiettivi aziendali, conferma l'applicazione del TMC2, introduce la legge 30 e reimpone i sabati lavorativi, che le lotte operaie avevano resi impraticabili negli ultimi tre anni.
L'accordo è stato approvato a maggioranza strettissima, solo grazie al voto favorevole degli impiegati, in un Referendum fuori delle regole (per es., solo quattro rappresentanti del NO, venti del SI, su otto seggi, un rappresentante del NO e cinque del SI in Commissione elettorale).
Tutto questo stracciando la piattaforma precontrattuale, dai contenuti diametralmente opposti, approvata lo scorso Settembre dai lavoratori a larghissima maggioranza nel quadro delle iniziative della FIOM contro gli accordi separati di FIM e UILM sul contratto nazionale e condraddicendo apertamente tutte le posizioni e gli obiettivi della FIOM nazionale su TMC2, legge 30, flessibilità e salari.
In questi anni noi ci siamo fatti interpreti della resistenza operaia, che si è espressa all'inizio con scioperi di reparto e ha nel tempo consolidato un gruppo di lavoratori e delegati FIOM, circa la metà dei 17 FIOM nella RSU prima del suo rinnovo nello scorso Novembre. La continua crescita del sostegno operaio alle nostre posizioni ha determinato negli ultimi anni uno scontro aperto in fabbrica con la Segreteria provinciale della FIOM.
In Ottobre le dimissioni dei delegati FIOM legati alla segreteria provinciale hanno anticipato il rinnovo della RSU. Le elezioni sono state gestite da una commissione di sole quattro persone, nominate dalle segreterie provinciali di FIOM FIM e UILM e UGL, col disprezzo di ogni regola e garanzia (assenza in tutti i seggi degli elenchi dei votanti, divieto ai componenti dei seggi di siglare le schede elettorali, siglate solo della Commissione elettorale, che ha rifiutato di indicarne il numero totale, urne facilmente manomettibili e nella disponibilità della sola Commissione per lunghi periodi, in particolare per quattro ore tra la fine delle votazioni e l'inizio dello scrutinio, durato cinque giorni, rifiuto totale, anche a formale richiesta, di accesso ai verbali). [.....].
Dall'inizio dell'anno sono stati compiuti una serie di atti arbitrari nei nostri confronti, tra i quali l'allontanamento sostanziale dalle trattative per il contratto integrativo, l'esclusione, contro il regolamento, della nostra lista dal Congresso provinciale della FIOM, e infine la richiesta, da parte della Segreteria provinciale alla CGIL regionale dell'avvio del procedimento disciplinare che si è concluso con 11 espulsioni e 5 sospensioni.
Sembra una commedia dell'assurdo: noi che abbiamo rivendicato gli obiettivi della FIOM nazionale contro la diversa linea sindacale della FIOM provinciale e denunciato in tutte le sedi le continue violazioni regolamentari con cui è stato impedito alla volontà dei lavoratori di esprimersi, veniamo sanzionati per averlo fatto apertamente e pubblicamente.
La nostra vicenda è solo un episodio di un problema, che si sta imponendo sul piano nazionale e che è già esploso con la lotta degli autoferrotranvieri, di reale e verificabile rappresentanza dei lavoratori, che le organizzazioni sindacali finiscono per trattare come soggetti passivi, privi della possibilità di espressione democratica e del diritto di determinare le scelte di linea sindacale e gli obiettivi delle rivendicazioni, e perciò privi degli strumenti fondamentali di difesa delle proprie condizioni di lavoro. Questo problema sarà difficilmente eludibile e fa tutt'uno con la necessità di una ripresa dell'iniziativa politica del movimento operaio, oggi subalterno agli interessi e alle prospettive di classi parassitarie e inconsistenti.”
fonte: infoslai@fastwebnet.it
Come si vede siamo in presenta di un attacco concentrico: mentre alcuni nuclei di operai si mettono in movimento contro i padroni, devono nello stesso tempo, se non anche prima, entrare in contrasto con i propri dirigenti sindacali e difendersi dai loro attacchi pur di rimare nell’ambito della loro classe, senza esserne isolati e ricacciati in angolo.
Un caso da manuale lo dimostrò nel 2001 la lotta degli operai alla FMA di Pratola Serra. La fabbrica fu bloccata per cinque giorni dagli operai che rivendicavano “Uguale Lavoro - Uguale Salario”. La battaglia, pur se ebbe risonanza nazionale e momenti di mobilitazioni ricadenti solo sulle spalle di nuclei ristretti di operai, non fu generalizzata. I sindacati, tranne simboliche presenze, non vollero accettare lo scontro con la Fiat così com’era maturato in tutto il comparto, e non ci fu nessuno in grado di farlo. Non solo, ma quell’esperienza di lotta dovette ripiegare per concentrarsi nella battaglia per far rientrare i licenziamenti promossi a seguito di provocazione esterna alla fabbrica, lasciando così alle ortiche gli obiettivi della lotta intrapresa.
Gli esiti di questi attacchi li conosciamo. Sono rientrati, sia per l’impugnazione dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, ma soprattutto per le radici collettive di cui erano espressione questi operai incriminati.
Un caso a parte invece fu il licenziamento di F.F., un operaio della Fiat New Holland di Modena. Fu licenziato per scarso rendimento. Ma, nonostante l’individuazione soggettiva che mirava a colpire un militante operaio marxista, l’azienda fu sconfitta dopo circa due anni di sentenze e ricorsi. La stessa organizzazione scientifica del lavoro, con tanto di cartellini - tempi di produzione su cui è scritto nero su bianco la quantità da produrre in condizioni ottimamente ergonomiche, non poteva far ricadere sull’operaio le deficienze tecniche e ambientali in cui lavorare. La sua strenua resistenza a tutte le sirene con la faccia dell’Euro, lo riportarono in fabbrica al suo posto di combattente.
Da quando si è visto fin’ora, la repressione degli operai ribelli ha marciato su di un solo livello, quello che nelle premesse ricadeva su interessi collettivi. Così: da parte delle aziende, vi è stato il tentativo di sotterrarli in un mare di guai giudiziari e di difficoltà economiche, da parte del Sindacato, lo scopo di rompere il legame tra queste soggettività incompatibili a tener la testa piegata e la restante massa degli operai. Come pure, ciò che nelle conclusioni poneva gli stessi problemi, abbiamo avuto, da parte dello Stato, la sua presenza intimidatoria e le cariche della polizia contro gli operai in sciopero.

Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, rappresentano però un punto di svolta nella repressione operaia nelle fabbriche. Esso consiste nel fatto che le motivazioni si presentano sganciate dal movente dell’azione che li determina, cioè dagli interessi collettivi come il salario e l’organizzazione del lavoro contro cui gli operai organizzano scioperi e proteste, per incentrarsi invece sulla responsabilità individuale.
Questa forzatura avviata dalla Fiat con l’interpretazione dell’art 26 del CCNL dei metalmeccanici ci pone l’esatto rovescio della medaglia. Le azioni soggettive non devono mai uscire dagli ambiti degli interessi collettivi. Questa credo sia la lezione che il più grande gruppo industriale offre alla classe degli operai e specie alle sue avanguardie.
Una lezione storica, dal momento che la Fiat l’attua a difesa dei suoi interessi mentre gli operai saranno costretti a contrastarla fino alla resa dei conti finale con al comando, o la Fiat o gli operai.
Una lezione storica, perché i licenziamenti di Melfi, a parte la illegittimità riscrontabile sulla base dello stesso Diritto del Lavoro e in numerose sentenze della Cassazione, proiettano nel futuro ula possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, come anche la possibilità che i padroni possano sostituirsi al potere punitivo dello Stato, nel mentre esso non ha ancora sanzionato niente.
Questa possibilità, in cui oggi a Melfi ne costatiamo i prodromi, riporta di nuovo la questione sugli interessi collettivi, ma ad un livello più alto dello scontro tra le classi, che né il diritto né le sentenze della Cassazione contemplano. Chi vuole capire capisca, perché qui si tratta di nuovo di rapporti di forza, ed essi si plasmano dentro lo scontro collettivo tra gli operai e il capitale.
È possibile, dato gli impulsi reazionari che stiamo riscontrando e senza che qui parli della competizione tra una sigla sindacale ed un’altra, continuare a pensare e ad agire senza rompere l’isolazionismo e quegli elementi di autocoscienza che caratterizzano la frammentazione organizzativa in cui sono immersi una nutrita schiera di operai e militanti che hanno perso ogni illusione riformista e concertativa ? La risposta è negativa.
Se si sta affacciando il Maccartismo del 21° secolo, la risposta non può riposare su iniziative frettolose, o isolate. Seppur generose negli intenti che spesso caratterizzano la piccola borghesia rivoluzionaria, nella realtà risultano invece proclami che non fanno altro che aprire gli occhi alle zecche senza che abbiamo possibilità di togliercene una. Perché se c’è una lezione da imparare è quella di sapere che nell’ambito di interessi che si contrappongono, le azioni di una parte ricadono comunque su tutta la classe. Ed i borghesi non fanno differenza su chi li promuove. Se nella storia hanno perseguitato finanche i democratici perché accusati di comunismo, questo dovrebbe far pensare ancora una volta di più alle responsabilità soggettive e al loro legame con gli interessi collettivi.
Una Coalizione Operaia. Solo a partire da essa si può in seguito valutare il come e il quando. Tutto il resto che fuoriesce da questo impegno non solo è sbagliato sul piano del materialismo, ormai ridotto ad una scadente scolastica ripetitiva di condizioni storiche superate, che al massimo può solo fare l’apologia culturale del 1848, del 1917 e del 1969, senza vedere in esse i reali esecutori e i compiti attuali in cui sono immersi per emanciparsi nuovamente.
Una Coalizione Operaia è necessaria per rimettere anche il pensiero di liberazione di questa classe nella collocazione oggettiva dello scontro tra le classi. Anche se ciò deve per forza far indietreggiare tutti i sostenitori “della coscienza esterna” con i loro programmi, una cosa do per certa: non esiste nessun pensiero teorico autonomo dalla evoluzione delle fondamentali classi sociali: gli operai e la borghesia.
I licenziamenti alla Fiat sono la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata. La sua sempre più marcata fuoriuscita dai canoni di salvaguardia che il riformismo offre al sistema capitalistico, incapace com’è di contenere i risvolti sociali delle sue contraddizioni economiche, pongono al primo posto il problema dell’organizzazione.
Chiunque è su questo terreno non può far finta di non sapere che, per rispondere all’attacco del più grande gruppo industriale che ha inaugurato il sistema legale per effettuare licenziamenti selettivi degli operai ribelli, si può solo rispondere con l’unità degli operai. La Coalizione è il primo e fondamentale passo che si può e di deve percorrere.
Elp. 3 – 12 - 2007

Fiat: licenziamenti discriminatori in fatto e in diritto

Da Elpica

Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, insieme alle pene proposte contro decine di giovani antimperialisti che dimostravano a Genova 2001, rappresentano un punto di svolta nella repressione: non solo della ribellione operaia nelle fabbriche, ma anche della contestazione che sale potente nella società.
È la reazione padronale al crescente sviluppo delle contraddizioni che scaturiscono dall’organizzazione scientifica del lavoro e contro le scelte politiche dei governi; ma In Fatto, è soprattutto la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata.
La sempre più marcata fuoriuscita di questo processo dai canoni di salvaguardia che offrono il sindacalismo concertativo, e i partiti politici della sinistra, ormai ridottisi a particolari appendici della borghesia dominante, impensierisce sia i padroni che i governi.
Sindacati e partiti, incapaci come sono di contenere le contraddizioni tra una metrica del lavoro che ti spreme in minuti-secondo a fronte di un salario e di condizioni del lavoro che scendono sempre più al di sotto della vita media sociale, perdono sempre più consensi. Mentre lo Stato vorrebbe punire i dimostranti contro il G8 con centinaia di anni di galera, rispolverando in aggiunta anche il reato di tipo patrimoniale, il quale nessuno potrà mai risarcire, i padroni scendono direttamente in campo.
Nell’oblio completo dei difensori del diritto e della democrazia, i padroni hanno trovato nel concetto giuridico di “rapporto fiduciario” che lega il lavoratore al datore del lavoro, l’arcano per risolvere il conflitto dentro le fabbriche.
Questa uestaquesta metodologia dell’odierno attacco padronale, per la possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, non è escluso che possa costituire nel futuro il nuovo terreno della repressione delle avanguardie su tutti i luoghi di lavoro.
Se questa è la sostanza della reazione che abbiamo di fronte, contenerla, solo per parlare in termini di difesa, significa porre nei fatti un grado di organizzazione capace di coagulare un vero e autentico rapporto di forza tra gli operai e il capitale, senza nessun intermediario. E questa è una questione che passa inevitabilmente per le forche caudine di un processo organizzativo capace al tempo stesso di valorizzare ma anche di strozzare tutti quegli elementi di autosufficienza che funzionano come separazione e frammentazione. Elementi che sono pur presenti nelle varie componenti organizzate che si sono poste sul terreno dell’indipendenza politica di classe, ma che vanno rimossi.
C O A L I Z I O N E, è, a mio parere, l’indirizzo politico che deve seguire alla messa in campo e alla condivisione del principio dell’Indipendenza politica della classe, con tutti gli sforzi e la messa in discussione che le esperienze fin qui fatte esigono, per cui, la parola della sua realizzazione passa evidentemente nelle mani delle sue espressioni politiche organizzate.
Se i padroni al momento hanno ragione solo perché siamo deboli organizzativamente, il che equivale a dire che siamo deboli anche politicamente, nemmeno dal versante del Diritto hanno le carte in regola. Infatti, la forzatura avviata dalla Fiat con l’applicazione dell’articolo 26 del C.C.N.L. dei metalmeccanici che tratta appunto del rapporto fiduciario, offre, ad una attenta lettura, la possibilità di rigettare questi licenziamenti individuali come un atto discriminatorio.
In proposito, l’art. 25 del CCNL che descrive le mancanze per le quali l’azienda può licenziare, e le varie sentenze della Cassazione che hanno reso nullo il licenziamento per cause non attinenti alla prestazione lavorativa, come anche quelli sanzionati per motivi politici e religiosi, ed in mancanza di una sentenza passata in giudicato, dimostrano che ci troviamo di fronte ad una vessazione padronale.
Infatti di che cosa sono colpevoli questi operai? Allo stato dei fatti di niente. Ma se la Fiat, con quest’atto discriminatorio vuole sostituirsi al potere punitivo dello Stato, senza che esso abbia sanzionato alcunché, è meglio che sappiamo fin da ora che, se i padroni si incamminano su questa strada, l’alternativa di organizzarci meglio è sempre meno una opzione interlocutoria per diventare sempre di più una necessità vitale.
Se questa discriminazione potremo farla rimangiare mobilitandoci anche nel campo della giurisprudenza, sopportando i tempi di essa che c'inducono a patire insopportabili situazioni economiche, con il relativo risvolto psicologico che i padroni sanno che mina il rapporto tra queste avanguardie e il resto degli operai, nel merito rimane l’essenziale: una organizzazione degli operai più solidale, più forte.
Nell’esprimere la mia solidarietà a questi operai licenziati, esprimo al tempo stesso anche un appello ai tanti lavoratori e militanti per stringersi attorno ad essi, e il desiderio di vedere la classe operaia nella posizione sociale che gli compete, in quanto produttrice di tutta la ricchezza sociale.
Elp. 23.nov. 2007

l’ Uranio Impoverito ovvero il cattivo uso delle armi

da Elpica

Si è scritto troppo e troppe volte sul Petrolio come uno dei principali motivi dello scatenarsi delle attuali guerre di aggressioni.
Da parte nostra, che siamo critici del capitalismo in quanto sistema di produzione e appropriazione della ricchezza fondato sullo sfruttamento, dobbiamo dire che:
Se questa fonte di energia rappresenta la base della moderna storia del capitalismo, come l’acqua ed il carbone furono quella dei suoi inizi, per comprenderne gli sviluppi bisogna togliere al concetto di energia il suo significato universale, per ri-connetterlo invece alla sua intima natura di elemento fondamentale del capitale costante. È solo da questo punto di vista che possiamo comprendere l’imperialismo, gli attriti e le alleanze tra le varie nazioni che prefigurano veri blocchi contrapposti.
Chi detiene il monopolio dell’estrazione ha il monopolio del prezzo sul mercato. Il capitale costante dei paesi concorrenti è tenuto sotto pressione da questo monopolio con l’effetto di contrastare lo sviluppo e la concorrenza di queste nazioni. Esse devono pagare questa fonte di energia con la moneta di riferimento. Ne devono accumulare una gran quantità, e per farlo devono diventare loro malgrado acquirenti di prodotti dei paesi monopolisti. Benchè non più convertibile in oro, al momento la moneta di riferimento del mercato del petrolio è il Dollaro, che ha la sua base nelle Borse di New York e Londra, ma anche l’Euro comincia ad essere usato nei pagamenti, specie tra l’Iran e i clienti del suo petrolio.
Neanche il capitale costante è un concetto avulso da altri significati concatenanti. È costante, perché una parte di esso è il valore delle materie prime, o è addirittura fisso, immobile, pietrificato in strutture e in macchinari, solo perché si contrappone al capitale variabile, cioè ai salari. Ed il capitale variabile è tale solo perché alla fine del suo consumo, alla fine del processo produttivo, ha prodotto più del suo valore, ha prodotto un plusvalore.
Questo plusvalore non rimane quieto nella sua esistenza di sovrappiù, è talmente grande la sua grandezza in valore che neanche lo sperpero per le classi dominanti basterebbe a soddisfare in qualche modo un equilibrio per ricominciare daccapo lo stesso ciclo. Gran parte di esso deve trasformarsi in nuovo capitale, e si trasforma costantemente per via concorrenza, delle nuove scoperte scientifiche che essa stessa stimola e che alla fine impone di applicare.
Nell’economia borghese, questo plusvalore, questa massa di lavoro non pagata, la cui esistenza sarebbe già di per sé una fonte di formidabili progressi sociali, per i capitalisti invece è una dannazione da cui non possono uscire. Quando alla fine della circolazione le vendite hanno realizzato il profitto, per i capitalisti cominciano i veri grattacapi, la loro domanda: quanto capitale abbiamo investito per guadagnare tot profitti? Si accorgono che il rapporto tra queste due quantità che prende il nome di Saggio del Profitto è sempre più in discesa.
Alcuni sono presi dal panico, altri devono abbandonare la scena, i rimanenti, che al momento risultano i vincitori di questa gara, sono presi dal loro famelico sforzo di aumentare la produttività. Devono spremere gli operai al limite degli elementi fisici del tempo di lavoro, in primo luogo, e quando questo non basta devono opprimere l’intera società, rovesciando in essa la razionalità dei loro freddi calcoli col risultato di imprimerle un ritorno al passato.
Si può capire quindi quali sofferenze stanno subendo, ad esempio, gli operai e il proletariato delle campagne cinesi, nonostante che il loro paese sia in una fase di sviluppo industriale. Schiacciati come sono dallo sviluppo del capitale cinese che per aumentare la redditività del suo capitale impiegato vorrebbe comprare il petrolio ad un prezzo più basso ma che invece deve provenire tutto dal tasso dei salari e dalla produttività.
Fin qui abbiamo descritto gli elementi della guerra tra le classi prendendo come base l’energia del Petrolio. Ma, se c’è una nozione che dà il senso del movimento, quella è appunto la Storia. Ed essa sta iniziando a cambiare anche la base da cui dovremmo dedurre i fatti nel futuro.
Appunto perchè si sta affacciando sempre di più la possibilità di usare come fonte di energia alternativa l’Uranio Impoverito.
Ne abbiamo sentito parlare al tempo della guerra in Kossovo. Ne sentiamo parlare sporadicamente, quando i militari italiani, dopo averlo usato, a loro insaputa ovviamente, come arma anticarro, cominciano a denunciarne gli effetti letali sulla loro salute, il che fa prevedere anche quali siano in futuro gli effetti sulle popolazioni dove si faceva la guerra.
Eravamo stati abituati a pensare che i moderni mezzi tecnologici impiegati come armi da guerra risparmiassero vittime civili non coinvolte direttamente sul fronte. Che, la guerra moderna, non fosse più sporcata dalle rappresaglie di stampo nazista, che non avesse più bisogno n’è di un retroterra sociale, n’è di fronteggiare i risentimenti delle popolazioni, tanto era potente all’inizio degli anni ’90 il pensiero che la guerra fosse un’azione chirurgica.
I fatti non stanno così, non solo per come si sta facendo la guerra all’Iraq o all’Afghanistan; gli effetti radioattivi dell’Uranio, come furono e lo sono ancora quelli dell’uso dell’amianto nella produzione, si faranno sentire, sia nei paesi che hanno scatenato la guerra sia dove la si è combattuta.
Elp 24-10 2007

l'ambiguità da sciogliere: Gli operai e la società civile

Da Elpica:

Dobbiamo convenire che è stata una grande e ben riuscita operazione, quella di fare un referendum esteso a tutte le classi sociali con operazioni di voto su tutto il territorio.
La democrazia del voto ha funzionato. Pensionati e casalinghe ammaliati dal misero aumento di una miserabile pensione, lavoratori benpensanti che non hanno nulla a che vedere col Lavoro, insomma la società civile ha decretato che l’accordo del 23 luglio, seppur con qualche modifica che si preannuncia marginale sui lavori usuranti, deve passare.
Questo voto ha decretato che i pensionati devono rimanere nella miseria, gli operai devono contentarsi del presente e quelli futuri di essere certi che la loro condizione peggiorerà.
Dall’abolizione della scala mobile, dopo che gli anni ’80 sono trascorsi all’insegna del Toyotismo e della Qualità Totale, sono ormai più di quindici anni che gli operai si ritrovano stretti un cappio al collo contro ogni loro rivendicazione per migliori salari e diritti nel lavoro.
Da quando agli inizi del '90 i Consigli di Fabbrica diedero vita alle grandi proteste contro Berlusconi per poi ritrovarci un governo di sinistra col finanziere Dini che riformò il sistema pensionistico proiettandolo per tappe alla conclusione oggi raggiunta, e con il sg. Treu che istituzionalizzò con legge le premesse per la precarietà del lavoro, sono passati quindici anni.
Anni di continui ricatti e cedimenti, in primo luogo sulle condizioni degli operai: dal versante della Confindustria e dai vari governi succedutisi fino ad ora, la parola magica che ha funzionato come il pilastro contro cui fermare ogni rivendicazione sui salari, sui diritti e sullo stato sociale dell'erogazione dei servizi, è stata il Mercato. Nessuno può sentirsi responsabile delle leggi che regolano il suo andamento, e in effetti sarebbe vano ricercarne la responsabilità in questo o quel capitalista, tranne ovviamente quando bisogna scaricarne le conseguenze sugli operai e i lavoratori. Come pure, è vano cercarne le responsabilità nell’imperialismo degli Usa, senza lottare contro il proprio capitalismo.
Dai padroni grandi e piccoli, la parola, che è un vero e proprio arcano concettuale, è passata nelle mani dei partiti, di destra e di sinistra, federalisti o centralisti che siano, mediante varie tappe che hanno contrassegnato gli equilibri della borghesia di destra e di sinistra e le pressioni esercitate sulle due fazioni dalla Lega di Bossi.
Questa convergenza, anche se la destra si distingue per affermare più apertamente il primato dell’impresa, libera da ogni condizionamento, per il quale i migliori affari sarebbero fonte di migliori condizioni lavorative, mentre la sinistra si affanna a indicare che migliore efficienza e innovazione aumenterebbero la competitività e quindi la domanda di lavoro, è stata contrassegnata, come prima tappa, da un scontro sul carattere costituzionale della democrazia.
Il punto da colpire era la velleità separatista della Lega di Bossi, che per la stessa questione del Mercato, da cui discende la competitività, ha mosso guerra allo Stato, definito ladrone, parassitario e centralista, al solo scopo di scalzarlo dalle garanzie sui patti tra capitale e lavoro, come l'attacco all'art. 18 ha dimostrato, e per consentire ai padroni del nord di pagare meno tasse, e quindi di trarre più profitti.
Si è continuato a porre sotto ricatto gli operai e i lavoratori per il pericolo di Berlusconi. E per mantenere il consenso elettorale della società civile cercando di non perdere quello degli operai sempre più arrabbiati, il partito che si prefiggeva di rifondare il comunismo, ha dovuto programmare due scissioni: la prima, con alla testa l’ex sindacalista Garavini - segr. reg. Fiom Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta contro i licenziamenti alla Fiat - che si separava da Cossutta per dare i numeri al governo Dini; la seconda, tra Cossutta e Bertinotti, con il primo a difendere il governo D’Alema, il secondo a cercare di recuperare consensi tra gli operai e la gioventù arrabbiata dei centri sociali e trattenerli sotto l’egida dell’opposizione ma non troppo. Infine altri aggiustamenti di posizioni - leggi abiure sulla storia del novecento - per accreditarsi come forza governativa e come soggetto istituzionale e tenere in vita il governo Prodi ultimo, che con non allenta la precarietà, riconfermando l’andamento da Treu a Maroni e che sulle pensioni ha una proiezione per il 2013 addirittura peggio della riforma di Maroni.
Qui comincia il bello.
Il pericolo della destra è stato usato dai partiti di sinistra con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. E il governo Prodi non è davvero l’ultimo che gli operai di meritano. Dovremo per questo essere destinati a farne il cane da guardia pur sapendo di andare incontro ad un baratro?
Certo che siamo per la Libertà, ne abbiamo sempre più bisogno, per questo vogliamo combattere questo sistema economico che ha inglobato nei suoi cicli di rotazione tutta la nostra vita, con turni a scavalco di giorno e di notte. Ma la Libertà per le classi sottomesse non significa niente senza la Fratellanza e l’Uguaglianza, e se per giungere a questo saremo costretti ad usare la ghigliottina tecnologicamente idonea ai tempi nostri, sarà una necessità, ab torto colli, da cui non poter sfuggire.
Quindici anni non sono trascorsi invano. Pur se accanite lotte non hanno dato risultati perlomeno corrispondenti ai reali rapporti di forza che si sono messi in campo o che potevano essere messi in campo, una nuova leva di operai combattenti si va formando nei più grandi centri della produzione sociale.
Qui è scontato il giudizio negativo dei sindacati. Giudizio che deve affondare più in profondità gli elementi da cui deriva, ed uno particolarmente importante che si affaccia sempre di più è il potere e la possibilità che il sindacato ha di sabotare le lotte, di non generalizzarne i contenuti, di non estenderne la forza.
Che si levi alto il grido di battaglia: COALIZIONE!
L’unità degli operai d’avanguardia che sappiano farsi valere nella cosiddetta società civile come la classe da cui tutto viene e niente rimane.
Elp 14-10- 2007

sabato, dicembre 01, 2007

Antonio Pagliarone risponde

Caro Antonio Carlo
Ho scoperto per caso una risposta ad alcune critiche sollevate all’articolo “L’economia globale un Titanic che affonda” e mi precipito a fare alcune brevi considerazioni soprattutto sullo stile. Innazitutto non intendevo fare lo sbruffone (come si dice tra noi meridionali) citando gli ultimi lavori di Rawski, ma semplicemente cercare di sostenere ulteriormente il mito di Cindia esposto in maniera soddisfacente dal testo in esame. Tutto qui. Non intendevo fare il saccente, non è nel mio stile. Ma veniamo all’oggetto del contendere evitando atteggiamenti supponenti.
Riporto per la seconda volta la frase di Antonio Carlo sul cosiddetto Lavoro di Impegno civile "Già nel primo numero della rivista (da cui è stato tratto l’articolo)ho posto l’accento sulla centralità del reddito di cittadinanza, inteso però come reddito che remunera un lavoro, il c.d. lavoro diimpegno civile Questo tipo di obbiettivo ha una portata dirompente, perché si contrappone alla spinta del sistema che crea poco lavoro (e molta disoccupazione) subordinandolo al profitto; qui abbiamo una logica opposta (lavoro remunerato e non legato al profitto ma ai bisogni sociali) che, però, nasce da esigenze collettive non adeguatamente soddisfatte dal sistema." Mi sembra che non vi siano dubbi sul fatto che sappia leggere. Questo Reddito di Cittadinanza comunque lo si definisca ha dei costi per l’amministrazione statale. Ma non sembra al prof Carlo che qualsiasi governo in condizioni di crisi economica così grave e con possibilità quasi nulle nell’intervenire per contrastare una dinamica di lungo periodo sia condannato ad effettuare tagli alla spesa pubblica piuttosto che incrementare welfare? Non lo dico perché sono un lurido liberista (anzi) ma semplicemente perché è definitivamente tramontata l’epoca del golden age nel quale lo stato ed il sistema politico potevano integrare i lavoratori grazie ad una fase di sviluppo portentoso che garantiva entrate tali da garantire stato sociale indipendentemente dalla evasione. Oggi che siamo in piena dinamica di de-integrazione come è possibile adottare misure del genere? Non solo, Antonio Carlo collegherebbe tale proposta come dirompente poichè spingerebbe fortemente l’amminsitrazione pubblica verso il recupero, se non pieno almeno parziale, della evasione fiscale divenuta insopportabile per un paese civile. Strano che non vi sia un governo che non adotti politiche così efficaci su due fronti. Ma si rende conto Antonio Carlo che ormai siamo di fronte ad una fase economica completamente diversa dal passato? Come è possibile riuscire ad intervenire in una dinamica economica che ha fatto della speculazione finanziaria, quella si globale, la quintessenza dell’esistenza? Ma se non riescono nemmeno a tassare gli utili finanziari a livelli decenti….come possono recuperare l’evasione da imprese che continuano a strillare per una riduzione della tassazione? Ed i lavoratori non sono da meno strillano anche loro e danno ragione ai loro padroni. Questa non è saccenza ma solo guardare in faccia alla realtà che è brutta… ma è così. Certo che lo Stato farà bancarotta ( e la farebbe anche se ci fossero non solo Lenin e Mao che non ho mai ammirato ma anche lo stesso Keynes, ma io gli preferisco Marx) , non c’è remissione dei peccati che tenga. La dinamica in atto dagli anni 80 (mi sembra si chiami deregulation) per la quale lo stato si defila progressivamente da qualsiasi controllo della dinamica economica non è la causa ma la conseguenza di un progressivo mutamento degli investimenti che dal settore produttivo si spostano nella speculazione finanziaria da parte di tutte le attività (non solo le imprese ma anche le istituzioni di ogni genere compresi i fondi pensione e quant’altro. Questo è il mio punto di vista sulla base di quella che ritengo l’evidenza empirica e che l’ultima debacle finanziaria, destianta a proseguire, dimostrerebbe inequivocabilmente. Sull’ironia sappia Carlo che anche il sottoscritto, avendo origini napoletane ma vivendo in quest’inferno di città pseudoindustriale, sa riconoscerla e praticarla abbastanza regolarmente, ma il problema non sta qua ma nelle affermazioni di Antonio Carlo che riporto
"E’ evidente come anche per la Confindustria sia impossibile ignorare un problema esplosivo ed incancrenito, un problema che nei prossimi anni diventerà un nodo strategico dei vari conflitti, che vedranno impegnati il movimento, i sindacati, le forze politiche ed il governo (alle prese con la crisi fiscale) nonché il padronato, piccolo e grande che sia. Si apre, dunque, un fronte vastissimo di lotta in cui l’attacco all’evasione fiscale può trovare consensi e “sponde”, come mai in passato."
Mi sto impegnando ma non ci vedo niente di ironico, anzi Antonio Carlo fa appello ad un fronte comune contro l’evasione fiscale. La frase si commenta da sola.
Concludo sulla solita pistolettata relativa alle proposte da fare che mi sono sentito recitare migliaia di volte. Non ne ho. Contento? L’unica cosa che posso dire, ma è solo un accenno al problema, è che prima o poi i lavoratori capiranno che questo sistema economico non è più in grado di garantire la riproduzione della comunità umana per cui si vedranno costretti a riorganizzare la produzione e la distribuzione dei beni in una forma economica superiore dove non saranno pià presenti il denaro, il mercato ed il valore di scambio, un po’ come abbozzava il Vecchio di Treviri nella sua “Critica al programma di Gotha”. Spero in tal modo di aver fugato ogni fraintendimento. Nonostante tutto ringrazio il prof Carlo delle sue note e ribadisco che le sue proposte sono di tipo keynesiano, cosa che non comporta la lapidazione ma semplicemente il mio dissenso da seguace del vecchio Marx. Per una critica all’ideologia keynesiana posso solo consigliare, senza alcuna saccenza, il vecchio testo “Marx e Keynes” di Paul Mattick e l’ottimo intervento di Paolo Giussani “ I Limiti dell'Economia Mista e l'accumulazione di capitale dei giorni nostri” presente nel sito www.countdownnet.info . Con questo spero di non destare mai più alcuna irritazione per aver commentato un articolo che ritengo nel complesso interessante vista la modestia della pubblicistica che la sinistra propone attualmente, mi scuso se sono stato troppo diretto ma non intendevo dare lezioni a nessuno.
Un caro saluto
Antonio pagliarone Novembre 2007