lunedì, dicembre 31, 2007

La repressione contro gli operai ad un punto di svolta: perché…..

Da Epica

Dalle manifestazioni dei Consigli di Fabbrica dei primi anni ’90, che fecero indietreggiare l’attacco contro le pensioni, salvando una parte consistente degli operai e dei lavoratori allora in forza, sono trascorsi quindici anni. Anni in cui operai più giovani hanno rimpiazzato, in numero oltrechè minore, gli operai andati in pensione, ma ad un tasso di produttività maggiore di quello che si poteva ottenere con lo stesso numero.
Il sistema pensionistico pensato dal Sg. Dini - è bene ricordare che fu il capo di un governo per la cui maggioranza il PRC dovette elaborare la prima scissione. Un drappello di parlamentari amici di Garavini, ex Segrt. Reg. Fiom-Piemonte ai tempi dei 35 giorni di lotta alla Fiat nel 1980, appoggiò il governo in nome dello spauracchio di Berlusconi.-, le cui invariate e sostanziali proiezioni sociali, insieme all’accordo del ’93, alla legge Treu e alla legge 30 in materia di mercato del lavoro, fanno sempre più sentire le loro ricadute negative sulle generazioni più giovani dei lavoratori.
Quindici anni di lotte, anche dure, in cui gli operai hanno fronteggiato i padroni fabbrica per fabbrica, ed i lavoratori impoveriti il governo nelle piazze, ma hanno anche sperimentato sulla propria pelle due sostanziali questioni, mentre oggi un’altra si affaccia sempre più potente.
La prima è il risultato di queste lotte, nonostante i sacrifici consumate in esse. In generale, non è esagerato affermare che risultati veri e propri non ne abbiamo portato a casa nessuno, e che, anche quel poco che si è riuscito a strappare è stato sempre quello predeterminato dalla concertazione pubblicamente dichiarata, o stabilita nel segreto delle loro riunioni.
La seconda questione è rappresentata da come la repressione si è scatenata contro i vari livelli delle lotte, sia dalle aziende in prima persona, sia dalle centrali sindacali contro i suoi stessi militanti per la loro opposizione agli accordi con la confindustria, o tra il sindacato e le singole aziende.
Prima di passare alla terza questione, che a mio parere è imperniata attorno alla necessaria possibilità di generalizzare le lotte, credo sia utile ragionare attorno a questi due primi aspetti.
La repressione delle lotte è avvenuta come tradizionalmente ci hanno abituati a constatare sia i padroni che il riformismo negli anni addietro: da una parte l’azienda con le sue provocazioni interne ed esterne alla fabbrica, dall’altro le organizzazioni politico-sindacali che isolavano con vari provvedimenti disciplinari, o con campagne mediatiche, le avanguardie dalla massa in movimento.
Ne citerò alcune di queste lotte e della repressione che subirono, perchè a mio parere esemplari, non solo per il momento in cui si svolsero, dato che poco tempo prima la classe operaia veniva data a furor di popolo e dallo stuolo dominante degli intellettuali per scomparsa, integrata o addirittura dormiente, ma anche per il fatto che in quelle lotte già si intravedevano problematiche più fresche su cui oggi è più accesa la discussione.
In merito al rapporto tra gli operai, il sindacato e la contrattazione, c’è da ricordare i 16 operai della Piaggio di Pontedera, di cui alcuni anche RSU, espulsi e sospesi a fine luglio 2004 dal loro stesso sindacato, la Fiom di Pisa.
La lettera che segue, di cui a monito dei lettori riporto la notizia che non fu pubblicata né da Liberazione e né da Il Manifesto, con la quale gli operai contestavano la repressione subita, tranne che per la collocazione organizzativa implicita alla continuazione della battaglia, cioè dentro o fuori i maggiori sindacati, nella sostanza contiene punti identici a molte situazioni di lotta e di contestazioni operaie.
Solo per rimanere in ambito Fiat, basta ricordare le contestazioni del 2006 alla Fiat di Pomigliano contro il contratto cui seguì il licenziamento di alcuni militanti dello Slai-Cobas, e quella contro i provvedimenti burocratici congiunti contro delegati RSU a Mirafiori che lasciarono il Sin.Cobas; le motivazioni sono sempre le stesse e la lettera che riporto le coglie pienamente.

“L'espulsione di undici tra delegati e lavoratori e la sospensione di altri cinque è un fatto senza precedenti nella storia della CGIL, ed è necessario che tutti possano conoscere i fatti che stanno dietro una simile decisione. Veniamo accusati di aver pubblicamente e sistematicamente contestato, con interventi in assemblea, volantini, promozione di agitazioni, nientemeno che la linea sindacale della Segreteria provinciale di Pisa della FIOM.
Perchè l'abbiamo contestata? Chi conosce la storia sindacale alla Piaggio negli ultimi anni sa bene che dal '95 una serie di accordi tra OO. SS. provinciali e Azienda ha introdotto alla Piaggio forti aumenti dei ritmi di lavoro, oltre 2000 licenziamenti, uso abnorme del lavoro stagionale, flessibilità e sabati lavorativi, senza aumenti salariali. In particolare, il metodo dei tempi di lavoro TMC2, ben noto perchè alla base della rivolta di Melfi, è stato introdotto alla Piaggio da un accordo aziendale del 1995. La sua applicazione, anche di fronte alla resistenza operaia,è stata possibile solo grazie al sostegno delle OO.SS. provinciali, in particolare dalla FIOM.
Questo ha portato dal '95 a oggi a una serie di accordi, che hanno autorizzato la stagionalizzazione della produzione, con l'uso massiccio del lavoro precario e dei sabati lavorativi e hanno acconsentito ai licenziamenti generati dai forti aumenti di produttività conseguenti agli aumenti dei ritmi di lavoro.
Nell'ultimo anno, con l'arrivo alla Piaggio di Colaninno, la disponibilità della FIOM provinciale ad ulteriori concessioni all'azienda si è tradotta nella sigla di un accordo integrativo che riduce al minimo gli aumenti salariali, assenti in Piaggio da nove anni, condizionandoli interamente agli obiettivi aziendali, conferma l'applicazione del TMC2, introduce la legge 30 e reimpone i sabati lavorativi, che le lotte operaie avevano resi impraticabili negli ultimi tre anni.
L'accordo è stato approvato a maggioranza strettissima, solo grazie al voto favorevole degli impiegati, in un Referendum fuori delle regole (per es., solo quattro rappresentanti del NO, venti del SI, su otto seggi, un rappresentante del NO e cinque del SI in Commissione elettorale).
Tutto questo stracciando la piattaforma precontrattuale, dai contenuti diametralmente opposti, approvata lo scorso Settembre dai lavoratori a larghissima maggioranza nel quadro delle iniziative della FIOM contro gli accordi separati di FIM e UILM sul contratto nazionale e condraddicendo apertamente tutte le posizioni e gli obiettivi della FIOM nazionale su TMC2, legge 30, flessibilità e salari.
In questi anni noi ci siamo fatti interpreti della resistenza operaia, che si è espressa all'inizio con scioperi di reparto e ha nel tempo consolidato un gruppo di lavoratori e delegati FIOM, circa la metà dei 17 FIOM nella RSU prima del suo rinnovo nello scorso Novembre. La continua crescita del sostegno operaio alle nostre posizioni ha determinato negli ultimi anni uno scontro aperto in fabbrica con la Segreteria provinciale della FIOM.
In Ottobre le dimissioni dei delegati FIOM legati alla segreteria provinciale hanno anticipato il rinnovo della RSU. Le elezioni sono state gestite da una commissione di sole quattro persone, nominate dalle segreterie provinciali di FIOM FIM e UILM e UGL, col disprezzo di ogni regola e garanzia (assenza in tutti i seggi degli elenchi dei votanti, divieto ai componenti dei seggi di siglare le schede elettorali, siglate solo della Commissione elettorale, che ha rifiutato di indicarne il numero totale, urne facilmente manomettibili e nella disponibilità della sola Commissione per lunghi periodi, in particolare per quattro ore tra la fine delle votazioni e l'inizio dello scrutinio, durato cinque giorni, rifiuto totale, anche a formale richiesta, di accesso ai verbali). [.....].
Dall'inizio dell'anno sono stati compiuti una serie di atti arbitrari nei nostri confronti, tra i quali l'allontanamento sostanziale dalle trattative per il contratto integrativo, l'esclusione, contro il regolamento, della nostra lista dal Congresso provinciale della FIOM, e infine la richiesta, da parte della Segreteria provinciale alla CGIL regionale dell'avvio del procedimento disciplinare che si è concluso con 11 espulsioni e 5 sospensioni.
Sembra una commedia dell'assurdo: noi che abbiamo rivendicato gli obiettivi della FIOM nazionale contro la diversa linea sindacale della FIOM provinciale e denunciato in tutte le sedi le continue violazioni regolamentari con cui è stato impedito alla volontà dei lavoratori di esprimersi, veniamo sanzionati per averlo fatto apertamente e pubblicamente.
La nostra vicenda è solo un episodio di un problema, che si sta imponendo sul piano nazionale e che è già esploso con la lotta degli autoferrotranvieri, di reale e verificabile rappresentanza dei lavoratori, che le organizzazioni sindacali finiscono per trattare come soggetti passivi, privi della possibilità di espressione democratica e del diritto di determinare le scelte di linea sindacale e gli obiettivi delle rivendicazioni, e perciò privi degli strumenti fondamentali di difesa delle proprie condizioni di lavoro. Questo problema sarà difficilmente eludibile e fa tutt'uno con la necessità di una ripresa dell'iniziativa politica del movimento operaio, oggi subalterno agli interessi e alle prospettive di classi parassitarie e inconsistenti.”
fonte: infoslai@fastwebnet.it
Come si vede siamo in presenta di un attacco concentrico: mentre alcuni nuclei di operai si mettono in movimento contro i padroni, devono nello stesso tempo, se non anche prima, entrare in contrasto con i propri dirigenti sindacali e difendersi dai loro attacchi pur di rimare nell’ambito della loro classe, senza esserne isolati e ricacciati in angolo.
Un caso da manuale lo dimostrò nel 2001 la lotta degli operai alla FMA di Pratola Serra. La fabbrica fu bloccata per cinque giorni dagli operai che rivendicavano “Uguale Lavoro - Uguale Salario”. La battaglia, pur se ebbe risonanza nazionale e momenti di mobilitazioni ricadenti solo sulle spalle di nuclei ristretti di operai, non fu generalizzata. I sindacati, tranne simboliche presenze, non vollero accettare lo scontro con la Fiat così com’era maturato in tutto il comparto, e non ci fu nessuno in grado di farlo. Non solo, ma quell’esperienza di lotta dovette ripiegare per concentrarsi nella battaglia per far rientrare i licenziamenti promossi a seguito di provocazione esterna alla fabbrica, lasciando così alle ortiche gli obiettivi della lotta intrapresa.
Gli esiti di questi attacchi li conosciamo. Sono rientrati, sia per l’impugnazione dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, ma soprattutto per le radici collettive di cui erano espressione questi operai incriminati.
Un caso a parte invece fu il licenziamento di F.F., un operaio della Fiat New Holland di Modena. Fu licenziato per scarso rendimento. Ma, nonostante l’individuazione soggettiva che mirava a colpire un militante operaio marxista, l’azienda fu sconfitta dopo circa due anni di sentenze e ricorsi. La stessa organizzazione scientifica del lavoro, con tanto di cartellini - tempi di produzione su cui è scritto nero su bianco la quantità da produrre in condizioni ottimamente ergonomiche, non poteva far ricadere sull’operaio le deficienze tecniche e ambientali in cui lavorare. La sua strenua resistenza a tutte le sirene con la faccia dell’Euro, lo riportarono in fabbrica al suo posto di combattente.
Da quando si è visto fin’ora, la repressione degli operai ribelli ha marciato su di un solo livello, quello che nelle premesse ricadeva su interessi collettivi. Così: da parte delle aziende, vi è stato il tentativo di sotterrarli in un mare di guai giudiziari e di difficoltà economiche, da parte del Sindacato, lo scopo di rompere il legame tra queste soggettività incompatibili a tener la testa piegata e la restante massa degli operai. Come pure, ciò che nelle conclusioni poneva gli stessi problemi, abbiamo avuto, da parte dello Stato, la sua presenza intimidatoria e le cariche della polizia contro gli operai in sciopero.

Gli ultimi cinque licenziamenti di cui quattro alla Fiat-Sata di Melfi ed uno alla Fiat di Pomigliano d’Arco, rappresentano però un punto di svolta nella repressione operaia nelle fabbriche. Esso consiste nel fatto che le motivazioni si presentano sganciate dal movente dell’azione che li determina, cioè dagli interessi collettivi come il salario e l’organizzazione del lavoro contro cui gli operai organizzano scioperi e proteste, per incentrarsi invece sulla responsabilità individuale.
Questa forzatura avviata dalla Fiat con l’interpretazione dell’art 26 del CCNL dei metalmeccanici ci pone l’esatto rovescio della medaglia. Le azioni soggettive non devono mai uscire dagli ambiti degli interessi collettivi. Questa credo sia la lezione che il più grande gruppo industriale offre alla classe degli operai e specie alle sue avanguardie.
Una lezione storica, dal momento che la Fiat l’attua a difesa dei suoi interessi mentre gli operai saranno costretti a contrastarla fino alla resa dei conti finale con al comando, o la Fiat o gli operai.
Una lezione storica, perché i licenziamenti di Melfi, a parte la illegittimità riscrontabile sulla base dello stesso Diritto del Lavoro e in numerose sentenze della Cassazione, proiettano nel futuro ula possibile e pericolosa generalizzazione insita nell’elemento della sua premessa, come anche la possibilità che i padroni possano sostituirsi al potere punitivo dello Stato, nel mentre esso non ha ancora sanzionato niente.
Questa possibilità, in cui oggi a Melfi ne costatiamo i prodromi, riporta di nuovo la questione sugli interessi collettivi, ma ad un livello più alto dello scontro tra le classi, che né il diritto né le sentenze della Cassazione contemplano. Chi vuole capire capisca, perché qui si tratta di nuovo di rapporti di forza, ed essi si plasmano dentro lo scontro collettivo tra gli operai e il capitale.
È possibile, dato gli impulsi reazionari che stiamo riscontrando e senza che qui parli della competizione tra una sigla sindacale ed un’altra, continuare a pensare e ad agire senza rompere l’isolazionismo e quegli elementi di autocoscienza che caratterizzano la frammentazione organizzativa in cui sono immersi una nutrita schiera di operai e militanti che hanno perso ogni illusione riformista e concertativa ? La risposta è negativa.
Se si sta affacciando il Maccartismo del 21° secolo, la risposta non può riposare su iniziative frettolose, o isolate. Seppur generose negli intenti che spesso caratterizzano la piccola borghesia rivoluzionaria, nella realtà risultano invece proclami che non fanno altro che aprire gli occhi alle zecche senza che abbiamo possibilità di togliercene una. Perché se c’è una lezione da imparare è quella di sapere che nell’ambito di interessi che si contrappongono, le azioni di una parte ricadono comunque su tutta la classe. Ed i borghesi non fanno differenza su chi li promuove. Se nella storia hanno perseguitato finanche i democratici perché accusati di comunismo, questo dovrebbe far pensare ancora una volta di più alle responsabilità soggettive e al loro legame con gli interessi collettivi.
Una Coalizione Operaia. Solo a partire da essa si può in seguito valutare il come e il quando. Tutto il resto che fuoriesce da questo impegno non solo è sbagliato sul piano del materialismo, ormai ridotto ad una scadente scolastica ripetitiva di condizioni storiche superate, che al massimo può solo fare l’apologia culturale del 1848, del 1917 e del 1969, senza vedere in esse i reali esecutori e i compiti attuali in cui sono immersi per emanciparsi nuovamente.
Una Coalizione Operaia è necessaria per rimettere anche il pensiero di liberazione di questa classe nella collocazione oggettiva dello scontro tra le classi. Anche se ciò deve per forza far indietreggiare tutti i sostenitori “della coscienza esterna” con i loro programmi, una cosa do per certa: non esiste nessun pensiero teorico autonomo dalla evoluzione delle fondamentali classi sociali: gli operai e la borghesia.
I licenziamenti alla Fiat sono la reazione contro il processo organizzativo che strenuamente sta prendendo corpo in maniera autonoma, sia dentro la classe operaia che tra la gioventù precarizzata. La sua sempre più marcata fuoriuscita dai canoni di salvaguardia che il riformismo offre al sistema capitalistico, incapace com’è di contenere i risvolti sociali delle sue contraddizioni economiche, pongono al primo posto il problema dell’organizzazione.
Chiunque è su questo terreno non può far finta di non sapere che, per rispondere all’attacco del più grande gruppo industriale che ha inaugurato il sistema legale per effettuare licenziamenti selettivi degli operai ribelli, si può solo rispondere con l’unità degli operai. La Coalizione è il primo e fondamentale passo che si può e di deve percorrere.
Elp. 3 – 12 - 2007

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