venerdì, marzo 28, 2008

vita da operai

Questioni d’inizio anno 2008: La vita degli operai.

L’anno che si è chiuso e quello che comincia ad incamminarsi verso primavera è stato costellato da innumerevoli casi di incidenti mortali sul lavoro. Ciò che è avvenuto alle acciaierie Thyssen, ha scoperchiato le responsabilità del mondo delle imprese. Le morti sul lavoro sono uscite dalla considerazione pubblicistica della marginalità delle piccole imprese. Con la Thyssen, ma anche con l’ILVA di Taranto, si è riaperta la questione del lavoro Killer, la media nazionale delle morti è passata da tre degli anni passati a quattro al giorno, la gravità sociale del fenomeno ha sommerso l’intero ambiente politico. E ciò conferma quanto da tempo abbiamo sostenuto sulla questione amianto: prima ti fanno sgobbare fino a rimetterci la vita, e solo dopo arriva qualche legge che tenta di arginare per ricondurre il fenomeno nelle compatibilità fisiologiche del sistema.
Nonostante questo, gli operai tornano al centro della scena.
Addirittura il segr. del PdCI Diliberto rinuncia alla sua candidatura nella lista Arcobaleno per far posto a Ciro Argentino, delegato sindacale della Thyssen. Un altro operaio è candidato nel PD di Veltroni, perché ha sposato in pieno la tesi che può esserci un accordo tra i produttori. Così ha definito Veltroni gli operai che mettono braccia e intelligenza, la quale, tranne brevi periodi storici, non è mai stata pagata, e i capitalisti che impiegano il loro capitale.
Ci può essere un accordo simile? Tranne ovviamente gli accordi di tipo sindacale, e non mi riferisco a quelli che firmano le attuali organizzazioni sindacali, perché niente posso aggiungere alla già matura critica che i lavoratori gli fanno, ma considero l’ipotesi di accordi migliori, ed anche in questo caso la risposta è NO! Non ci può essere un accordo tra il capitale e il lavoro.
L’ esempio di cui mi servirò per dimostrare l’infodatezza di questo accordo è tratto dalla discussione che K. Marx sostenne a Londra nel 1865, in una serie di conferenze dell’Internazionale Operaia da un anno appena fondata, il cui contenuto è stato pubblicato col titolo “Salario, Prezzo e Profitto”.
In quell’occasione Marx trattò vari argomenti:
1 - Dimostrò che l’aumento o la diminuzione del salario non intacca la legge del valore. In determinate condizioni di stabilità tra capitale e lavoro la merce prodotta ha sempre lo stesso valore. Per cui, la diminuzione o l’aumento del salario significano soltanto il relativo aumento o diminuzione del profitto, e non già la scomparsa di esso quale incarnazione della classe capitalistica e del suo “circolo infernale” dei prezzi e dei salari.
2- Precisato questo punto, come un principio da cui non si può deviare, passò ad esaminare la dinamica economico - sociale del capitale, i cui due elementi essenziali sono la concorrenza e la concentrazione.
3- Dalle conclusioni su questo secondo punto che illustrerò di seguito, Marx passò ad esaminare tutte le possibili azioni che gli operai potevano portare avanti sul terreno sindacale. Non le giudicò né insensate né irrealistiche. Anzi, dimostrò che esse erano una necessità da cui gli operai non potevano sfuggire, e che tutte le resistenze dei capitalisti, giustificate secondo la tesi che l’aumento dei salari faceva aumentare i prezzi, era infondata, e mirava a sfiancare gli operai nella loro lotta facendola apparire una cosa inutile. Ma avvertì che questo tipo di lotta non combatteva le cause della miseria degli operai, ma gli effetti di queste cause, e mise in guardia gli operai dalla inefficienza e dal modo con cui si portava avanti questa lotta, cioè mise in guardia gli operai sul modo irrazionale di come i sindacati organizzavano e gestivano la forza che essi mettevano in campo contro i padroni.

L’operaio che avrà la pazienza e saprà sottomettersi a questo ulteriore sacrificio dello studio di questo piccolo libro, costaterà quanto siano attuali i giudizi e quanto siano preziose le indicazioni che Marx offrì alla lotta per l’emancipazione dallo sfruttamento.
Anche se una parte del contenuto di questo libro trova largo uso nella cosiddetta “politica dei redditi”, che con parole più roboanti quali “giustizia sociale” o “redistribuzione sociale della ricchezza”, viene presentata dai sinistri come ultima spiaggia, l’ulteriore sviluppo dell’analisi di Marx, di cui il punto 2 è la premessa, ci fa capire non solo che la politica dei redditi è un imbroglio dei padroni, benché si presenti con un lato positivo, ma scopriremo addirittura che in determinate condizioni si arriva alla sua stessa impossibilità.
Le condizioni attuali lo dimostrano a sufficienza. Alla insopportabile condizione economica dei lavoratori che in quest’anno fuoriesce dall’inferno della loro vita, la borghesia risponde accorgendosi della loro miseria. Non perché produttori espropriati della ricchezza che producono, per la quale si dovrebbe stabilire in via del tutto pacifica un aumento dei salari, ma perchè la loro miseria deprime i consumi e quindi la produzione industriale e la crescita economica della società. Quindi l’unica risposta che i capitalisti, con tutto il loro apparato borghese di politici e sindacalisti sanno offrire, è sempre di aumentare i loro profitti, perchè questo significa quando di pretende un nuovo aumento di produttività come unica possibilità di aumentare i salari, che come sappiamo sarà del tutto effimero.

Ci può essere quindi un accordo tra gli operai e i padroni secondo quanto abbiamo specificato prima?
In quelle discussioni dell’Internazionale Marx giunse alla considerazione finale: ” La lotta fra capitale e lavoro e i suoi risultati”- pag. 105 libro citato, Editori Riuniti, va edizione, 1955-: […]. Con lo sviluppo della produttività del lavoro, l’accumulazione di capitale è molto accelerata,… Si potrebbe dunque concludere… che questa accumulazione… debba far traboccare la bilancia a favore dell’operaio, in quanto crea una domanda crescente di lavoro. […]. Ma parallelamente all’accumulazione progressiva del capitale ha luogo una modificazione crescente della composizione del capitale. Quella parte del capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione di ogni genere, aumenta più rapidamente di quell’altra parte del capitale che viene investita in salari, cioè per comprare lavoro. […].
Se inizialmente il rapporto tra questi due elementi del capitale era uno a uno, con il progresso dell’industria esso diventa cinque a uno, e via di seguito.
- Infatti, ndr - Se di un capitale globale di seicento, si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie prime, ecc., e trecento in salari, basta raddoppiare il capitale globale per creare una domanda di seicento operai invece di 300.
Ma se dello stesso capitale di 600, cinquecento parti sono investite in macchinari, materie prime, ecc., e soltanto 100 in salari, questo capitale globale deve salire da 600 a 3600 per creare una domanda di 600 operai invece che di 300. Con il progresso dell’industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l’accumulazione del capitale. Essa aumenterà indubbiamente, ma in proporzioni continuamente decrescente rispetto all’aumento del capitale. […]. Queste poche indicazioni basteranno per mostrare che proprio lo sviluppo dell’industria moderna deve far pendere la bilancia sempre più a favore del capitalista, contro l’operaio, e che per conseguenza la tendenza generale della produzione capitalistica non è all’aumento del livello medio dei salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più basso.
Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, ciò significa forse che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e disperati a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto.[…].
Credo di aver dimostrato che le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l’aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità di lottare contro il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come merce. […]. Nello stesso tempo la classe operaia, …non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. […], che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dalle oscillazioni del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera, ed è nello stesso tempo gravido delle condizioni materiali e delle forme sociali necessarie per una trasformazione e ricostruzione economica della società. Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un salario giusto per un giusto lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera la parola d’ordine rivoluzionaria: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”. […].

Ma perché lo sviluppo dell’industria fa pendere la bilancia a favore dei capitalisti e contro gli operai?
L’esercito industriale di riserva
K. Marx
da - Il Capitale, vol. I Editori Riuniti 1997 pag. 688 / 701.
e - Il Capitale, Newton Compton Editori 1976, pag. 853 / 852 -

[…]. L’accumulazione del capitale, che all’inizio appariva come una sua estensione quantitativa, si realizza, come abbiamo visto, attraverso un costante cambiamento qualitativo della sua composizione, in un costante aumento della sua parte…costante - fissa - a spese di quella variabile - salari -. […]. L’accumulazione capitalistica…produce in continuazione, ed esattamente in rapporto alla propria energia e alla propria entità, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente alle esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua ossia supplementare. […]. Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione, ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa a sua volta la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico.
Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione del capitale il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]….per godere di un libero gioco, per avere mano libera… […].
L’esercito industriale di riserva, …. è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e della offerta del lavoro. […]. Quelli che vengono resi liberi, non sono soltanto gli operai soppiantati direttamente dalle macchine, ma in egual misura anche i loro sostituti regolari e il contingente addizionale, che viene di solito assorbito regolarmente quando l’impresa si estende sulla vecchia base - della composizione del capitale, cioè della ripartizione tra capitale fisso e capitale variabile n.dr. -. […].
Che assuma questi o altri operai, l’effetto sulla domanda generale del lavoro sarà uguale a zero, fintantoché questo capitale sarà esattamente sufficiente a liberare il mercato di quello stesso numero di operai che le macchine vi hanno gettato.
Se esso ne occuperà un numero minore, la massa degli operai in soprannumero crescerà; se ne occuperà un numero maggiore, la domanda generale del lavoro crescerà soltanto dell’eccedenza degli operai occupati su quelli “messi in libertà”.[…].
Il che significa quindi che il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che l’aumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro. […].
Quindi, non appena gli operai penetrano il mistero e si rendono conto come possa avvenire che, nella stessa misura che lavorano di più, …. perfino la loro funzione di valorizzazione del capitale diventa più precaria per essi; non appena scoprono che il grado d’intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della popolazione relativa; non appena quindi cercano mediante Trade Unions, ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe, - il capitale, e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della “eterna” e per così dire “sacra” legge della domanda e della offerta.
Ogni solidarietà fra operai occupati e quelli disoccupati turba infatti l’azione “pura” di quella legge. Non appena,…circostanze avverse impediscono la creazione dell’esercito industriale di riserva e insieme impediscono la dipendenza assoluta della classe operaia dalla classe dei capitalisti, il capitale si ribella…contro la “sacra” legge della domanda e della offerta e cerca di raddrizzarla con mezzi coercitivi. […].

La risposta degli operai:
Se gli scioperi hanno più che dimostrato una tendenziale forza d’urto, per come sono portati avanti dalle centrali sindacali, si dimostrano invece del tutto svilite. Per questo è necessario che agli scioperi deve seguire una Coalizione degli Operai. Per le questioni finora toccate molto alla larga per dimostrare quanto è illusorio, ma anche quanto sia banditesco proporre in politica degli operai che si fanno portavoce di simili sciocchezze, il processo di unità operaia, pur vertendo sui caratteri di difesa, non può prescindere dalla necessità di incamminarsi verso la realizzazione più piena e sempre più fondata di un Partito politico indipendente degli operai.
Perché ai due operai della Thyssen voglio porre la seguente domanda: se invece di questioni legate ai salari e alla distribuzione sociale della ricchezza, che è bene sempre precisare che sono gli operai stessi a produrla, dovremmo discutere, ad esempio, dei materiali che si usano nella produzione, come pure dei processi chimici e tecnologici, che sappiamo hanno prodotto e produrranno nel prossimo futuro la morte per gli operai, che per l’Europa si aggira su 200 mila nuovi casi mortali, come il solo caso amianto dimostra, che spazio avrebbero le loro illusioni benché mosse da nobile intento?
Affinché la vita degli operai fuoriesca dalla casualità, è necessario che siano essi stessi padroni del ciclo produttivo. Un materiale che è nocivo per la salute o non si mette in produzione, oppure, se è necessario, lo si adopera con le migliori precauzioni possibili, e ciò nella società capitalistica, per il profitto che vi deve dominare, può avvenire sempre fino ad un certo punto. Perché la necessità è sempre il regno della schiavitù, e soltanto con il potere degli operai può accadere che sia relegata nelle cose inservibili, man mano che cresce il loro potere di indurre anche la scienza verso programmi dal contenuto sociale, anzicchè dal lato della utilità e profittabilità privata.
Da questo punto di vista è quanto mai risibile l’entrata di questi nuovi apostoli operai nell’arena famelica della politica borghese.
Perché se uno si domanda quali sono i mezzi coercitivi di cui Marx parla per raddrizzare la legge capitalistica della domanda e dell’offerta del lavoro, scoprirebbe che essi sono il protezionismo economico fino al fascismo interno e l’imperialismo esterno che stiamo vedendo in Palestina, in Iraq, in Afghanistan, in Cecenia. A questi mezzi pratici non si può opporre né l’egemonia basata sulle chiacchiere, né l’opinione pubblica pacifista, che, benchè sarà chiamata a svolgere un ruolo, esso lo potrà avere soltanto in presenza di una rottura rivoluzionaria in un punto del mercato mondiale. Ed è in quest’ottica che deve essere indirizzato il lavoro della formazione del Partito politico indipendente degli operai.
Elp. 15/16 – 3 - 2008

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