lunedì, febbraio 20, 2006

Bascetta e Bronzini sul reddito minimo

Bascetta e Bronzini nella loro introduzione a
AA.VV. - La democrazia del reddito universale - Manifesto libri http://80.22.205.87/bwnet/FormTIT.asp?IDS=98752&OPAC=BNAP
asseriscono che






  • La teoria democratica ha collegato reddito di base e cittadinanza, dal momento che la libertà dal bisogno viene considerato il diritto ultimo ma più significativo di quelli che spettano ad ogni membro di una comunità statale. I doveri del singolo verso uno stato implicano la garanzia della sopravvivenza materiale, oltre ai diritti formali ed al principio democratico. Nel contesto del dibattito sulla società giusta Rawls colloca il minimo socialetra le istituzioni di sfondo della giustizia distributiva e dal momento che il mercato non è capace di soddisfare il criterio del bisogno, quest'ultimo va soddisfatto attraverso la riconfigurazione di sfere e strumenti alternativi a quelli economici. Tuttavia il compromesso rawlsiano presuppone ancora il carattere eccezionale della disoccupazione e perciò si basa ancora sulla stabilità per tutti del lavoro subordinato e prevede che l'entitrà dei trasferimenti ai gruppi meno avvantaggiati non possa superare quel limite oltre il quale si avrebbe un effetto depressivo sulla competitività economica e unpeggioramento per tutti delle aspettative di lungo periodo. Ma se si accetta il principio che la garanzia di un minimo sociale connessa al nucleo essenziale della cittadinanza ( lo ius vitae ) entri a far parte delle istituzioni di sfondo della società, la sua erogazione non potrebbe essere subordinata a considerazioni di efficienza che diverrebbero pertinenti solo a partire dal momento in cui la libertà dal bisogno è garantita per tutti : assicurato cioè il diritto all'esistenza, gli ulteriori trasferimenti per ragioni di eguaglianza siano valutati anche con il metro della competitività del sistema economico
  • Comunque nel corso degli ultimi decenni la riproposizione dell'idea di un reddito minimo si stacca da un piano astratto di riflessione per scaturire dai concreti processi economici che stanno mettendo in crisi l'architettura del Welfare, per cui ad es. in Dahrendorf il minimo sociale più che un applicazione eccezionale del principio di uguaglianza, diventa un rimedio necessario per evitare la disintegrazione sociale, dal momento che il mercato, non garantendo il diritto all'esistenza, lasciato a se stesso mette in pericolo la cittadinanza stessa.
  • Se nelle costituzioni post-weimariane il lavoro era considerato il collante tra la sfera politica dove si determina l'interesse generale e quella della rappresentanza di interessi strutturata per comporre nel rispetto dei principi costituzionali i continui conflitti che si generano nella realtà produttiva, allora la proposta del reddito minimo universale, volendo affrontare un problema che si sviluppa nel sistema del lavoro spostandolo nel sistema politico può essere considerato un alterazione del modello. Infatti la condizione del lavoratore viene parzialmente alleggerita, ma solo a condizione di ricondurla a quella del cittadino bisognoso: di qui la convinzione che tale proposta rappresenti più una fuga dalla costituzione del lavoro che un suo rilancio
  • Tuttavia tale preoccupazione deriva da una valutazione irrealistica della capacità del diritto del lavoro di mitigare le dinamiche di mercato dove la disoccupazione ormai si definisce strutturale e tale da non essere sensibilmente attenuata pur in presenza di crescita economica: dunque l'espansione dell'esercito industriale di riserva rappresenta una minaccia catastrofica per il sistema di diritti che ha garantito il mercato del lavoro. Al tempo stesso si esauriscono i paradigmi che hanno fondato l'attuale sistema di tutele
  • Infatti la prima fase del passaggio al post-fordismo è consistita nell'introduzione massiccia di tecnologia labour-saving che provvedeva alla drastica riduzione di organici ed allo smantellamento dei luoghi di contropotere operaio, In un secondo momento si è destrutturato lo stesso rapporto lavorativo, generalizzando i contratti atipici e decentrando e frammentando i luoghi di produzione e di conseguenza anche la forza lavoro; stabilità del posto di lavoro e tutele della professionalità vengono travolti dalla fluidità del capitale che separa radicalmente lavoratori altamente specializzati e lavoratori relegati a ruoli semi-servili, impedendo una ricomposizione attraverso la contrattazione collettiva.Nel frattempo si sviluppa un lavoro para-autonomo che perde ogni contatto con la regolamentazione collettiva dell'orario di lavoro e genera il paradosso di isole (dominate dall'obbligazione di risultato) dove vige un abnorme allungamento dell'orario di lavoro all'interno di un mare dove la giornata lavorativa sociale risulta in diminuzione.
  • Il giuslavorismo più avvertito ha suggerito una ridislocazione del diritto del lavoro assestandolo sulla tutela di prerogative minime comuni ad ogni attività produttiva, ma tale riduzione alla fine potrebbe assecondare quella diffusione già in atto di rapporti di lavoro semi-servili a cui lo stesso lavoro salariato rischia di sovrapporsi: condizioni di lavoro svantaggiose e coercitive vengono legalmente sancite per offrire una possibilità alla massa crescente di disoccupati: dalla differenziazione di diritti e livelli salariali per diverse aree geoeconomiche (che restaurano margini di profitto e forme di sfruttamento analoghe a quelle coloniali) al lavoro interinale (che priva il lavoratore di un luogo stabile di lavoro e di un' interlocuzione costante) ai salari d'ingresso ( che restaurano estensivamente forme di sfruttamento dell'apprendistato denunciate secoli fa da Grozio come servitus imperfecta e mascherate dall'alibi della formazione ).
  • In realtà il lavoro vivo ha perso valore e ruolo nella produzione della ricchezza e può riproporre una propria funzione competitiva solo attraverso una sua degradazione, solo esportandosi come una moneta svalutata (Marx diceva che l'operaio diventa invendibile come una moneta fuori corso). Ma nella pretesa di conseguire attraverso questo adeguamento una difesa dell'occupazione c'è una contraddizione insanabile dal momento che il lavoro ha rappresentato il legame sociale dominante nel momento in cui se ne contestava il carattere subordinato o lo si caratterizzava come fondamento della soggettività politica, mentre i processi oggi in atto percorrono una strada inversa, alla fine antitetica alla stessa cittadinanza
  • Mentre il capitalismo delle origini trasformava la sovrappopolazione relativa in esercito industriale di riserva, il capitalismo contemporaneo riconverte l'esercito industriale di riserva in sovrappopolazione relativa. Il lavoro è sotituibile per via tecnologica, trasferibile in altre zone del pianeta, riducibile a lavoro asservito. Il valore del tempo di lavoro è in declino nella produzione di merci, ma mantiene il monopolio come unità di misura. Il valore del lavoro è basso e quello del non-lavoro è nullo , perchè il tempo di lavoro resta l'unica misura vigente
  • Dunque oggi la difesa dei lavori non può più darsi esclusivamente nel contratto, ma deve coniugarsi con quella che deve saper retroagire al momento in cui si sceglie come e per quanto tempo lavorare per conto altrui. Qui ci deve essere un sostegno, una forza che possa seguire l'individuo in ogni spostamento successivo. Il reddito universale costituisce una misura necessaria di unificazione tra occupati, semi-occupati e disoccupati, che fornisce la leva per poter meglio contrattare condizioni, tempi e carichi di lavoro. Il basic income non è solo sostegno per i disoccupati, ma è un sostituto funzionale dei tipici diritti del lavoratore fordista ( stabilità del posto di lavoro, mantenimento della professionalità acquisita etc ) travolti dalla fluidità del capitale. Tale diritto, oltre a garantire una sicurezza individuale minima ed a contrastare la diffusione di lavori semi-servili, offrirebbe anche una possibilità a tutti di dosare tempo di cura, di studio o di formazione con il tempo di lavoro
  • E' nella sfera del non-lavoro che bisogna agire se si vuole aggredire il potere di ricatto esercitato sul lavoro: il reddito universale è quel principio che riconosce valore al non-lavoro e a quell'insieme di attività relazionali, autoformative che non ricadono nei confini del rapporto salariale. Nel conferire un valore sociale al non-lavoro, il reddito di cittadinanza restituisce anche un prezzo congruo alla prestazione lavorativa, che per quanto umile, sfruttata ed intermittente non potrebbe essere pagata al di sotto della soglia di reddito garantita dalla cittadinanza. Inoltre il reddito minimo trae legittimità anche da quella fuga dal lavoro salariato che è stata una forma di ribellione contro una concezione monolitica e totalizzante dell'impiego che era alimentata anche dal garantismo operaio (si pensi che Lord Beveridge asseriva che il meccanismo del collocamento avrebbe reso impossibile ad uno di lavorare solo alcuni giorni alla settimana). Alcuni giuslavoristi pensano a tal proposito che il diritto del lavoro inteso come luogo di armonizzazione del lavoro come bene mercatile (lavoro astratto) e il lavoro come forma di espressione dell'individualità (lavoro concreto) abbia fallito, dal momento che il movimento delle garanzie ha sempre fatto prevalere il primo sul secondo, per cui si deve pensare anche ad una possibilità di scelta autonoma di tempi e carichi di lavoro e di schemi contrattuali: ovviamente questa apertura alla soggettività presuppone una copertura sociale di base. Dunque il reddito di base non costituirebbe l'abbandono della sfera lavorativa alle leggi ordinarie del mercato, ma la premessa di un nuovo diritto del lavoro che sappia piegare la flessibilità ad una misura sociale ed a bisogni individuali e collettivi
  • Per quanto articolata, la discussione sul reddito di cittadinanza si muove spesso all'interno della discussione sulla società giusta, di una storia del pensiero puramente politico legato al Welfare, alle idee di inclusione sociale, di consenso, di solidarietà e giustizia, mettendo in ombra il rapporto che questo tema ha con le questioni dello sviluppo e dell'accumulazione capitalistica, con la questione della macchina economica del Welfare, visto non come compromesso tra istanze contrapposte ma come una politica economica coerente. Questa asimmetria tematica fa sì che il problema più scottante per questi teorici sia la questione della legittimità etica e della compatibilità economica di un prelievo forzoso sul reddito di chi lavora a vantaggio di chi non lavora. Pur essendo convinti della contrazione di volume del lavoro necessario, del fatto che non sia possibile una correzione occupazionale dei meccanismi di sviluppo, detti teorici vedono il reddito di cittadinanza esclusivamente come strumento della riproposizione del legame sociale al di là della condizione lavorativa, come il segno di una ritrovata autonomia del diritto e delle politiche sociali, come se l'erosione del lavoro salariato cancelli la cogenza dei processi produttivi. Così anche i più radicali finiscono con l'adottare una posizione umanistica dove la sfera della produzione trova un limite esterno in un ambito extraeconomico, un luogo utopico della socialità.
  • Tale atteggiamento si presta perciò a tutte le critiche che evidenziano la dualizzazione della società, il carattere non inclusivo ma escludente del reddito di cittadinanza, il fatto che esso alimenta una discussione schizofrenica oscillante tra morale e contabilità. Bisogna uscire dalla mera logica distributiva con cui il reddito minimo viene rappresentato, misurarsi non tanto con il vuoto della disoccupazione, ma con il pieno del modo postfordista di produzione della ricchezza. Se si considera il reddito di cittadinanza un mero strumento di redistribuzione, si nega il ruolo della cooperazione sociale nel momento in cui questa non si assimila al lavoro e così si accetta un presupposto fondamentale del lavorismo e cioè che fuori dalla dimensione del lavoro si agita solamente una miriade di interazioni casuali ed improduttive senza scopo e senza direzione
  • In Marx la cooperazione sociale rappresenta una forza senza alcuna contropartita giacchè il capitalista paga i singoli salariati, ma dispone gratuitamente della loro interazione. Questa forza collettiva è generata da una serie di operazioni di cui l'imprenditore è il regista, ma resta il fatto che esista una forza collettiva produttrice di ricchezza mai riconducibile alla singola prestazione lavorativa, e dunque non computata nella sua retribuzione. E' la preistoria del processo di socializzazione del lavoro e di costituzione dell'operaio collettivo, in contraddizione con il metro salariale che pretende di stabilirne individualmente la misura. Con il sistema delle macchine si aggiunge una nuova forza che include in sè lavoro e sapere sedimentati nel corso delle generazioni, è qui già la legittima paternità dell'imprenditore si fa più incerta e la singola prestazione lavorativa più insignificante fino al "Frammento sulle macchine" ed all'idea di general intellect con cui la potenza produttiva è trasferita su un sapere generale, frutto di sedimentazioni culturali e interazioni sociali complesse, il carattere parassitario del padrone diventa evidente e la fatica salariata dei singoli è ridotta a miserabile residuo.
  • Così il movimento procede in direzione inversa : alla concentrazione subentra il decentramento e l'impresa sfrutta una geografia storicamente data e diffusa delle risorse e delle opportunità. L'imprenditore non può più rivendicare a sè alcuna paternità sulla forza produttiva che scaturisce da questo insieme complesso di interazioni, sempre meno riconducibili alla cooperazione lavorativa salariata in quanto eccedenti la stessa totale socializzazione del lavoro messa in campo dal fordismo maturo. ma quanto più si esaurisce la forza propulsiva del comando, tanto più questo si fa ferreo ed esigente: non è più la cooperazione sociale che si genera nell'organizzazione del lavoro salariato, ma sono le interrelazioni sociali, i flussi informativi ed il sapere diffuso ad essere messi al lavoro, disciplinati ed appropriati come fattori di produzione. La cooperazione sociale quanto più si avvia a diventare il fattore produttivo determinante, tanto più include quell'insieme di attitudini, comportamenti relative all' ambito del non-lavoro : è all'ordine del giorno il divorzio tra cooperazione sociale e lavoro salariato.La storia di Internet è significativa a tal proposito: un potente sistema di cooperazione sociale produttore di ricchezza si è formato in larga parte al di fuori del sistema del lavoro salariato. L'enorme produttività che ha comportato il restringimento del lavoro salariato stabile ed a tempo pieno, che consente il supersfruttamento di pochi e l'autosfruttamento senza pietà di un enorme arcipelago di lavoro autonomo e precario, trae alimento dalla sfera del non-lavoro. Il tessuto dell'innovazione (che Levy per quanto riguarda le competenze e l'intelligenza collettiva dice dover essere regolamentato, misurato e contabilizzato) è ormai tanto esteso, complesso ed inafferrabile da rendere impraticabile qualsiasi sistema di riconoscimento proprietario
  • Tuttavia la cooperazione sociale, pure se autonoma dall'organizzazione aziendale del lavoro, resta senza misura che non sia il vecchio metro del lavoro salariato o l'autosfruttamento selvaggio del lavoro autonomo tiranneggiato dalla committenza. Dunque è ora che la cooperazione sociale fuori del lavoro salariato esiga una misura adeguata al suo peso e cioè una parte della ricchezza che essa contribuisce in maniera determinante a produrre. Si tratta della rivendicazione ad un diritto sulla ricchezza prodotta presente e futura, scardinando definitivamente l'orizzonte della società duale. Per la cooperazione sociale complessa e l'universo relazionale e comunicativo che la sottende non v'è misura o brevetto possibile, criterio di distinzione tra le singole parti e i diversi contributi che vi confluiscono.
  • Dunque il reddito di cittadinanza sembra essere il più adeguato criterio di redistribuzione della ricchezza nell'ambito di questa sfera, indipendente da ogni prestazione lavorativa individuale o dalla manifesta volontà di cercare e accettare un posto di lavoro o da specifiche prescrizioni comportamentali. In questo corrisponde adeguatamente ad una sfera di interazione sociale che miscela i singoli contributi e il loro valore, rende intermittenti e mutevoli le posizioni di volta in volta occupate nel processo di cooperazione, possibile e legittimo il continuo avvicendarsi di lavoro e non-lavoro. Perciò il reddito di cittadinanza non veste i panni dell'ammortizzatore sociale, ma come rivendicazione di diritti da parte di una forza sociale diffusa che contesta l'intera struttura dei rapporti di proprietà, rea di voler mantenere il predominio sulla sfera sociale della comunicazione e del sapere. E' possibile che si formi una soggettività plurale (l'intellettualità di massa) cosciente di una posizione cruciale in gradi di radunare le fila di un esclusione dispersa tra lavoro e non-lavoro. Tale soggetto è esposto ad ogni genere di frammentazione, ma esprime anche un modo d'esistenza che potrebbe assumere il reddito di cittadinanza come retribuzione egualitaria della cooperazione sociale, a partire dalla quale le avventure individuali possano liberamente svilupparsi
  • Alcuni dicono, come Guy Aznar, che i fautori del reddito universale sono sognatori riformisti che finiscono per civettare con i liberisti. Anche l'ultimo Gorz e Alain Bihr sottolineano il rischio che una politica sociale limitata alla garanzia di un minimo vitale, non aggredendo l'attuale struttura occupazionale in sè, finisca con il sancire il crescente dualismo del mercato del lavoro tra pochi garantiti e la massa crescente dei sub-lavoratori, ribadendo il paradosso per cui alcuni lavorano, mentre altri rimangono del tutto inattivi. Sotto tale profilo solo la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro sarebbe una risposta adeguata alla flessibilità indotta dal Capitale ripartendo su basi eque e condivise il risparmio che le nuove tecnologie consentono nell'impiego di manodopera. Bascetta e Bronzini a tal proposito obiettano che in realtà tale opzione valuta erroneamente la capacità regolativa del diritto del lavoro grazie alla quale si dovrebbe attraverso i classici canali della contrattazione collettiva redistribuire progressivamente i carichi di lavoro, evitare la contrazione ulteriore dell'occupazione ed addolcire i ritmi per tutti. In realtà con la frantumazione dei rapporti d'impiego sta venendo meno pure l'insieme di presupposti per calcolare la giornata di lavoro.
  • Inoltre perchè se si riconosce che il lavoro non è più la principale fonte di ricchezza, la stessa misura della ricchezza sociale intesa come tempo di lavoro viene ripristinata considerando tabù un diritto al reddito che non derivi dall'osservanza di un orario di lavoro ancorchè ridotto? C'è da aggiungere poi che la riduzione dell'orario interessa solo una fascia ristretta di lavoratori stabili impiegati nelle grandi aziende, giacchè nel settore privato la quota maggiore del lavoro è ormai sfuggita a qualsiasi meccanismo di controllo e di regolamentazione. E' arduo pensare oggi che per legge o attraverso una contrattazione collettiva si possa stabilire la quota di lavoro per ognuno: tale capacità di direzione e controllo dei processi produttivi è fuori dalla portata pratica delle forze che si oppongono all'egemonia del mercato. A tal proposito Offe ha evidenziato la scarsa fungibilità come bene del tempo di lavoro e la maggiore fungibilità del denaro: perchè una riduzione d'orario sia effettivamente interessante esso deve riguardare certe fasce orarie e certi periodi (senza contare il fatto che le esigenze d'orario dei lavoratori sono le più varie). E' la discrepanza tra preferenze individuali e strategie collettive che sta alla base del fatto che forme consolidate di azione collettiva non riescano a produrre riduzioni dell'orario lavorativo di portata sufficiente a migliorare la situazione critica dell'occupazione. Rifarsi come faceva Gorz alla capacità di programmazione interna delle imprese trascura il fatto che le imprese sono organizzazioni autoritarie che non possono costituire il modello di una società complessa. Una contesa sul tempo di lavoro sociale non può che contare nella fase attuale sulla sperimentazione politica, su conflitti di base nei luoghi di lavoro e su percorsi ancora da costruire
  • In realtà tra riduzione dell'orario di lavoro e reddito universale non c'è incompatibilità, ma implicazione giacchè chi esclude il secondo lascia il settore della subordinazione privo di quella rete di protezione di base che costituisce l'equivalente funzionale delle prerogative classiche del diritto al lavoro. Senza questa garanzia di libertà minima, è difficile pensare che anche i lavoratori garantiti si imbarchino in una lotta per la riduzione dell'orario di lavoro, dal momento che tale misura è stata sinora adottata solo in chiave difensiva con riduzione di salari e per evitare licenziamenti
  • Comunque sia Gorz che Bihr hanno almeno in parte rivisto le loro pregiudiziali, Gorz ammettendo che l'idea del reddito di base guadagna terreno in un contesto in cui il posto di lavoro stabile non è più la norma, Bihr dicendo che il reddito minimo sarebbe la parte di ricchezza sociale di cui l'individuo può appropriarsi in quanto membro della società per il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e dei suoi progetti esistenziali. Gorz, Bihr e Aznar però evidenziano altre difficoltà quali quella per cui il reddito minimo potrebbe rilanciare la logica dello Stato assistenziale proteggendo individui isolati e privi di spazi di comunicazione, omologati da una previsione legale generale ed astratta. In realtà le proposte sul reddito minimo tengono conto della crisi dello Stato sociale, dove già ci sono forme di reddito di cittadinanza mascherate come ammortizzatori sociali per i licenziamenti(prepensionamenti, casse integrazioni lunghissime, liquidazioni non calcolate sul lavoro erogato ma frutto di finzione) e più finanziariamente gravose (perchè agganciate ad un reddito ipotetico di un lavoro che non si svolge da anni) oltre che problematica rispetto al principio di eguaglianza (perchè i licenziati sì e quelli che non hanno mai lavorato no?)
  • Infatti se bisogna evitare quell'eterogenesi dei fini per cui il pubblico, inteso come rimedio alle patologie del mercato, si attua in forme burocratiche e reificanti, allora con il basic income ci si muove nella direzione giusta: Luigi Ferrajoli a tal proposito dice che l'assicurazione a tutti di minimi vitali consentirebbe, grazie all'astrazione da condizioni particolaristiche e da decisioni selettive, da un lato una radicale sburocratizzazione dello Stato sociale all'insegna della trasparenza e della legalità e dall'altro una formalizzazione efficace delle procedure di tutela dei servizi sociali. Un reddito di cittadinanza favorirebbe la rinuncia a costosi quanto inefficaci apparati di regolazione del mercato del lavoro, non comporterebbe incremento degli organici nei servizi pubblici. Il basic income non sarebbe neppure in contrasto con i lavori socialmente utili sempre che queste ultime non siano forme di lavoro coatto. L'ultimo Gorz ammette pure che il reddito di base è un momento necessario per la messa in opera di nuove modalità dell'agire e del vivere sociale costituendo cioè un contesto dove ognuno verrà attratto da più tipi di legami associativi che lo inseriranno in attività organizzate, costruendo così il complessivo legame sociale al di là del rapporto salariato. Bisogna insomma superare gli steccati e ripensare ad una strategia complessiva dove diverse istanze (la partecipazione di tutti alla ricchezza sociale, la difesa del lavoro in tutte le sue forme, il riconoscimento di attività socialmente utili e l'equa riduzione del tempo di lavoro eterodiretto) convergano tutte verso la messa in stato d'accusa della società postfordista

L'articolo di Bascetta e Bronzini si può sottoscrivere quasi per intero, con una sola osservazione: è troppo presto perchè il reddito di cittdinanza possa essere giustificato sulla base della tesi per cui bisogna remunerare il general intellect. Ma andiamo per gradi:

  1. Il reddito di cittadinanza viene giustificato a vario titolo (liberale, comunitarista o marxista). Questa è una sua forza in quanto consente di riconfigurarlo progressivamente da posizioni minimalistiche sino a posizioni più radicali man mano che quelli che riteniamo essere i suoi effetti positivi si articolano legittimando sempre più una sua estensione.
  2. A mio parere inizialmente (perchè sia approvato in un contesto limitato ed angusto come quello italiano) il reddito di cittadinanza deve essere quello un reddito minimo e più circoscritto di tipo liberale (così su di esso ci può essere una maggior convergenza di forze).
  3. Perciò la sua necessità deve essere quella del mantenimento di un certo livello della domanda aggregata che una disoccupazione strutturale come quella europea non può alla lunga permettere (soprattutto se negli Usa scoppierà la bolla del debito privato, prevista da Sylos Labini prima di morire). E la forza dei movimenti che si collegano alla richiesta del reddito di cittadinanza deve essere quella di chi vuole rappresentare la possibilità di frenare l'instabilità della domanda interna. Dunque non ci si deve presentare come quelli che producono ma non vengono riconosciuti, ma come quelli che potrebbero consumare e non possono farlo in un arco intertemporale lungo.
  4. La tesi del general intellect accenna a quella che potrà essere la legittimità del movimento proveniente dall'ambito del non-lavoro, ma attualmente deve risolvere il problema di unificare le diverse componenti di questa sorta di "mondo-della-vita" tenuto fuori dalla dimensione del lavoro salariato: la prima dimensione è quella residuale, ma ancora consistente a livello mondiale del contesto non- capitalistico in cui l'accumulazione del capitale si svolge (tematizzata da Rosa Luxemburg e poi in maniera più culturalista dai terzomondisti e poi da Immanuel Wallerstein) ; la seconda dimensione è quella delle relazioni continuamente producentisi tra i vari individui all'interno delle nostre società e che come dicono giustamente Bascetta e Bronzini effettivamente contribuiscono in maniera silente e determinante al processo di valorizzazione del lavoro salariato e del capitale; la terza dimensione è quella del general intellect marxiano che a mio parere è costituito dall'applicazione sistematica delle scienze alla produzione e sancisce in maniera definitiva il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo. Queste tre dimensioni sono attualmente in parte separate tra loro (mentre Negri e gli stessi Bascetta e Bronzini le considerano già tutte insieme) e la costituzione del soggetto antagonista è tutt'uno con il processo di integrazione tra queste diverse dimensioni: solo quando questa integrazione comincerà a funzionare socialmente, economicamente e politicamente ci potrà essere quel passaggio dal reddito minimo liberale e keynesiano al reddito di cittadinanza vero e proprio, cioè dalla dignità puramente umanistica del bisogno e mercantile del consumo alla rivendicazione di una raggiunta integrazione tra produzione e riproduzione sociale. Ma il reddito di base nelle sue diverse accrzioni potrà essere il filo rosso che unirà le fasi di questa lotta e di questo processo di fuoriuscita dal modo capitalistico di produzione

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