giovedì, marzo 08, 2007

Risposta ad Andrea Vitale

La lettura delle tue osservazioni critiche è stata così stimolante da indurmi a riprendere alcune tue riflessioni al fine di chiarire le mie tesi e porti, a mia volta, alcuni problemi.A tuo parere, la periodizzazione del capitalismo in fordismo e postfordismo è inaccettabile per quattro motivi fondamentali: 1) il fordismo, come forma di organizzazione del processo industriale, è storicamente nato in una fase economica con delle caratteristiche diametralmente opposte a quelle del secondo dopoguerra; 2) è errato attribuire a modelli di organizzazione del lavoro aspetti specifici delle fasi economiche; 3) l’analisi è inficiata dal carattere speculativo della comparazione a fronte dell’esigenza di analisi concrete; 4); l’assenza della concezione dello Stato come dittatura di classe.Procediamo in ordine ed analizziamo da vicino le obiezioni sopra elencate.Per quanto concerne la prima – il fordismo è storicamente nato in una fase economica con delle caratteristiche diametralmente opposte a quelle del secondo dopoguerra – non ci sono dubbi che esso sia nato nella prima metà del ‘900, un periodo, come dici tu, “squassato da immani crisi e distruzioni totali”. Ma guardando meglio da vicino tale età storica scopriamo che il fordismo come forma di organizzazione del lavoro è stato introdotto da Ford, sulla base degli studi di Taylor, negli USA a partire dal 1908, per la produzione in serie della prima automobile utilitaria, - il modello T - passando in un ventennio da un’iniziale produzione di 200 esemplari ad una produzione di 40.000 autovetture nel 1929.Già questo dato dovrebbe farci riflettere sulle condizioni tutt’altro che critiche della fase economica USA. In effetti, all’inizio del ‘900 gli USA hanno conosciuto una crescita economica che non ha eguali negli altri paesi industrializzati dell’epoca. Il che consentirà loro di uscire dalla Prima guerra mondiale tra le potenze vincitrici senza avere subito distruzioni e di scalzare la Gran Bretagna da paese leader economico internazionale. La crescita si arresterà solo nel 1929 con una delle più devastanti crisi economiche che la recente storia ricordi. Solo dopo il secondo dopoguerra il fordismo è divenuto un modello vincente da imitare e/o esportare nelle altre nazioni.In sintesi, nato negli USA in una fase espansiva della loro economia, il fordismo diventa un modello vincente a livello internazionale solo dopo la Seconda guerra mondiale quando i paesi europei fanno registrare dal ’45 al ’75 tassi di crescita ineguagliabili: il famoso “glorioso trentennio”. Dunque, sia per la sua nascita sia per la sua affermazione è possibile constatare un nesso preciso tra crescita economica ed organizzazione fordista del lavoro, contrariamente a quanto affermi nella tua lettera.Per quanto riguarda la seconda critica – è errato l’attribuire a modelli di organizzazione del lavoro aspetti specifici delle fasi economiche – devo osservare che sono in buona compagnia, in quanto molti sociologi ed economisti di orientamento marxista fanno la stessa cosa (Revelli, Fumagalli, Bonomi etc.). Ma non voglio controbattere a delle osservazioni intelligentemente critiche opponendovi stupidamente un “principio di autorità”, voglio solo indurti a riflettere sul fatto che le modalità dominanti di organizzazione dei processi di produzione e di sfruttamento della forza lavoro, pur costituendo la base reale di un progetto politico di emancipazione, non possono essere analizzate come atomi a se stanti, onde non correre il rischio di cadere in una visione atomistica e deterministica dei rapporti sociali, che da un punto di vista politico ci può indurre al settarismo.In effetti, come ho precisato nell’articolo (p. 14), bisogna fare riferimento al concetto marxiano di “totalità organica”, per cogliere i nessi tra le varie sfere dell’attività umana: produzione, distribuzione, scambio, politica, ideologia.Nella fattispecie la predominanza di alcuni assetti produttivi, e quindi le diverse forme di comando tra capitale e lavoro, non si comprendono semplicemente sulla base di un’analisi incentrata sulla sola fabbrica. Il just time, la lean production, la precarizzazione e l’individualizzazione dei rapporti di lavoro, i gruppi di qualità, così come gli altri aspetti organizzativi e tecnologici del postfordismo, vanno spiegati in relazione alla tendenziale saturazione dei mercati, alla globalizzazione dell’economia, all’esigenza di frantumare la classe in moltitudine, etc. Sono, nell’insieme, una risposta economica e politica che il capitalismo ha dato agli alti livelli di conflittualità espressi dalle classi lavoratrici sino agli anni ‘70Il particolare va analizzato criticamente in relazione al generale. E’ questa la grande lezione metodologica marxiana ai fini dell’elaborazione di una teoria critica dell’esistente, altrimenti rischiamo di cadere nelle tentazione degli opposti monismi – quello idealistico da un lato e quello positivistico ed empiristico dall’altro – entrambi acritici ed infruttuosi rispetto alla nostra finalità politica tesa al superamento dell’esistente.Per quanto riguarda la terza obiezione – il carattere speculativo della mia impostazione metodologica in contraddizione con la premessa iniziale – mi permetto di dissentire sulla base di alcune considerazioni specifiche.Innanzitutto, i modelli idealtipici, per loro stessa definizione, non avanzano nessuna pretesa di realtà come le ipostasi ideologiche e/o speculative da me criticate nella prima parte dell’articolo, ma si caratterizzano per una valenza esclusivamente euristica, conoscitiva e non essenzialistica. In quanto tali devono estremizzare le caratteristiche peculiari di un oggetto o di una tendenza, onde chiarirne concettualmente le differenze. Inoltre, essi non vengono costruiti sulla base di speculazioni aprioristiche, ma, coerentemente allo schema marxiano concreto-astratto-concreto, sono elaborati sulla base di precise analisi empiriche di sociologi ed economisti quali Carlo, Revelli, Rifkin, Bonomi etc. e successivamente verificate sulla base di tendenze e processi reali analizzati dagli stessi studiosi.Come ci ha insegnato Marx, l’analisi parte dai processi reali per giungere all’individuazione delle caratteristiche di fondo e delle tendenze generali, fermo restando che nell’opera di sintesi ed esposizione le conclusioni possono apparire come premesse. A questo proposito, nel proscritto del 1873 alla seconda edizione del Capitale, Marx osserva:Certo, il modo di esporre un argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l’indagine. L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce, e se la vita del materiale si presenta ora idealmente riflessa, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori.Se mi fossi attenuto al livello ideologico non solo non sarei giunto alla conclusione che tra fordismo e postfordismo vi è continuità per quanto attiene i rapporti di comando capitale/lavoro, ma non avrei neanche colto sia il carattere mistificatorio e/o funzionale al capitale della rivalutazione della soggettività operaia – negando, così, l’alienazione, lo sfruttamento e i rapporti di comando e controllo tipici delle aziende, nonché la loro radicalizzazione – sia la sincronicità tra i diversi modelli organizzativi e le varie figure del lavoro. Tutti aspetti che ho individuato e denunciato (cfr. articolo pp. 24-30) e che tu, nella disamina dell’articolo, non hai colto o sottovalutato, pervenendo nella lettera alle mie stesse conclusioni: il carattere alienante di entrambe le forme di produzione. La discontinuità è individuata nelle diverse caratteristiche della fase economica, giungendo alla conclusione che il capitalismo mostra sempre di più il suo vero volto, facendo entrare in rotta di collisione sviluppo e socialità, crescita e coesione sociale, come non avveniva durante la fase fordista, caratterizzata, per quanto concerne il mercato del lavoro, da una tendenziale piena occupazione ed omogeneità delle condizioni contrattuali e dei diritti sociali, a fronte degli attuali processi di delocalizzazione, ristrutturazione, esternalizzazione, precarizzazione, individualizzazione contrattuale e disoccupazione crescenti. Processi sociali e tendenze queste che, se rimaniamo “chiusi” nel solo lavoro di analisi critica e di pratica politica all’interno delle fabbriche, non riusciamo a cogliere nella loro valenza negativa a livello territoriale e sociale, precludendoci la possibilità di comprendere criticamente le esplosioni di rabbia delle periferie delle megalopoli e delle metropoli sudamericane, francesi, statunitensi etc. (cfr. il caso esemplare delle banlieus francesi). Non ci fanno intercettare le nuove figure del lavoro, i nuovi bisogni, le nuove forme di sfruttamento, le nuove rabbie e le nuove frustrazioni, relegandoci ad una condizione marginale.Infine per quanto riguarda la concezione dello Stato, se non vogliamo limitarci a proclamare in modo ideologico la sua natura di classe, ne dobbiamo cogliere le concrete trasformazioni storiche, che sono una risposta ai processi di lotta. Lo Stato erogatore di servizi nei confronti del capitale testimonia la crisi del sistema non la sua forza, ne svela la sua natura di classe in modo storicamente determinato nell’età della globalizzazione, erodendo tutti quei diritti e quelle garanzie che nella fase precedente erano state conquistate dal movimento operaio e dalle altre classi lavoratrici contribuendo ad acuire la crisi anziché razionalizzarla.Scusami per la lunghezza della lettera, ma ritengo che sia stato necessario chiarire gli snodi problematici da te argutamente posti, proprio al fine di ribadirti, in qualità di rappresentate di un’associazione operaista, l’invito a partecipare ad un Forum sulle trasformazioni del lavoro, in modo tale da mettere in rete il meritorio lavoro politico, che svolgete nelle fabbriche, con le altre figure del lavoro e gli altri luoghi della produzione capitalista. Partire dalla fabbrica (ma quale fabbrica? solo quella fordista o anche quella diffusa sul territorio?) va bene, proprio per ribadire il carattere di espropriazione del modo di produzione capitalistico, ma rimanervi “chiusi” potrebbe indurre ad una posizione minoritaria e settaria, contribuendo a frantumare ulteriormente, da un punto di vista politico, quel mondo del lavoro, che oggi necessita di essere ricomposto, intercettando anche le istanze, le domande, i bisogni e le aspettative di una miriade di figure messe a lavoro e a valore dal capitale, al fine di rilanciare su livelli più alti, estesi e consapevoli la lotta tra capitale e lavoro.Si tratta, insomma, di individuare il filo rosso che unisce vecchie e nuove figure del lavoro, vecchie e nuove forme di subordinazione, comando e sfruttamento per ricomporre il fronte del lavoro e costruire politicamente un percorso di radicalità a partire dalle vecchie e nuove contraddizioni che stanno minando il sistema. Contraddizioni che di per sé non conducono necessaristicamente al comunismo –come invece sembra sostenere Enzo Acerenza, quando, nel numero 122 di Operai contro, parla di “processo storico ineludibile” – ma necessitano, come tu mi insegni, di una soggettività, una classe cosciente ed organizzata, capace di acuirle e superarle.Ma la costruzione di questa classe, che ha una valenza politica e non semplicemente sociologica, deve avvenire solo nell’ambito della grande fabbrica tradizionale o, per non rimanere settari e minoritari, dobbiamo partire anche dagli altri luoghi della produzione capitalista e coinvolgere le nuove figure del lavoro, che non sono immediatamente assimilabile all’operaio maschio adulto dell’industria siderurgica ed automobilistica?E la proposta di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato non consentirebbe da un punto di vista politico di ricomporre queste fratture all’interno del mondo del lavoro – fratture che attraversano anche gli operai per la differenza dei loro livelli salariali e delle loro tipologie contrattuali – e da un punto di vista economico di acuire le contraddizioni dell’ordinamento capitalistico in vista di un suo definitivo superamento?Aspettando una tua replica ed augurandomi di fare decollare quanto prima questa forma di collaborazione - un Forum online sul lavoro - che non implica nessuna rinuncia di linea da parte di nessuno, ma solo una condivisione del lavoro, politico, critico e teorico che le diverse associazioni ed organizzazioni svolgono nei loro ambiti di azione,ti rivolgo i miei più cordiali saluti.

Salvatore Lucchese

1 commento:

lunanera ha detto...

Andrea così replica


Caro Salvatore,
sono convinto che sia ora di porre una questione di metodo nel dibattito che da un po’ ci vede protagonisti. Prima di farlo, però, non posso esimermi dal rispondere nel merito di alcune considerazioni da te svolte, visto che con garbo, ma in maniera niente affatto celata, mi accusi di minoritarismo e settarismo, nonché di positivismo e determinismo.
Nel tuo scritto sintetizzi in 4 punti il mio commento al tuo lavoro su fordismo e postfordismo.
I primi due punti possono tranquillamente essere fusi, in quanto in sostanza essi si riferiscono al mio rifiuto di periodizzare il capitalismo con le categorie di fordismo e postfordismo, periodizzazione che si fonda sull’arbitrario accostamento di caratteristiche particolari del ciclo economico all’una o all’altra forma di organizzazione del lavoro. Il fordismo sarebbe l’epoca dello sviluppo, della produzione di massa, del primato della fabbrica sul mercato, del compromesso fra operai e capitale; il toyotismo l’epoca della stagnazione, del dominio del mercato sulla fabbrica, della disoccupazione e della precarietà crescenti. A tal proposito tu mi fai notare che il fordismo è nato negli USA durante una fase espansiva (prebellica) e si è affermato in Europa in un’altra fase espansiva, il secondo dopoguerra. Ne deduci che “sia per la sua nascita sia per la sua affermazione è possibile constatare un nesso preciso tra crescita economica ed organizzazione fordista del lavoro, contrariamente a quanto affermi nella tua lettera”. In realtà, l’unico nesso preciso che questo dato ci fornisce è che per estendere una nuova organizzazione del lavoro si ha bisogno di investimenti e che questi sono più abbondanti, ovviamente, nelle fasi espansive, che vedono così l’affermarsi dei nuovi metodi. Se c’è un nesso preciso è, quindi, solo quello fra crescita economica e affermazione dell’organizzazione fordista, non quello fra la prima e l’organizzazione fordista in quanto tale. Questo nesso, per cui sarebbe valida l’equazione fordismo = sviluppo economico, resta ancora tutto da dimostrare. Lo stesso tuo ragionamento, confermando implicitamente che il fordismo è esistito anche in una fase di grave crisi economica e sociale del capitale (dal ’29 alla fine degli anni ’40 – per evitare polemiche secondarie, tralascio il “piccolo particolare” della prima guerra mondiale) finisce col dimostrare il contrario di quello che intendevi sostenere, finisce cioè col confermare la completa compatibilità fra l’organizzazione fordista e le fasi basse o di crisi acuta del ciclo. Del resto, ti sei chiesto quando si è sviluppato in Giappone il toyotismo? Esattamente fra gli anni ’50 e ’70, epoca di grande sviluppo. Allora potremmo dire, seguendo il tuo esempio, che anche per questo tipo di organizzazione del lavoro è “dimostrato” il nesso preciso con la crescita economica, ed ecco che tutta la tiritera sulla differenziazione fra i due metodi andrebbe a farsi benedire.
E’ proprio questo metodo di accomunare più o meno arbitrariamente fenomeni differenti fra loro, giocando sul fatto che esiste comunque una loro interrelazione (metodo che ci fa giungere, come abbiamo visto, a risultati contraddittori), che io ho voluto mettere in discussione nel precedente scritto. Certo tu puoi vantarti di essere con le tue posizioni in buona compagnia, riferendoti a Revelli, Fumagalli, Bonomi (e perché non ad Aglietta?), io mi accontento di restare col buon vecchio Marx, che tratta diffusamente dell’organizzazione del lavoro capitalistico nella IV sezione del Libro I del Capitale, “La produzione del plusvalore relativo”. Siamo a livello di processo di produzione del capitale, mentre nel Libro II Marx tratterà del processo di circolazione del capitale e nel Libro III del processo complessivo di produzione capitalistico. E’ questo di Marx un metodo atomistico, deterministico e settario, oppure è il corretto procedimento per stabilire i nessi concreti e reali dei fenomeni che si vuole analizzare? Il tuo richiamo al concetto marxiano di totalità organica qui è fuorviante, perché Marx non si ferma a cogliere l’interdipendenza e l’azione reciproca fra produzione, distribuzione, scambio, politica e ideologia, ma ne dispiega con lucidità i nessi interni.

Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, bensì che essi tutti sono momenti di una totalità, differenze all’interno di un’unità. La produzione predomina sia su se stessa nella sua determinazione antitetica, sia sugli altri momenti. Da essa il processo ricomincia sempre di nuovo. …… Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione e uno scambio determinati, oltre che determinati rapporti reciproci fra questi differenti momenti. E’ però vero che anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è a sua volta determinata dagli altri momenti.

Ma siamo giunti, così, alla “terza obiezione”, quella cioè sull’uso che tu fai degli “idealtipo” e della critica da me svolta al riguardo. Non mi soffermo sulla “valenza esclusivamente euristica, conoscitiva e non essenzialistica” che attribuisci loro, dato che mi sembra contraddittorio che tu subito dopo ne rivendichi la coerenza con numerosi e approfonditi studi concreti, in una presunta perfetta sintonia con lo schema marxiano concreto – astratto – concreto (Marx nel descrivere il percorso del pensiero che dal concreto sale all’astratto per giungere al concreto come sintesi di molte determinazioni, precisa che “le categorie esprimono forme di esistenza, determinazioni dell’esistenza”, che è tutt’altra cosa dei tuoi idealtipo). Quello che invece ritengo assolutamente importante è che in realtà questi idealtipo ci mostrano non ciò che fordismo e toyotismo sono (anche se in forma estremizzata, pura), ma ciò che credono di essere, per giunta nella traduzione di sinistra di questa ideologia. La misura della giustezza di questa mia affermazione sta, come ho sottolineato nel mio scritto precedente, nell’incapacità di queste letture di dar conto a fondo dell’esperienza più pura in Italia del toyotismo, la Sata di Melfi.
Il voler restare ancorato a questa visione ideologica ti spinge anche su un terreno minato per quanto riguarda l’analisi dello Stato (e siamo alla quarta questione). Qui si tratta del rifiuto netto da parte mia della concezione ideologica che vede lo Stato terreno neutrale di compromesso fra le classi, uno Stato il cui ruolo sarebbe quello di redistribuzione della ricchezza. Di quale compromesso parli? Quale redistribuzione intendi? Lo Stato non è super partes, è sempre lo strumento di dominio di una classe sull’altra, deve sempre garantire il “normale” sfruttamento degli operai. La redistribuzione della ricchezza è nient’altro che distribuzione del plusvalore sociale estorto agli operai in primo luogo ai singoli capitalisti e, in secondo luogo, alle altre classi, che in una maniera o nell’altra, partecipano al banchetto. Se storicamente, secondo te è stato altro, allora dovresti quantomeno dimostrarlo. Certo le forme in cui lo Stato assolve alla sua funzione cambiano in rapporto all’evoluzione della società e noi non possiamo essere indifferenti a queste forme, ma fermarsi alle modifiche delle forme senza coglierne la continuità nei contenuti è cosa estremamente pericolosa per chi tende, come tu dici, al superamento dell’esistente.
Mi fermo qui nelle precisazioni, ma prima di affrontare la questione di metodo che ti avevo preannunciato, voglio completare il discorso toccando brevemente alcuni altri aspetti che hai trattato.
Tu dici che io sono il rappresentante di un’associazione operaista. Niente di più sbagliato. Questo tuo giudizio dimostra la maniera preconcetta con cui tu ti approcci alla nostra posizione. L’operaismo è stata una corrente del marxismo che ha affermato che le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico. Una lettura idealistica e unilaterale della lotta di classe, che nega, nei fatti, l’assunto marxiano che il limite del capitale è il capitale stesso. Una lettura che ha avuto la sua coerente evoluzione nelle teorie negriane sull’operaio sociale prima e sull’impero e la moltitudine poi. Una lettura nei cui confronti tu offri sostanziose concessioni, quando vedi unilateralmente il toyotismo come risposta capitalistica alla conflittualità operaia o, parallelamente, le modifiche della forma stato come risposta ai processi di lotta. L’esagerazione del ruolo di questi aspetti soggettivi, la sottovalutazione della spinta del capitale ad estrarre plusvalore relativo e ad adeguare la macchina statale alle esigenze dell’accumulazione spinge inevitabilmente allo sterile ribellismo o all’impotenza politica, se non direttamente al riformismo. Unilateralismo che di fronte ad un discorso a piombo fatto da un operaio sulla questione centrale di chi produce la ricchezza e chi se ne appropria e sulla necessità storica degli operai di risolvere questa contraddizione, ti suscita solo la preoccupazione di meccanicismo. Ma secondo te chi dovrebbe espropriare gli espropriatori? E questa espropriazione sarebbe possibile se non ne esistessero già in questa società le condizioni? Sarebbe possibile se gli operai non raggiungessero la coscienza della sua possibilità e necessità? Ma appunto questa è la vera questione su cui ti invito a riflettere: quale classe deve compiere quest’opera che la crisi sociale ci impone sempre più come necessaria? Gli operai o le altre varie e variegate forme del lavoro dipendente? Se per te siamo settari e minoritari perché sosteniamo, con Marx, che questa classe è quella degli operai, allora ti invito ad indicarmi quale è per te il nuovo soggetto rivoluzionario, sperando che non cada anche tu nella palude delle moltitudini di negriana memoria.

Spero di essere stato esaustivo, anche per la vastità di argomenti che mi hai costretto a toccare in così breve spazio.
Passo perciò alla questione di metodo.
Su vostro invito ho partecipato all’incontro del 27 gennaio. Su vostro invito ho preparato una sintesi dell’intervento per la pubblicazione sul blog. L’intervento non è mai stato pubblicato. Della cosa non mi dolgo, ma se a questo punto dobbiamo continuare il confronto fra noi in maniera privata, come è stata finora, credo che la forma scritta sia la meno adatta. Tanto vale incontrarsi personalmente, magari a casa mia a prendere un caffè, e in meno tempo sarà più facile personalmente chiarire le rispettive posizioni, senza gli equivoci e gli irrigidimenti che il dialogo scritto naturalmente comporta. Per quanto riguarda la collaborazione al forum, non abbiamo niente in contrario in linea di principio (non perché voglia “intercettare” altri soggetti sociali, ovviamente), ma se questo significa che non possiamo esprimere (come nei fatti è stato finora) sullo stesso strumento della rivista i nostri pareri sulle elaborazioni complessive che la redazione produce anche in virtù dell’esperienza eventuale del forum, allora è meglio dire da subito che a tale forma di partecipazione “ingessata” non siamo interessati.
Fammi sapere.
Pozzuoli, 6 marzo 2007 Ti saluto cordialmente,
Andrea